La Notte di San Giovanni. Il solstizio nei suoi riti, simboli, erbe e leggende

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Sul finire di giugno, in una data che può variare tra il 20 e il 21 del mese, il grande orologio celeste batte il mezzogiorno nell’emisfero boreale, dando inizio all’estate astronomica.

Il Sole raggiungendo la sua massima declinazione positiva sull’equatore celeste, ci regala  il miracolo del giorno più lungo e della notte più breve (il contrario di quanto accade in un altro fondamentale transito del nostro astro, durante il solstizio d’inverno).

Nel giorno del Solstizio estivo, il Sole sembra fermarsi nel cielo  [dal lat. solstitium, comp. di sol «sole» e tema di stare «fermare, fermarsi»], per poi nei giorni successivi iniziare il moto inverso con la conseguente diminuzione delle ore di luce.

Come osservava Frazer, ne Il ramo d’oro, un evento del genere non poteva  sfuggire alla mente dei nostri primitivi antenati che coerentemente al principio della magia imitativa o omeopatica  dovettero ritenere di sostenere il Sole in questo delicatissimo transito, corrispondente al suo apparente declino, sorreggendo i suoi passi vacillanti e ravvivando la fiamma morente della sua lampada, accendendo enormi falò, recandosi processionalmente sui campi coltivati con le torce accese e facendo ruzzolare dai pendii enormi ruote infuocate.

Da questo primitivo nucleo di credenze e riti legato al calendario solare, discendono le feste contadine di mezz’estate nella nostra Europa: dall’Irlanda alla Russia, dalla Norvegia e dalla Svezia alla Spagna e alla Grecia, in cui il fuoco ha una parte fondamentale anche in chiave apotropaica, in quanto mezzo per allontanare gli spiriti maligni e consumare  le energie negative.

Il solstizio d’estate, per i babilonesi, rappresentava il matrimonio del Sole con la Luna. La Luna, dea delle acque, e dominatrice del segno del Cancro che inizia proprio con il solstizio, vengono fecondate dal Sole.

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Nell’antica Grecia, secondo i pitagorici, il solstizio d’estate era considerato la “porta degli uomini”, ossia la “discesa” o se si vuole l’entrata nella “caverna cosmica”, cioè nel mondo della generazione e della manifestazione individuale, mentre il solstizio d’inverno era la “porta degli dei”  da cui ritenevano si effettuasse la salita delle anime in via di liberazione.

Nell’antica Roma nel giorno del solstizio d’estate  si celebrava una grande festa dove tutti si divertivano  e si ubriacavano, una festa in onore della Dea Fortuna, che amava Servio come Egeria aveva amato Numa. Numerosi erano i divertimenti popolari e il Tevere si riempiva di imbarcazioni infiorate gremite di giovani che tracannavano vino. Si trattava di una specie di Saturnale di mezza estate, un replica degli autentici che si celebravano nel Solstizio d’Inverno.

Per i romani la festa era anche occasione per celebrare l’amore, infatti tra le manifestazioni principali vi era quella di formare delle coppie che, tenendosi per mano, saltavano sopra i falò o si lanciavano reciprocamente fiori al di sopra delle fiamme, scambiandosi promesse di matrimonio, in una notte considerata favorevole per trarre auspici.

Oltre al fuoco nel folklore europeo nella notte di San Giovanni era presente anche l’acqua, in quanto elemento purificatore.

Essa rivestiva un ruolo molto importante nei riti propiziatori e scaramantici, le contadine della Russia orientale si bagnavano nel giorno di San Giovanni, immergendosi insieme con un fantoccio che alcuni studiosi suppongono dovesse rappresentare il santo, mentre in Germania le donne erano solite uscire la mattina presto per lavarsi il corpo con la prima rugiada e rotolarsi nude sui prati. In Normandia era costume ruzzolare nudi sull’erba umida di rugiada per ringiovanire la pelle e preservarla dalle malattie e anche per far crescere i capelli.

A Roma e nei domini della Chiesa era diffusa pratica esporre sui davanzali, sui balconi o in luoghi all’aperto, delle ‘bagnarole’ piene d’acqua perché si credeva che il Santo, passando nottetempo, le avrebbe benedette.

Allo spuntar del sole era usanza lavarsi con la guazza benedetta di San Giovanni; l’acqua al pari del fuoco nella concezione magica tradizionale, si riteneva avesse il potere di liberare dalle scorie del passato e preparare a una nuova vita.

Esseri umani, animali, piante e anche semplici oggetti di uso quotidiano, dovevano partecipare al generale rinnovamento  mentre, analogamente a quanto accade in altri passaggi cruciali dell’anno, semplici attività si caricavano di significati particolari.

Frazer rammentava che l’usanza dei falò di mezz’estate era molto diffusa nell’Africa settentrionale, in specie in Marocco e in Algeria.

Il giorno di mezz’estate (24 giugno del vecchio calendario), detto ánsăra, si accendevano fuochi  nei cortili, nei crocicchi, nei campi bruciando erbe particolari tra cui il timo, la ruta, la camomilla e la menta, i cui fumi densi e aromatici erano apotropaici per i bambini e per i campi.
I tizzoni come in Europa erano usati per purificare le abitazioni ed era usanza saltare sulle fiamme per allontanare il malocchio e favorire la procreazione nelle coppie di giovani sposi.

Frazer osservava come questa tradizione fosse particolarmente interessante in considerazione del fatto che per i musulmani le festività sono legate al calendario lunare, mentre questa dei falò di mezz’estate è l’unica a cadere in un giorno preciso del  giorno solare. E ciò a testimonianza dell’arcaicità del rito e del suo radicamento nei costumi delle popolazioni arabe e berbere, nonostante secoli di islamizzazione.

Il fuoco, come l’acqua, secondo tradizioni diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo, è ritenuto un simbolo di fecondità e di rigenerazione, un elemento che proviene dal sole, divenendone la sua rappresentazione sulla terra. In molti degli antichi riti agrari i falò, le braci e la cenere erano ritenuti in grado di favorire la crescita delle messi e il benessere di uomini e di animali. Reminiscenze di queste antichissimi riti propiziatori della fertilità si mantennero vivi anche dopo la cristianizzazione della festa.

San Giovanni Battista, è  bene rammentarlo, è l’unico santo come la Vergine Maria, a godere il privilegio di una doppia celebrazione, della nascita (24 giugno) e della morte (29 agosto), una anomalia liturgica, che si spiega, al pari della dubbia collocazione della nascita di Gesù nel giorno del Solstizio Invernale, con l’importanza che la festività solare continuò a mantenere in Europa anche dopo l’eradicazione degli antichi culti politeisti, conseguente alla promulgazione dell’editto di Tessalonica, nel 380.

Ancora nel XVIII secolo a Roma, sulla piazza di San Giovanni e su, fino a Santa Croce in Gerusalemme “si accendevano grandi fuochi intorno ai quali il popolo ballava in ridda come scongiuro contro gli stregoni”, mentre nel corso della magica notte “era di prammatica bagnarsi il corpo nella fontana che era stata eretta nel 1588 insieme all’obelisco”, e per le giovani spose che desideravano avere  molti figli , sollevarsi le vesti e sedersi sull’erba umida di rugiada (la guazza) dei prati davanti alla basilica per un intimo lavacro propiziatorio. Ciummachelle erano dette le donne che si sottoponevano a quel rito lustrale con chiara allusione alle lumache – principale pietanza della festa romana – e alla loro forma slabbrata, che richiama assai da vicino l’organo sessuale femminile.

Le scorpacciate di lumache, oltre all’allusione sessuale, rimandavano alla credenza che mangiando le corna del gasteropode, simbolo della discordia, si sarebbero, in nome del principio omeopatico, ma per contrasto, favorita la riappacificazione tra familiari e amici.

Notte propiziatoria e favorevole agli incantesimi, in cui alla licenziosità s’intrecciava la credenza che le forze della natura, durante la vigilia, raggiungessero il loro culmine, aiutando ogni sorta di magia e sostenendo ogni desiderio.

Secondo una tradizione presente in tutta la penisola, le erbe raccolte la notte di San Giovanni avrebbero posseduto le loro virtù al massimo grado. Le erbe più note e ricercate della notte del solstizio sono l’iperico chiamato anche scacciadiavoli, considerato un  vero e proprio amuleto, l’artemisia detta anche assenzio volgare, consacrata a Diana-Artemide, la verbena simbolo di pace e di prosperità, il ribes i cui frutti rossi proteggono dai malefici come le rosse bacche dell’agrifoglio a Capodanno, la ruta per le sue note proprietà magiche.

Che il momento più propizio  per raccogliere determinate erbe officinali coincida con la notte di San Giovanni, oggi non è più ritenuta una sciocca superstizione popolare, né tanto meno diabolica, come al tempo della caccia alle streghe, quando donne sapienti, fattucchiere, guaritrici ed herbarie (o erbane) si recavano nei campi e negli orti per fare incetta di iperico, ruta e artemisia, come risulta dai documenti dei tribunali che le portarono a giudizio con l’accusa di essere al servizio del Diavolo.

È questo il caso di una donna romana, Finicella, portata a furor di popolo a processo, dopo una infuocata predica di Bernardino da Siena, nel 1426, e quindi condannata al rogo per “incantamenti” e stregoneria. Tra i reati che le furono imputati, vi era anche quello di essersi recata “in su la piazza di Santo Pietro” e aver preparato “certi bossogli d’unguenti fatti d’erbe che erano colte nel dì di santo Giovanni”.

Una pratica censurata dalle autorità ecclesiastiche, per le sue implicazioni magiche, e dunque diaboliche, come risulta nella deposizione di una guaritrice pordenonese, Angioletta delle Rive, accusata di stregoneria diabolica nel 1650 e morta in carcere l’anno successivo: “La mattina della solennità di San Giovanni Battista, innanzi che si levasse il sole io ero solita andare a raccogliere l’herba chiamata di San Giovanni, herba che fa una pianta grande com un bel fiore di color vinato, e ha le foglie gradi più di un palmo”.

Le domine herbarum erano ben consapevoli  che le erbe come l’iperico, la salvia, la ruta, il prezzemolo, raggiungevano il loro tempo balsamico, cioè il momento di maggior concentrazione del loro principio attivo, in specifici periodi dell’anno, come la notte tra il 23 e il 24 giugno, ideale per la raccolta delle più comuni e usate piante della farmacopea popolare già citate, oltre alle felci, all’artemisia e alla savina (erba demonifuga).

A San Giovanni era poi tradizione acquistare o procurarsi dell’aglio, per propiziare un anno di salute e di prosperità. Per favorire la ricchezza inoltre si raccomandava di cogliere alla mezzanotte un ramo di felce e di tenerlo in casa.
Altra tradizione assai diffusa era la raccolta della drupa verde delle noci per preparare il nocino, liquore assai celebrato per le sue proprietà, ma che nella sua lavorazione bisognava prestare grande attenzione a non usare attrezzi di metallo.

Notte indicata per trarre auspici, a Roma, in particolare, per prevedere il futuro, era diffusa tra le ragazze l’usanza di porre sotto il guanciale  le cosiddette “erbe di San Giovanni”, legate in mazzetto in numero di nove, tra queste indispensabile era l’iperico, che si diceva fosse in grado di far sognare “il volto del futuro sposo”.

Sempre a Roma, si credeva che in questa notte incantata la felce fiorisse e sfiorisse diventando nelle mani di chi l’avesse colta un potente talismano. E ancora, che le acque si tramutassero in sostanze preziose e che gli animali favellassero, mentre era possibile vedere in cielo il passaggio delle streghe dirette al noce di Benevento per la più celebrata fra le tregende.

Queste erano guidate da Erodiade – Salomè, poiché nelle leggende i due personaggi si erano confusi. Si racconta che, pentita di ciò che aveva fatto, questo duplice personaggio coprì il volto del Battista di baci e lacrime, ma dalla bocca del Santo uscì un fortissimo vento che la spinse nell’aria dove restò a vagare per l’eternità.

Simbolo della perfidia femminile acquisì nell’immaginario cristianizzato, marcatamente misogino, il significato di quintessenza della malvagità e della lussuria e quindi ipostasi del Diavolo al pari delle divinità dell’antica religione greco romana, e in generali dei culti europei precristiani, e perciò fu identificata da inquisitori e demonologi medievali, insieme a Diana, con l’oscura Signora del Gioco, la Domina Ludi al centro di un antichissimo retaggio culturale ancora attestato sul finire del Trecento in diverse aree del Nord Italia.

Forse relitto di un arcaico culto propiziatorio officiato da sole donne che divenne il nucleo, attraverso la rilettura diabolizzante dei tribunali di fede, della moderna leggenda di credenza del sabba delle adoratrici del Diavolo cristiano.

Questo spiega la leggenda diffusa a Roma ancora nel XIX secolo, delle streghe guidate da Erodiade, e in generale la presenza di questi mostri volanti assoggettati al Demonio, letteralizzazione in chiave ecclesiastica delle ancestrali energie negative che durante il rito del fuoco e dell’acqua si intendeva allontanare e neutralizzare.

Per scacciare le terribili arpie e gli altri immondi esseri notturni (larve, spettri e demoni) il popolo romano era uso accendere immensi falò che, accompagnati dal frastuono di campane, campanacci, tamburelli avrebbero liberato l’aria scacciando gli spiriti maligni. Attorno al fuoco purificatore si ballava, si cantava, ci si piccava con lazzi e oscenità, si cercava la persona amata e si stringevano comparatici extraliturgici, saltando sui tizzoni.

Si saltava anche per stringere un comparatico, un tempo ritenuto assai importante, considerata la funzione del Santo come patrono dell’amicizia, restando spiritualmente legati per tutta la vita (compari e comari di San Giovanni), e promettendosi eterna fedeltà, perché come recitava il proverbio popolare «San Giovanni non vuole inganni».

Al falò, apice della festa, si attribuivano numerose virtù benefiche, tra cui quella di trasformare una cipolla cotta sulle sue braci in un formidabile rimedio contro la febbre e i vermi intestinali.

A più riprese le autorità pontificie pubblicarono bandi per censurare gli aspetti più ludici, trasgressivi e superstiziosi del baccanale estivo ma nonostante ciò, la festa dei falò e della guazza si mantenne viva nel cuore del popolo romano sino agli inizi del Novecento, quando incominciò a conoscere un lento quanto inesorabile declino, almeno nei suoi aspetti “pagani”.

Lontani echi dell’antichissima tradizione si riflettevano in usanze popolari romane attestate ancora nel XIX secolo, come le “spighette” riposte nella biancheria e il “garofoletto” ossia un piccolo fiore che veniva benedetto quel giorno durante la messa, e altri rituali scaramantici come ad esempio quelli compiuti per proteggere l’abitazione dalle “streghe”  (versare un po’ di sale sulla soglia, incrociare le scope,  recitare alcune giaculatorie).

Ultimo tentativo di riesumare la festa di mezza estate fu l’organizzazione di un evento canoro nel 1891 a Piazza San Giovanni, adornata per l’occasione di lumi colorati e gremita  di bancarelle, sui cui banconi oltre alle classiche leccornie, facevano bella mostra i famosi campanelli in terracotta di Arpino, usati per allontanare le “streghe”.

Quella che sarebbe poi diventata per diversi anni il festival della canzone romana, rischiò tuttavia di naufragare nel peggiore dei modi possibili: sotto il peso dell’orchestra, l’improvvisato palco realizzato dagli organizzatori, davanti all’osteria Facciafresca, crollò mettendo a repentaglio la vita dei musicisti e degli astanti.

Molti pensarono al malocchio e alle streghe volanti, disturbate dagli stornelli a braccio e dal chiasso dei festaioli, rimpinzati di lumache ed ebbri di vino dei castelli, ma non erano più tempi né di strigafobia né di processi, e per la gioia dei festaioli la kermesse poté continuare, indisturbata, la domenica seguente nel teatro Grande Orfeo, in via Agostino de Pretis.

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Allievo di Rosario Villari, si è laureato in storia moderna con una tesi sulla caccia alle streghe nell’antica diocesi di Como. Membro della Società Italiana di Storia delle Religioni (SiSr), attualmente presiede l’Associazione culturale, Bonae res - Storie di popoli e tradizioni (IM). Nel 1998 ha fondato insieme a Guglielmo Lutzenkirchen il Centro di studi storico antropologici Alfonso M. Di Nola - Culti, culture e medicina popolare e dal 2008 è direttore scientifico del Centro Insubrico di Ricerche Etnostoriche (CO). Ha pubblicato Il noce di Benevento, La stregoneria nel Sud Italia, Xenia (1990), L’Ultimo sigillo: l’Apocalisse nel XXI secolo, Asefi (1999) ; L’ultimo sigillo: la fortuna dell’Apocalisse, Castel Negrino (2011), La strega e il crocifisso: radici cristiane o cristianizzate? Castel Negrino (2008). Di prossima pubblicazione per i tipi Writeup (coautore Valerio Giorgetta) Montagne stregate. La lunga caccia alle streghe nell’antica diocesi di Como (XV-XVIII secolo). Ricercatore indipendente è consulente di programmi radiotelevisivi ed organizzatore di eventi culturali, nel 2015 ha curato la realizzazione della prima esposizione permanente in Italia dedicata al tema della magia e della medicina popolare, il Museo Etnostorico della Stregoneria di Triora (IM). Come cultore della materia ha partecipato a numerosi convegni, pubblicando i suoi studi su riviste scientifiche, dizionari ed enciclopedie, approfondendo in particolare il fenomeno della lotta alle superstizioni in relazione all’emergere nel cuore dell’Europa occidentale, tra medioevo ed età moderna, del mito della stregoneria diabolica.

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