Dov’è casa. You Can’t go home again

Leila Mirzakhani

“Dov’è casa?”.  La curatrice iraniana Helia Hamedani lo ha chiesto alle tre artiste Leila Mirzakhani, Donatella Spaziani, Adelaide Cioni, così è nato il ciclo di interessanti mostre/installazioni You Can’t go home again nello spazio la Nube di Oort. La galleria fotografica è di Helia Hamedani e Arash Irandoust.

“Dov’è casa? Nelle mura di pietra o nella mente? È dove eravamo o dove siamo? È un luogo fisico o nel mondo delle idee? È la nostalgia del passato o il nostro desiderio per il futuro? Ci protegge dall’esterno o ci imprigiona in una rassicurante melanconia? È il luogo dei ricordi felici o delle perdite tragiche? È il conosciuto abituale o lo spazio magico d’infanzia da cui affiorano solo frammenti? È sulla mappa o nella memoria?”

Sono solo alcune, delle domande che la curatrice iraniana Helia Hamedani da qualche tempo si poneva ossessivamente. Tanto che, facendo sua l’affermazione del critico-curatore Nicolas Bouriaud:” quando so una cosa scrivo un libro e quando ho una domanda, organizzo una mostra”, su questo tema del ritorno (impossibile) a casa, la Hamedani ha finito per realizzare un ciclo di tre interessanti mostre/installazioni dal titolo You Can’t go home again. Il progetto che merita un approfondimento, ha visto la luce nello spazio La Nube di Oort, associazione culturale diretta da Cristian Stanescu, con sede nel romano distretto multiculturale ad alta densità d’arte di piazza Vittorio. Già in passato la galleria si è fatta notare per i suoi eventi di qualità e spessore, proponendo artisti come l’americano Peter Flaccus o il talento italo persiano, Bizhan Bassiri o i nostri grandi: Luca Patella, Vettor Pisani e di generazione più recente: Elvio Chiricozzi o Laura Palmieri, solo per citarne alcuni.

Tornando alla rassegna You Can’t go home again che si è svolta da aprile a giugno scorso, qui si sono alternate le esposizioni personali di Leila Mirzakhani, Donatella Spaziani, Adelaide Cioni, in rapida successione, con l’obiettivo di tenere viva la tensione intorno a un argomento così denso di contenuti e che riverbera nel profondo di ognuno di noi.
La serie si è conclusa con un finissage che ha visto riunite le opere delle tre artiste, proposte in precedenza singolarmente, e con una coinvolgente performance di Golrokh Nafisi: La prospettiva. Per l’occasione la curatrice ha presentato il catalogo con il testo critico, le immagini delle tre installazioni e le interviste con le protagoniste dell’evento.

Ma vediamo in dettaglio come ciascuna delle tre artiste, diversa nella varietà di stili e linguaggi, ha risposto attraverso il proprio lavoro all’interrogativo:

“Dov’è casa e si può mai tornare a casa?”

La questione, secondo la curatrice:

“andava affrontata con una sensibilità comune”.

Leila Mirzakhani, che in lavori precedenti aveva già indagato la casa come luogo di nostalgica e inquietante poesia, qui la rappresenta nell’accezione “ombra” di gabbia/prigione “in quanto sicura ma sicura perché chiusa”. L’artista trasfigura lo spazio con un’installazione di forte impatto ambientale: una sorta d’esperienza numinosa a sfondo archetipico, ritrovarsi a fluttuare nel chiarore blu. Simbolico colore del silenzio, già dominante nell’opera della Mirzakhani Giardini di solitudine, è qui scandito dal ritmico susseguirsi di oscure sbarre che riproducono una gabbia. La silhouette di un pappagallo che oscilla nello spazio circoscritto, ne amplifica il senso. In chiave junghiana richiama il desiderio inconscio di dominare il caos, ma anche il ricorso ad un mondo fantastico debordante che può esiliarci dentro le nostre paure. L’immagine interiore della casa come luogo nostalgico nel quale fare ritorno sollecita emozioni contrastanti facendone emergere ambiguità. “Casa” vuol dire legame, luogo, appartenenza, accoglienza, apertura ma può anche voler dire tana, nascondimento, regressione, esclusione, chiusura.

Per Donatella Spaziani il vuoto va indagato con il corpo, a volte confinato in ambienti anonimi e opprimenti. L’artista occupa lo spazio opponendogli la sua presenza fisica come riflesso di un mondo interiore. Plasma la realtà come materia fluida, soggetta a continua trasformazione. Ecco allora in mostra, una serie di autoscatti: luoghi di passaggio dove la Spaziani si è ritratta senza alcuna intenzione narrativa o autobiografica. Testimonianze dell’Esserci, piuttosto, di qualcosa che è stato ma non è più, e ha prodotto in-visibili particelle di vuoto. Una forma di memoria, quella dell’artista, che è insieme segno, in quanto presenza che rimanda ad un passato ed è traccia (citando Derrida), in quanto presenza che rimanda ad un’assenza. Sotto ad un’arcata che si apre nella parete della galleria, contro la superficie floreale si staglia una sagoma umana, sospesa tra il vuoto dello spazio e il pieno della carta da parati. Si affievoliscono qui i confini tra figurazione e astrazione, tridimensionale e piano, artificio e natura, uomo e vegetazione. Paesaggi dell’inconscio prendono vita dai contrasti, dalle sottrazioni, dai moti dinamici di rami, foglie, fiori.
Accanto, l’installazione con una sorta di lettino da analista, evidenzia l’attenzione dell’artista nel ricreare territori di intimità per interrogare se stessa. Sul letto, risalta il muso triangolare di una volpe, animale che in metafora concentra in sé le qualità inquietanti e ambigue dell’archetipo del femminile, vissuto come conflittuale oscuro e divorante.
Adelaide Cioni ripercorre la strada che metaforicamente la separa da casa, attraverso proiezioni su grandi schermi che ri-definiscono lo spazio della galleria. Come per un repertorio di memoria, un archivio dell’identità e della storia personale dell’artista, ma anche di tutti noi, scorrono i suoi disegni. Incisi con una punta metallica direttamente su pellicola, per essere poi proiettati su piani diversi, riproducono una serie di dettagli che la Cioni ha voluto appuntarsi in una sorta di diario visivo prima di lasciare la sua casa d’origine: il termosifone, l’interruttore della luce, il quadro di una nave. Ma anche il bosco che circondava l’abitazione. Estraniate dal contesto, le immagini perdono la loro riconoscibilità istantanea, assumendo significati molteplici da decifrare e interpretare, che seguono i moti del ricordo e dell’immaginario. Nell’ipnotico susseguirsi di scorci, dettagli, segni, schizzi, misure, linee, spesso dal tratto infantile, sulle superfici luminose, quel legame invisibile e immateriale si ricrea come per magia in ognuno di noi: inattese scintille di smarrite reminiscenze.

Conclude la curatrice:

“…You can’t go home again – è per me una domanda anche se sembra una risposta! Forse a casa non si ritorna ma si ricorda. Se ne costruisce una di nuovo, una più libera, più comoda, più bella, più fantasiosa, forse. Ma di una cosa possiamo esser certi, che si può continuare a sognarla per sempre.”

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Lori Adragna nata a Palermo, vive e lavora a Roma. Storico dell’arte con perfezionamento in simbologia, critico e curatore indipendente, dal 1996 organizza mostre ed eventi per spazi pubblici e privati tra cui: Museo Nazionale d’Arte orientale di Roma; Villa Piccolomini, Roma; Museo D'Annunzio, Pescara; Teatro Palladium, Università Roma Tre; Teatro Furio Camillo, Roma; Palazzo Sant’Elia, Palermo; Museo di Capodimonte, Napoli; Complesso monumentale di San Leucio, Caserta; Museo Carlo Bilotti Aranciera di Villa Borghese, Roma. Come consulente editoriale e artistico ha collaborato con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (mostre e cataloghi nel Complesso monumentale di S.Michele a Ripa) e come collaboratore-autore presso l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani. Lavora con la qualifica di content editor presso Editalia, IPZS. I suoi testi sono pubblicati su enciclopedie, libri, cataloghi e riviste, in Italia e all’Estero. Scrive come free lance per numerose riviste specializzate nel settore artistico e collabora con la testata Artribune.

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