Musik macht frei. La musica nei campi di concentramento nazisti

The Auschwitz Men's Orchestra is seen here in an undated photo.  Jewish musicians were forced to perform in Nazi concentration camps.

Egli grida suonate più dolce la morte la morte è un Maestro di Germania grida cavate ai violini suono più oscuro così andrete come fumo nell’aria così avrete nelle nubi una tomba chi vi giace non sta stretto
(Paul Celan, Todesfuge (Fuga della Morte), 1952, trad. it. di G. Bevilacqua, Milano, 1998)

Per i musicisti hanno sistemato delle panche nell’area dei crematori. Non ci sono leggii, dovremo suonare a memoria […]. Suoneremo per persone che ben presto saranno bruciate; ma da chi? È un mistero. Forse proprio da noi? Le autorità impongono ai musicisti tanti lavori che non hanno nulla a che fare con la musica […]. Il concerto durerà all’incirca due ore. Il programma prevede anche delle melodie ebraiche.
(Simon Laks, Mélodies d’Auschwitz, Paris, 1991)

The Auschwitz Men's Orchestra is seen here in an undated photo.  Jewish musicians were forced to perform in Nazi concentration camps.
The Auschwitz Men’s Orchestra is seen here in an undated photo.  Jewish musicians were forced to perform in Nazi concentration camps.

In una foto scattata da un soldato delle SS nel campo di concentramento di Mauthausen, un condannato a morte viene accompagnato al patibolo da una piccola orchestra. A Buchenwald gli ufficiali delle SS costringono un gruppo di detenuti a cantare in coro per coprire il rumore di una fucilazione in massa di prigionieri russi. Durante gli ultimi giorni di prigionia, il musicista Viktor Ullmann compone il melologo con accompagnamento pianistico, su testo di Rainer Maria Rilke, Il canto di amore e di morte dell’Alfiere Christoph Rilke. Due mesi più tardi, Ullmann finirà nelle camere a gas di Birkenau.

La musica nella sua pretesa di essere armonia del mondo si trasforma nel suo contrario: diventa contraddizione, complessità, disarmonia nel cuore di un’epoca. E, ultimo paradosso, si trova invischiata, come strumento, nell’inferno dei lager. Anzi, diventa parte integrante della loro organizzazione.

Tra il 1933 e il 1945 mentre alcuni musicisti tedeschi di fama internazionale (Richard Strauss, Werner Egk, Carl Orff) continuano a comporre indisturbati, altri come Schönberg, Hindemith, Eisler, Křenek, Weill, Haas, Ulmann, esponenti delle correnti musicali più avanzate, vengono irrisi ed attaccati da una pesudo-critica musicale imbavagliata, rischiando quotidianamente di finire dietro il filo spinato. Un filo spinato che nasconde una realtà inimmaginabile.

Ma anche in questa realtà, la musica ha una funzione considerevole: sia in forme elementari (voce, canto) sia con strumenti; marce, canzonette, musica ebraica, jazz, opere «proibite»: la vita in questi luoghi di morte è piena di suono.

In alcuni lager, per mancanza di strumenti, è il canto che descrive la disperazione e la speranza: dalle ninnenanne dell’infanzia alle canzoni da cabaret agli inni religiosi; tradizione yiddish, zigana o canti operai, ma anche, secondo l’atroce costume nazista, canzoni ingiuriose e auto derisorie (Oh mia BuchenwaldNinnananna per il mio bambino nel crematorio; Il canto di morte ebraico).

In altri, grazie a strumenti recuperati e riparati, si formano delle vere e proprie orchestre, la cui esistenza è accertata in almeno ventuno campi importanti (tra cui Auschwitz I, Auschwitz II / Birkenau), Dachau, Mauthausen, Sachsenhausen) e la cui funzione è tra le più varie: scortare i lavoratori a ritmo di marcia, rallegrare l’intervallo della domenica pomeriggio, festeggiare il compleanno dei comandanti del campo. La musica nei campi, prima che esperienza spirituale, rientra nella lotta per la sopravvivenza. Così molti orchestrali sperano di evitare di far parte del successivo contingente di condannati a morte.

Il caso più eclatante di ipocrisia e perversione lo troviamo a Theresienstadt, l’anticamera di Auschwitz. Dal febbraio 1942 all’ottobre 1944 è in funzione la Freizeitgestaltung (organizzazione per il tempo libero) che promuove concerti, seminari, opere, conferenze.

Impressionante il numero dei concerti (dalla musica rinascimentale a quella contemporanea) e degli allestimenti operistici (La sposa venduta di Smetana, Il matrimonio segreto di Cimarosa, Il pipistrello di Johann Strauss), reso possibile dalla presenza di otto pianisti, sette direttori d’orchestra, quattro orchestre e una decina di compositori, tra cui Viktor Ullmann che proprio qui compone la prima opera per il campo, su testo del poeta Peter Kien, L’imperatore di Atlandide (1943-1944).

Al tempo stesso l’episodio legato al Requiem di Verdi, una composizione molto amata dai carcerieri di Theresienstadt, getta una luce sinistra sul mondo di cartapesta del lager: il coro di centocinquanta persone all’indomani dell’esecuzione del 6 settembre 1943 viene spedito ad Auschwitz, seguito un mese dopo da un secondo coro, mentre un terzo (sessanta persone), faticosamente messo insieme dal direttore d’orchestra Schächter, riesce a raggiungere il traguardo di quindici repliche!

In un testo del 1944, dal titolo Goethe e il Ghetto, Viktor Ullman scrive:

Bisogna tuttavia sottolineare come Theresienstadt abbia contribuito a dare valore e non a osteggiare la mia produzione musicale; che in nessun modo ci siamo seduti a piangere sulle rive dei fiumi di Babilonia; e che il nostro sforzo per servire rispettosamente le Arti è stato proporzionale alla nostra volontà di vivere malgrado tutto. Sono convinto che tutti quelli che lottano, nella vita come nell’Arte, per trionfare di una Materia che pur sempre resiste, condivideranno il mio punto di vista
(H. G. Klein (a cura di), Viktor Ullmann Materialen, Hamburg, 1995).

Le musiche nate in questi luoghi, siano esse marcette per accompagnare i condannati a morte o capolavori della musica contemporanea (come le composizioni di Ullmann o il Quatuor pour la fin du Temps di Olivier Messiaen, scritto durante la prigionia nel lager di Görlitz) hanno scandito l’esperienza quotidiana dei prigionieri e ci spiegano la realtà meglio di qualsiasi pagina di un libro di storia. Composte dai protagonisti, raccontano l’incomprensibile, l’inesplicabile.

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Nato a Torino nel 1964, dopo gli studi musicali (pianoforte) e dopo la scuola per interpreti e traduttori, dal 1984 ha intrapreso una lunga carriera in campo editoriale che lo ha portato a collaborare con molte case editrici torinesi (EGA, Seb 27, Ananke, Edizioni Sonda, Utet) in qualità di traduttore e editor. Del 1989 escono le prime traduzioni dal francese da Voltaire (per i tipi di Seb 27) e articoli e traduzioni di semiologia (per la rivista universitaria Quaderni di semiotica). Contemporaneamente è stato coinvolto nella ricerca di nuove modalità della comunicazione nell’ambito della mostra Progetto Sonda, curata dal Centro di Ricerche Semeion di Roma, occupandosi di analisi linguistica e testuale e seguendo i corsi di perfezionamento sul modello Mac P (Modello Attanziale Cognitivo-Paradigmatico). Organizzatore culturale è stato responsabile dell’ufficio stampa e dei rapporti con l’estero della casa editrice Ananke dove ha curato in particolare le collane di Filosofia e Psicologia (testi di Friedrich Nietzsche, Stefano Zecchi, Olivier Abel, Simone Sausse-Korff) e ha tradotto il saggio di studi culturali di Bran Nicol Stalking, quando la passione diventa ossessione e, per le Edizioni Sonda, il Dizionario Madre/Figlia degli psicologi Joseph e Caroline Messinger. Dal 2010 è iniziato l’impegno di organizzatore e curatore di mostre di arte contemporanea presso la Pow Gallery di Torino. Attivo anche in ambito giornalistico si è occupato di cinema e di musica prima di diventare, nel 2010, responsabile della redazione romana del “Corriere dell’Arte” e autore di centinaia di articoli dedicati all’arte contemporanea e alla scena artistica torinese e romana.

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