Jan Fabre e il suo doppio

Chapter VIII

E’ lecito supporre che l’imprevedibile e visionario Jan Fabre (Anversa, 1958) stia covando da  tempo un amore nient’affatto platonico per il volubile clima artistico della Capitale, perennemente oscillante tra l’archeologia e la sperimentazione. Eccolo, come regista, nel primo scorcio di ottobre al Teatro Argentina per il Romaeuropa Festival, presentare Belgian rules/Belgium rules, un omaggio amaramente carnascialesco alla sua terra nativa. Ed eccolo di nuovo, in questi giorni, in veste di scultore, alla Galleria Magazzino Arte Moderna, esattamente per la sesta volta, con la mostra Maskers, una raccolta di autoritratti in bronzo dorato ed in cera. Eh sì, perché a Fabre piace trafficare con le Muse e intrecciarne le arti: eterno gioco di stregoneria e mestiere, scriverà nel suo Giornale notturno, una sorta di giovanile autoritratto in prosa.

Ci aggiriamo tra i busti dove l’identità del polimorfo scultore estrosamente si moltiplica: quasi tutti – o almeno quelli che più ci colpiscono – si presentano cornuti o orecchiuti, cioè, in qualche modo, animaleschi. Il piacere estetico-fisico dell’autoritratto, dell’impatto retinico della proprio Io oggettivato in un’immagine plastica o pittorica, è una tentazione a cui pochi artisti di figura hanno saputo resistere. Fino a giungere, in certi casi più critici, alla necessità surrettizia della coazione. Come se, con una sorta di cortocircuito corticale, il pensiero immaginativo speculasse e rispecchiasse se stesso, restituendo, alchemicamente trasmutato, il proprio simulacro di carne. Primo artista ad avere ricevuto, in vita, l’onore di una personale al Louvre, questo fantasioso “servitore della bellezza” – come ama definirsi – sembra cercare nella propria corporeità l’abbrivio del movimento creativo: una tentazione concettuale avvinta alla fluida biologia ctonia delle lacrime, del sangue e dello sperma – di cui si è servito in alcuni dei suoi lavori – fino alla dionisiaca ibridazione teriomorfica degli autoritratti che ci circondano in questa appartata galleria romana, trasformata per l’occasione in un sorprendente e ovattato Tiaso.

La terra fiamminga ha generato Rubens, Van Eyck, Rops, Ensor, Magritte, e ci sembra che un rivolo di questo sangue molteplice scorra nelle vene impervie dell’artista di Anversa. Osserviamo ancora una volta le corna di varia foggia e le orecchie asinine che adornano i busti: bestiali, mitologiche appendici protese come improbabili antenne a captare timidi lacerti di bellezza. Un’immagine suggestiva  che ci conduce alle soglie del mistero dell’Arte.

Info mostra: Jan Fabre. Maskers

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