Bonaria Manca e le istantanee dell’anima

“Era il 1981. Una mattina sono entrata in un negozio e ho comprato dei colori. Ne ho preso uno di ogni tipo e sono tornata subito a casa: volevo dipingere ma non sapevo dove farlo. Allora ho staccato dal muro un supporto di compensato, sul quale avevo sistemato il costume sardo, e ci ho dipinto sopra”. Lo racconta come se fosse la cosa più naturale del mondo iniziare una carriera artistica a 56 anni…
Penultima di tredici figli, Bonaria Manca nasce nel 1925 da una famiglia di pastori a Orune (Nuoro), in Barbagia, e nel 1948 si trasferisce a Tuscania, la cittadina alto laziale dove per tanti anni continua a ricamare, filare e tessere, fare il formaggio e portare il gregge al pascolo, prima di virare improvvisamente verso il mondo dell’arte. E da allora la sua umile dimora si trasforma poco a poco in una casa-museo, nella “casa dei simboli”, come Bonaria ama definirla.

Qui il portico con gli oggetti di una vita – resti di legni, vasi di coccio e piante sparse – e l’androne dove poggiati a terra o rialzati su cavalletti stanno alcuni degli innumerevoli quadri di Bonaria, già accolgono calorosamente chiunque si appresti a varcare la porta d’ingresso.

Ogni cosa è familiare, dal mobilio alla grande stufa nel corridoio, quasi una sentinella o un maggiordomo che invita ad entrare in ambienti più intimi, nelle camere colorate, totalmente “istoriate” con alberi, case, animali, gente intenta a lavorare in spazi per lo più en plein air, in quella campagna sarda o laziale che Bonaria conosce tanto bene per averla vissuta, amata e sofferta appieno.

Il soggiorno-salotto col camino e la poltrona su cui Bonaria attende i suoi amici, il grande tavolo-libreria dove in un disordine ordinato sono poggiate tutte le pubblicazioni che la riguardano, le sue esposizioni in Italia e all’estero, cataloghi, libri, fotografie, articoli e ritagli di giornale.

E poi le pareti su cui si dispiega la vita dell’artista, con animali liberi nei campi, la madre e il fratello Ciriaco ritratti accanto al camino a farle compagnia nelle fredde sere invernali, uomini, donne e bambini abbigliati con i tipici costumi sardi intenti a danzare tenendosi per mano sotto un cielo stellato e una luna splendente, ricordo nitido e vivo del cielo incontaminato di Sardegna, e ancora uomini a cavallo alla guida del bestiame e Bonaria ritratta sopra la porta d’accesso alla cucina, dove i colori diventano più vividi nel dare corpo a episodi di vita quotidiana.

Una finestra illumina questo piccolo ambiente di una luce quasi innaturale, dove non mancano scene sacre e divinità arcaiche sommariamente tratteggiate nei grandi volti che per la fissità e la severità degli sguardi sembrano un richiamo alle icone bizantine.

immagine per Bonaria Manca
La casa opera di Bonaria Manca

Affacciarsi ad essa è come entrare nel campo visivo di Bonaria, nel mondo visto con i suoi occhi, perché là fuori è tutto un brulicare di vita passata, dalle grotte scavate nel tufo ai piedi del colle San Pietro – che si staglia come un isolotto in asse con la dimora di Bonaria – alle torri medievali che svettano in cima a protezione dell’omonima basilica; dalle greggi al pascolo attorno al colle, agli uccelli che planano sulle rive del Marta che scorre poco più sotto, dove grotte scavate nel tufo e cocci, sassi levigati e incisi e punte di pietra affioranti dalla terra incolta testimoniano di un passato trascorso da secoli ma ancora vivo e comunicativo per chi, come Bonaria, ne sa sentire il battito.

Perciò l’artista considera la sua casa un luogo sacro, una dimora a metà tra cielo e terra e tra passato e futuro, con una storia stratificata da secoli e col senso del divino a fare da continuum.

Da fervente cristiana dipinge la sua “piccolezza” in Bonaria in preghiera di fronte a Cristo, nutrendo sempre, in parallelo, un profondo rispetto per le divinità d’epoca arcaica.

Bonaria Manca
La casa-opera di Bonaria Manca (ph. Francesco Campanile – da Premio Celeste)

Quadri di soggetto religioso ed episodi della sua vita che nonostante la resa sommaria d’insieme sembrano miniature per i dettagli delle vesti dei personaggi e per il manto degli animali, per i lineamenti dei volti e le venature delle foglie, di un verde così vero e naturalistico da far comprendere quanto grande sia il senso del colore nell’artista, che ne sa modulare con maestria le sfumature e le differenti tonalità così nei singoli elementi come nelle scene bucoliche ed agresti, ricordo ancora vivo della vita vissuta in terra sarda negli anni Trenta, quelli della sua gioventù.

Ricordi che sono cartoline impresse nella mente e riprodotte anche su tela, come in Bonaria a spasso per Roma, cui fa pendant Il vescovo di Roma pellegrino alla città dei Papi che Bonaria dipinge a memoria della visita nel capoluogo viterbese di papa Giovanni Paolo II.

Bonaria a spasso per Roma – 1981-1989 – olio su tela – h60x80 cm
Il Vescovo di Roma pellegrino alla città dei Papi – 1984 – olio su tela – h50x40 cm.

Non manca di certo il senso dell’ironia a Bonaria, che ne La spregiudicata dipinge se stessa come una giovane e divertita centaura con i capelli legati e un paio di occhialoni da diva del cinema, si ritrae con fierezza e libertà alla guida del bestiame in groppa a un bellissimo cavallo bianco e si cela probabilmente dietro La Gioconda con lo sguardo ammiccante e adornata di gioielli.

La Gioconda – anni 90 – olio su tela – h69x69 cm

Una pittura sommaria, fatta di pochi tratti marcati e decisi, di contorni netti, di colori a tempera, di oli e gessetti che si distendono sulle pareti e opacizzandosi le rendono simili a fotografie consunte dal tempo. Divinità stagliate sulle pareti, maestosamente abbigliate e di statura enorme, portatrici di un messaggio di pace e di amore universale che il cuore e l’anima di Bonaria “sentono” e trasformano in poesie e canzoni improvvisate e in quadri e dipinti murali che invadono e pervadono la sua dimora. Persino gli alberi, dipinti a grandezza naturale, che dalle pareti si allungano fin sul soffitto, anziché incombere minacciosi sembrano proteggere gli ospiti dalle intemperie vere o simboliche della vita che incessante scorre là fuori.

Dal 1981, dunque, Bonaria dipinge le sue emozioni, le sue sensazioni, la storia della sua vita e le divinità oggetto di culto delle genti che hanno abitato in epoca arcaica quei territori che stimolano l’immaginazione di Bonaria per la sua suggestiva e ancora incontaminata bellezza e per la sua storia stratificata, e lo fa da autodidatta, con crudezza e semplicità, senza alcun approccio prospettico, con un segno deciso e marcato, in uno stile assolutamente “primitivo”.

La sua pittura istintiva, che nasce dalla spontaneità del suo sentire, ha affascinato nel corso degli anni vari personaggi che in lei hanno riconosciuto un talento artistico innato, tant’è che alcune sue opere sono state esposte a Zwolle in Olanda, altre si trovano ad Amsterdam, in Belgio, in Svizzera e in Grecia ad Atene e a Salonicco, dove nel 2000 ha partecipato alla Mostra Internazionale Donne creatrici del Mondo curata dall’Unesco, che l’ha premiata come ambasciatrice della cultura sarda in Europa. Ma anziché vantarsi con chi le va a far visita, Bonaria preferisce intonare in suo onore un canto in dialetto sardo o spiegare com’è nato ogni dipinto, e mentre racconta la sua vita, le immagini dei suoi quadri assumono un significato diverso e diventano istantanee di un passato anche lontanissimo, primordiale.

Jean Marie Drot, già direttore di Villa Medici a Roma e tra i primi a capire la grandezza e l’unicità di Bonaria, così ha scritto di lei: “..Peintre naïf, Bonaria. Oui! Visionnaire, parfois. Mystique même. Cousine imprévue d’un Marc Chagall…”.

Tanto ci sarebbe da dire su Bonaria e la sua casa-museo, le sue “visioni” e le sue intuizioni sui rischi del progresso, ma l’impatto che si ha quando la si conosce di persona rende veramente superflua qualsiasi disquisizione su di lei e le sue creazioni.

Ho conosciuto Bonaria una decina di anni fa… ed è stato amore a prima vista. Perciò decisi di condividere questa mia esperienza con uno dei più noti critici d’arte italiani, Vittorio Sgarbi, che da persona colta e sensibile qual è volle che un suo quadro – Colle Civita – venisse esposto a Palazzo Venezia in Roma nell’ambito della Biennale d’Arte Contemporanea 2012 e successivamente che l’artista partecipasse con le opere Artigiano e La raccolta del grano alla collettiva Le dee sono tornate allestita nelle sale del Castello dell’Abate di  Castellabate (SA).

Dopo appena 3 anni Bonaria è diventata la protagonista indiscussa della mostra I pittori dal cuore sacro. Da Ivan Rabuzin a Bonaria Manca, a cura di Vittorio Sgarbi e con la direzione artistica di Catia Monacelli, Direttore del Polo Museale Città di Gualdo Tadino.

E la sua arte ha iniziato a volare e a farsi conoscere e apprezzare sempre di più, perché immergersi nella pittura di Bonaria è un’esperienza sensoriale unica, è un po’ come un ritorno all’Eden, alla natura dei primordi non ancora contaminata, a uno stile di vita semplice ed elementare privo di sovrastrutture, puro, diretto, senza filtri e condizionamenti di sorta, che è poi il senso profondo del suo celebre La serenità senza carburante, che nel 2004 ha ispirato un documentario sull’artista realizzato per il Festival del Cinema Mediterraneo di Montpellier dalla regista francese Marie Famulicki (“La sérénité sans carburant”, Stella Productions, 2004, 52′).

La serenità senza carburante – 1985 – olio su tela – h61x88 cm.

Ed è questo atteggiamento estetico-espressivo dell’artista nei confronti delle sue opere l’aspetto naïf della pittura di Bonaria che cattura di più. Bonaria dipinge per se stessa, esprimendo una sua visione realistica e poetica, dove i racconti familiari e le scene di vita quotidiana sono tratteggiati in modo fiabesco, dove le forme rispondono a un’esecuzione elementare e semplice, con un ricco accostamento di colori, usati generalmente puri ma senza disdegnare le mezze tinte i pastelli e i toni sfumati. Questo per quanto attiene all’arte di Bonaria. Se poi da essa ne volessimo estrapolare l’anima, l’intimo sentire e la sua profonda religiosità, quello che vedremo dipinto, stavolta in modo concettuale, sulle pareti e sui quadri appesi, è un messaggio di pace universale, di fratellanza tra gli uomini e tra tutti gli esseri del creato, un messaggio gridato con veemenza ma attraverso la voce di Bonaria che tutto è tranne che forte, è una voce flebile, leggera, a volte quasi sussurrata, e con la sua dolcezza e musicalità ti accompagna attraverso le stanze della sua vita, divisa a metà tra la Sardegna e il Lazio ma riunita simbolicamente e magicamente sui muri del suo nuraghe di Tuscania.

Crediti fotografici: Photo ©Paola Manca

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Maria Elena Piferi è Storica dell’Arte e Dottore di ricerca in Scienze Ambientali, curatore indipendente e docente di Lettere alle scuole superiori. Dal 2016 dirige il progetto Un pesce in una biglia da lei ideato, finalizzato a contrastare il “femminicidio” attraverso mostre, reading, convegni, la rubrica Per una cultura del rispetto aperta nel 2019 sul quotidiano Tusciaweb e il bando di concorso per gli studenti viterbesi A Silvia, dedicato alla giovane Silvia Tabacchi uccisa nel 2017. Del bando di concorso e del progetto Un pesce in una biglia è portavoce e ambasciatrice Anna Fendi, che nel settembre 2016 ha inaugurato nel Palazzo dei Papi di Viterbo, sotto la direzione artistica di Claudio Strinati, l’omonima mostra collettiva di Matteo Basilé, Karin Andersen, Lidia Bachis, Angelo Bellobono, Anita Calà, Vania Comoretti, Teresa Emanuele, Richard Kern, Alessandro Lupi, Angelo Marinelli, Marina Paris, Francesca Romana Pinzari, Vittoria Regina, Davide Sebastian, Corrado Zeni (catalogo Il Cigno Edizioni, Roma).

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