Quella di Marinella è una storia vera luminosa e bella. Intervista a Marinella Senatore

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Salernitana classe ‘77, sei una cosmopolita che conduce vita nomadica tra Londra, Parigi, Roma, Berlino e New York, immergendosi completamente nella sfera più all’avanguardia dell’arte internazionale e padroneggiando con nonchalance una miriade di linguaggi comunicativi, dall’installazione al video, dal disegno alla pittura, fotografia, collage, performance, “processioni”, eppure le tue opere sono impregnate di tradizione, radici e cultura popolare. Marinella Senatore: come lo spieghi?

Innanzitutto partendo dal mio background e quindi dalle discipline che subito mi hanno interessato: ho studiato musica, cinema e arte contemporanea, dunque sono per vocazione un’artista multidisciplinare e ho spesso dichiarato che per me i linguaggi sono delle possibilità, delle occasioni di coinvolgimento e di esperienza e che la partecipazione sia come metodologia strutturale che come focus della mia ricerca è al centro dei miei studi.

Madre insegnante e padre programmatore informatico e impiegato alle Poste, come il mio. A questo proposito ricordo che da bambina amavo fare irruzione nel suo ufficio per sfogliare l’album dei francobolli, che per me erano piccoli quadri in miniatura… Chissà perché i tuoi collage mi rimandano a quei capolavori di carta, simbolici e iconici. È soltanto una mia suggestione o anche tu da bambina ne hai subìto il fascino?

Sì, anch’io adoravo andare a trovare mio padre in ufficio: amavo il profumo della carta e tutte quelle persone che scrivevano (mi ricordo che all’epoca si scriveva tantissimo ancora a mano); mi affascinava il sistema di lavoro, mi piaceva girare tra i vari reparti, capire che le persone avevano ognuno una responsabilità ed erano tutti sempre così gentili con me. Mio padre è una persona molto perbene che si era guadagnato la stima dei suoi colleghi, un autodidatta che ancora adesso alla sua età continua a imparare con curiosità!

Non era il lavoro che avrebbe voluto fare nella vita, ma la sua determinazione però nel farlo bene credo che sia stata di grande insegnamento per me. Io ho un grandissimo rispetto per il lavoro, e non a caso è anche una delle costellazioni tra le quali mi muovo nella mia ricerca; e l’autodeterminazione, emanciparsi ed evolversi all’interno di strutture così codificate di aggregazione, poi alla fine è diventato davvero un sistema sul quale ho lavorato fin da subito, con un interesse enorme verso la dignità del lavoro e il potenziale di fioritura del singolo.

Poi come donna e anche come cittadina del Meridione ho esperito sulla mia pelle le difficoltà ad entrare in certi ambiti di lavoro, e allo stesso tempo ho avuto la fortuna di conoscere tante persone di grande riferimento nel mondo dei lavoratori, da operai a insegnanti serali di minatori, scoprendo situazioni di aggregazione nate all’interno delle fabbriche, utilizzando anche i linguaggi che poi mi sono adesso molto cari, come la musica, la poesia, l’attivismo: queste sono state esperienze determinanti per me.

Quali periodi o movimenti artistici ti affascinano di più e qual è l’artista inarrivabile di cui, se potessi, ti piacerebbe possedere un’opera?

Tantissimi, cominciando dalla mia passione enorme per la storia dell’arte. In realtà qualunque opera che abbia un progetto e una verità, che sia il risultato di una pratica onesta e non abusiva mi arriva con forza anche se non è nelle mie corde e la rispetto enormemente.

Ho adorato il Manierismo, ma soprattutto la pittura Veneta; non è di certo un mistero che mi interessi tantissimo la luce e io l’ho imparata lì prima ancora che sul set quando lavoravo come direttore della fotografia e ne ho appreso i primi rudimenti tecnici.

Ma a differenza magari di quello che si può pensare, non ho degli artisti contemporanei di riferimento esclusivi per la mia pratica: mi ispirano e mi restituiscono tantissima energia proprio quei lavori molto diversi dal mio: non che io non riconosca Grandi Maestri in altri artisti, ma non solo artisti visivi, anche scrittori, lavoratori, attivisti, medici, musicisti, cineasti.

Non sono una collezionista d’arte al momento, ma sono affascinata dalla passione dei collezionisti, chissà, magari un giorno lo sarò anch’io, per adesso ho più desiderio di fare che di possedere, di vivere esperienze, cosa sicuramente attivabile ogni volta che vedi l’opera che possiedi, però non ho questa esigenza, non al momento.

Due lauree in arte, docente universitario in giro per il mondo, violinista professionista, assistente alle luci per il film Gangs of New York di Martin Scorsese.… un curriculum di tutto rispetto che pochi artisti possono vantare. Perciò ti chiedo: avrai notato che da quando siamo entrati nell’era Covid è tutto un pullulare di incentivi e contributi a favore di giovani artisti under 35. Non pensi che in questo modo si corra il rischio di decretare la morte dell’arte come disciplina che non necessita di studio e ricerca?

Come insegnante devo dire che a volte è un po’ difficile tenere alto l’entusiasmo e contribuire ad alimentare l’energia degli studenti giovani, fargli davvero comprendere attraverso l’esperienza sul campo di tanti anni – ormai 18 – che c’è davvero bisogno di guardare a tutto questo con serietà, perché l’arte è un lavoro e non serve a nulla la distrazione a cui porta pensare di fare, per esempio, una carriera lampo.

È molto difficile però fare tutto questo quando c’è un contesto dove non si è riconosciuti: io ho viaggiato tanto, trovavo difficoltà in Italia a far capire che per me questo era un mestiere. Non voglio giustificare i miei studenti, con i quali mi incazzo anche molto spesso, però la verità è che non arrivano informazioni molto confortanti e ci si sente soli, o la realizzazione della propria pratica come un lavoro sembra impossibile: i giovani – e lo ripeto spesso anche ai miei collezionisti – vanno comunque sostenuti perché è ancora più difficile quando magari hai anche pochi soldi in tasca riuscire a fare le cose, e io ho beneficiato di qualche borsa di studio, di qualche application vinta, altrimenti una serie di viaggi ed esperienze non avrei mai potuto farle.

Ma adesso che ho 44 anni trovo assurdo che si pensi che questo finisca ad una certa età, come trovo anche assurdo (e questo lo estendo a tante categorie lavorative, non soltanto a quella degli artisti, che è una categoria, peraltro, tutta da legittimare ahimè in Italia) che non si diventi mai dei professionisti ma si rimanga dei “giovani qualcosa” anche a 50 anni.

Questo dice tanto della mentalità diffusa e della struttura del lavoro come viene pensata soprattutto in Italia e in Europa, che ormai è un continente stanco e autoreferenziale.

Mi piacerebbe essere chiamata giovane artista per un fatto anagrafico (ahahah), ma siccome non lo sono più così giovane, cerco di evidenziare che non è corretto: in un modo o nell’altro le persone della mia età che fanno questo lavoro, vivono di questo, rappresentano l’Italia nelle più importanti biennali internazionali, collaborano con gallerie private e istituzioni sul territorio e all’estero in maniera continuativa, pagano le tasse … non possono non essere considerati dei professionisti, che poi siano buoni o cattivi, interessanti o meno, questo è secondario, ma continuare a stare in una categoria di gioventù peraltro senza nemmeno un’assistenza alla super precaria condizione che si associa a questa parola, mi sembra una cosa veramente contorta.

C’è bisogno di estrema chiarezza, e ammetto di fare fatica perché non ci sono i supporti anche burocratici e legislativi rispetto al nostro mestiere, che concettualmente affronta dei bellissimi topics ma che di fatto è ancora in gran parte molto poco regolamentato. Dunque veramente difficile anche insegnare arte bypassando questo enorme gap.

I tuoi tre background della docenza, del cinema e della musica sono stati senza dubbio fondamentali nel concepimento delle tue creazioni collettive e delle tue opere performative. Nelle tue opere corali ognuno dei protagonisti, pur mantenendo la propria individualità, è parte di un tutto, come i tasti di un pianoforte in cui tante note singole creano insieme armoniche onde musicali. È quindi soprattutto la musica la tua vera maestra, che ti trascina e ti guida?

Può darsi, però in questo caso sarebbe musica dove il direttore di orchestra a volte fa dei passi indietro e lascia che le cose accadano, mettendo in discussione anche il proprio ruolo se abusivo e di controllo: per me è molto importante fare e lavorare sulla partecipazione nella maniera in cui ho voluto da sempre, e questa intuizione devo dire che non è cambiata con gli anni.

Ho imparato tanto, sono migliorata moltissimo nella flessibilità, nella concezione, forse anche nella realizzazione di tutte le parti del processo, in particolare forse nella restituzione finale, però in verità l’idea di dare, di cedere qualcosa di se stessi a chi è disposto a fare altrettanto, che è stata sempre la mia sfida (non per parametri buonisti, tutt’altro!), credo sia una cosa estremamente complicata, la più difficile, ma a mio modo di vedere ineludibile.

Lavori con modalità inclusiva dal 2006 e nel 2013 hai fondato la School of Narrative Dance, multidisciplinare, nomade e gratuita incentrata sull’idea di un’educazione antigerarchica e partecipativa. Sei una femminista e un’attivista che prende possesso della strada per parlare di temi sociali e di emancipazione con studenti, passanti, artisti di strada, professionisti, rapper e parkour, in un mix di improvvisazione e preparazione che livella le differenze in una sorta di religiosità laica. Immagino che di storie “di vita” da raccontare ne avrai tante… parlaci dell’episodio più singolare che ti sia capitato.

In realtà la Scuola nacque precisamente nel 2012 a seguito di Rosas, il più grande progetto partecipativo mai realizzato, con oltre 20000 partecipanti di 3 paesi: Spagna, Gran Bretagna e Germania.

Avevo capito che serviva un “contenitore”, una sorta di ombrello sotto al quale poter definire una appartenenza; le conseguenze dei progetti, seppur non pilotate in alcun modo da me, avevano a che fare con un livello di affezione importante ma rispondevano anche a delle istanze per le persone – e forse anche per me – molto urgenti, come quella appunto dell’appartenenza.

La didattica poi, mi ha sempre incuriosito, soprattutto la messa in discussione di molti sistemi verticali al suo interno, poco aderenti ai cambiamenti sociali e per il potenziale di empowerment.

Ho adorato leggere Jacques Rancière: con le parole perfette e un pensiero ben più sofisticato del mio mi sembrava di leggere nero su bianco tutto quello che avevo sempre pensato di voler fare con la mia scuola, ed è incredibilmente reale tutto questo, perché funziona da anni, anche nella pandemia – soprattutto nella pandemia – nonostante ci fossero stati già più di 6 milioni di partecipanti in questi anni, perché ho riscontrato in maniera inequivocabile la sua utilità.

Capire ma soprattutto riuscire ad aprire i progetti e a intensificare relazioni, arrivare in posti di difficilissimo accesso, più che una livellazione (perché non è di questo che si tratta, mi ricorda troppo anche il concetto di massa indistinta, per cui non è esattamente quello) ha portato ad una fioritura dei singoli a quell’emancipazione di cui ti parlavo, alla capacità sovversiva di una persona vulnerabile di essere riletta e rivissuta in maniera completamente diversa – innanzitutto da sé stessa- ma poi anche dagli altri.

In questo senso le strutture sociali effettivamente si possono trasformare, con la semplicità anche di un progetto dove puoi “fallire”, perché si tratta di un progetto creativo che non aggiunge pressione sociale, e dove in realtà non si “fallisce” mai perché i parametri di riuscita e fallimento sono anch’essi messi completamente in discussione e ridefiniti.

Per riprendere la tua domanda, ci sono infiniti aneddoti che però rimangono davvero privati e voglio farli rimanere così, perché in condizioni come quelle che si vengono a creare nei nostri progetti, si condividono delle intimità che sono veramente preziose e che per quanto comunicate ad altri, mi sento di doverle tutelare poi quando il progetto è terminato.

Posso però dirti che ci sono delle situazioni in cui per giorni si è talmente pieni di adrenalina ed energia che non si dorme, non ci si vorrebbe mai lasciare. Del resto dopo molti anni, finalmente anche recentissimi studi in campo di neuroscienze rilevano come in questo tipo di esperienze collettive si arrivi addirittura ad unificare i ritmi cardiaci per cui diventa fisiologico l’incontro tra le persone, tra le più virtuose esperienze di comunità che si possano fare.

Su questa linea per esempio ricordo la Processione di Palermo realizzata nell’ambito della Biennale Manifesta, nel 2018: durante la parata, l’esplosione a un certo punto incontenibile dell’audience che diventava partecipante irrompendo nella performance tra i partecipanti e diluendo la struttura (da 2 ore, si terminò dopo 5!); o l’incredibile emancipazione e dignità di un gruppo di non vedenti che erano in prima fila a capitanare tutto il corteo della processione … questi sicuramente sono tra i momenti indimenticabili.

Riprendendo anche la tua prima domanda sulla cultura popolare, la musica di tradizione e anche tutte queste mie esperienze come attivista: ebbene, in realtà sono tutte forze che confluiscono e che riattivano o attivano per la prima volta esperienze nuove. Il potenziale energetico della tradizione, della storia, della memoria – in generale del patrimonio – non è immutevole per me, ma volto alla riattivazione di altro.

A proposito di emancipazione, religiosità e gesti acrobatici… da buona campana di tradizione cattolica come valuti The Kitchen dell’Abramovic sulle visioni ed estasi mistiche di Santa Teresa D’Avila? Come giudichi in generale le incursioni degli artisti in campi come quello religioso?

Non conosco benissimo questo lavoro e non l’ho esperito e l’arte va esperita. Sono sempre più insofferente agli opinionisti onnivori ma anche alla critica sterile che parla senza aver vissuto l’opera – sia essa un quadro o una performance.

Per quanto riguarda il coinvolgimento di temi religiosi non giudico assolutamente, di fatto non ho un giudizio su ogni cosa: a me interessano i lavori e le pratiche forti e oneste, che non per forza devono essere in relazione con qualcosa di mio, tutt’altro, ma che potenzialmente mi possano far vibrare.

Questo io chiedo all’arte, altrimenti mi annoia e mi annoiano molte cose purtroppo. Sai, in generale io sono molto più giudicata di quello che giudico, appartiene molto poco anche al mio carattere. E quando non ho una vera opinione preferisco rimanere in ascolto.

Quando l’arte non è frutto di idee innovative e tende a scimmiottare cose già viste, il risultato è un prodotto sterile o commerciale. Chi sono secondo te oggi gli artisti innovatori o comunque meritevoli di essere ricordati sui libri di storia dell’arte, superando la temporalità a termine dei social media?

In questo periodo sono particolarmente melancolica e sto tornando con lo sguardo un po’ alle origini, a quelle esperienze che erano state evocative e fondamentali molti anni fa, per questo guardo tanto nuovamente Félix González-Torres per esempio, e mi piace molto poco di quello che vedo in giro perché non lo sento aderente alla realtà, alla vita, ad una sorta di verità, ma più compiacente verso un sistema, che è quello dell’arte, e questo passaggio mi annoia moltissimo.

Altro punto fondamentale del tuo lavoro è la dimensione narrativa dell’illuminazione. Hai realizzato la scenografia luminosa per la sfilata della collezione Cruise 2021, rivestendo le facciate dei monumenti con 1.5 km di tubo LED flessibile e frasi sull’empowerment femminile. Qualche anno fa, durante una vacanza nel Salento ho avuto la fortuna di scoprire, a pochi km da Otranto, Scorrano, un piccolo centro divenuto capitale mondiale delle luminarie. Ti sei ispirata a queste creazioni pugliesi oppure è così profondamente radicata la tradizione delle luminarie nel sud Italia che con il tuo lavoro per Dior le hai volute celebrare un po’ tutte?

In realtà io lavoro dal 2014 con le luminarie, parte di quella cultura popolare che hai ben ricordato, e la collaborazione con artigiani, compositori, coreografi, scrittori, docenti, operai, attivisti è davvero alla base di molte scelte anche estetiche. Con le luminarie è stato lo stesso, mi interessavano e le avevo esposte ben prima che arrivasse questa collaborazione di cui ancora a distanza di un anno si parla così tanto.

Non sono mai stata a Scorrano, ma visto tanto e ho visitato molte aziende a conduzione familiare, che sono le mie preferite; in generale mi piace evocare il barocco pugliese, come il rosone di una chiesa, o un motivo decorativo da inserire assieme alle parole e a colori e suoni, lavorando sempre su quel cortocircuito tra le cose che sprigiona così tanta energia e che si può rilevare in ogni mio lavoro, da quelli sul foglio di carta a quelli in strada.

Non mi piacciono per gusto personale quelle luminarie tradizionali eccessivamente ricche e che coprono i monumenti e le architetture dinanzi alle quali si installano: infatti io credo che si tratti di stratificazioni, di narrative diverse, e ancora una volta non mi interessa essere abusive nell’approccio finanche spaziale.

I testi che partono da persone che attivano a loro volta altre persone, li riprendo dai miei archivi, possono essere parole che vedo sulle t-shirt di manifestanti in strada o condivise nelle esperienze partecipative che faccio, non sono neanche dei motti che vogliono insegnare qualcosa a qualcuno, sono semplicemente parole di persone date ad altre persone.

Ora che il distanziamento sociale sta condizionando la vita delle persone, con We Rise by Lifting Others a Palazzo Strozzi a Firenze hai fatto capire quanto sia importante per te il concetto di comunità, di simbiosi, di scambio umano fisico e mentale. Quando non ti dedichi alle tue creature artistiche come trascorri le tue giornate, in compagnia dei tuoi amici o familiari o preferibilmente appartata?

In realtà è una cosa che cambia molto con l’età; ho avuto delle tappe di lavoro così intenso che non rimaneva nient’altro, mentre con la pandemia ho lavorato tantissimo e continuo a lavorare molto, ma sto vivendo anche momenti di grande solitudine, stranamente a volte anche coincidenti con il successo nel lavoro. Ma ne approfitto perché quando vivo all’estero – cioè la maggior parte del tempo – trascuro la mia famiglia, e quindi con molta cautela sto cercando di vederli il più possibile dal momento che per quest’anno rimarrò la maggior parte del tempo in Italia.

Poi sono appena entrata nel corpo docente della fantastica TAAS (The Alternative Art School) fondata da Nato Thompson, al momento sono l’unica italiana, anzi l’unica europea. Prendo molto seriamente questo tipo di incarichi, è una responsabilità politica insegnare, quindi sono molto concentrata anche sulle comunità che stiamo creando lì, una sorta di Black Mountain School del nostro secolo.

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Maria Elena Piferi è Storica dell’Arte e Dottore di ricerca in Scienze Ambientali, curatore indipendente e docente di Lettere alle scuole superiori. Dal 2016 dirige il progetto Un pesce in una biglia da lei ideato, finalizzato a contrastare il “femminicidio” attraverso mostre, reading, convegni, la rubrica Per una cultura del rispetto aperta nel 2019 sul quotidiano Tusciaweb e il bando di concorso per gli studenti viterbesi A Silvia, dedicato alla giovane Silvia Tabacchi uccisa nel 2017. Del bando di concorso e del progetto Un pesce in una biglia è portavoce e ambasciatrice Anna Fendi, che nel settembre 2016 ha inaugurato nel Palazzo dei Papi di Viterbo, sotto la direzione artistica di Claudio Strinati, l’omonima mostra collettiva di Matteo Basilé, Karin Andersen, Lidia Bachis, Angelo Bellobono, Anita Calà, Vania Comoretti, Teresa Emanuele, Richard Kern, Alessandro Lupi, Angelo Marinelli, Marina Paris, Francesca Romana Pinzari, Vittoria Regina, Davide Sebastian, Corrado Zeni (catalogo Il Cigno Edizioni, Roma).

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