Chi ha paura dell’aufheben. Dall’arte della morte alla morte dell’arte 2.0

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Tehching Hsieh, Jump Piece, 1973

Mi sono tenuto in vita, ho passato il 31 dicembre 1999!”
Tehching Hsieh

Forse con queste tesi troverò muri alti come il cielo da parte dei critici e curatori dell’arte contemporanea, ma sono ispirato, portato all’avventura e al tentativo di scavalcarli lo stesso. Nessuno ha mai osato questa impresa che so superare il vecchio discorso sulla morte dell’arte, per bussare di nuovo alle porte della notte stellata, per riprendere le vie dell’assalto al cielo, figurarsi abbatterli per salvarsi altrimenti dal proprio destino di asservimento volontario.

Mal che vada, fuggiremo da questa situazione ostile e prendere le vie della salvezza, dall’altra parte del pianeta. Tutto il costo sul futuro dei vizi dell’arte contemporanea si verrà a sapere presto. E sarà la storia dell’arte futura, l’astuzia della sua ragione, a provare la veridicità della mia critica radicale o meno.

Il discorso sull’attuale “modo di produzione del nome dell’artista” non è leggero e, buttato giù d’istinto, sarà molto molto critico perché critica è l’epoca che ci critica aspramente.

Provo a instaurare un dialogo senza mistificazioni con chi cerca la soluzione del “NON SO!”  del proprio tempo nei grandi nomi delle stelle dell’arte contemporanea senza temere di arrivare a un “riot” teorico.

L’io diventa da ora in poi Noi: Noi (Associazione Psicogeografica Romana – APR) abbiamo forse mitizzato misticamente la morte dell’arte, disprezzando tutti i tentativi di forzare l’arte oltre la propria morte, ma tutto ci indica che la nostra critica non ha rivali in quanto a veridicità.

Noi sosteniamo, invece, che lungi dall’essere un mito, l’arte della morte sia la proiezione del modo di produzione stesso della vita associata del momento in un ambito separato dell’alta borghesia.

In quanto:

Il nuovo capitale domina il movente personale degli artisti della piccola e media borghesia portandoli a scalare il sistema dell’arte internazionale in modo da poter far passare il proprio “nome” anagrafico per sempre. Costringendo le future generazioni a prendere questi artisti come produttori di “qualcosa”, soluzione oltre il “nulla”,  solo apparente, della morte dell’arte. Ovvero, come soluzione allo spazio, in realtà, eccezionale che questa, di fatto, genera.

Ad esempio, aprendo spazi nella cultura pop e nella guerra di classe, in caso di una maggiore intelligenza di tutti e posto un maggior interesse di tutti verso il vivente.

Il nuovo capitale domina il movente personale di critici, curatori e galleristi, per far loro gettare esche nel mucchio degli artisti delle Accademie. Questi, così, pescano chiunque abbia la tenacia di dieci o venti anni, con studio e metodo, di voler diventare stella nella storia dell’arte.

Una volta morse quelle esche il gioco è fatto. Accettare questo processo di auto-sacrificio è chiaramente la “coscienza malata” della dialettica hegeliana, una coscienza non prevista dal filosofo tedesco. Il post-moderno è finito, la saturazione dell’arte realizzata, ai posteri la facile sentenza.

Il nuovo capitale procede a una eternizzazione così ad ogni costo dell’astro nascente dell’arte, senza ammettere che è destinato nella propria vita associata a cadere presto, in quanto questa non produce che stelle cadenti e mai costellazioni durature. In quanto tende a sostituire una stella con un’altra, nello stesso ambito, nel corso anche della stessa generazione, ad ogni rottura epocale (Twin Towers, Ground Zero, Covid 19, etc.).

Nel volume di Micol Di Veroli, Oltre ogni limite (D’eda edizioni), un vero e proprio “thesaurus” di informazioni su cosa vi sia dietro i nomi del sistema dell’arte, si ritrovano tutti i “tricks” degli artisti più celebri dell’arte contemporanea, tutti studenti molto ambiziosi delle Accademie di Belle Arti del pianeta.

Di Veroli nel suo saggio, indirettamente, ci indica non tanto quello che stiamo affermando, ma cosa sia davvero accaduto all’interno di questo sistema, perché si sia permesso ai più devoti di questi studenti delle Accademie di auto-crocifiggersi per l’arte, senza che nessuno lo richiedesse, in un patto implicito segreto con quel sistema, in un tempo limitato, con un’azione limitata ma estrema.

Chi non ha scrupoli ottiene il doppio beneficio dell’eternizzazione di fissare temporaneamente il proprio nome anagrafico nel sistema e dell’assimilazione all’alta borghesia del proprio paese di provenienza.

Non che Micol di Veroli faccia questo discorso, la curatrice e critica fa di tutto per far comprendere con entusiasmo al lettore, in fondo, l’onestà di questo processo di produzione dell’estetica contemporanea che permette soluzioni universali e, cioè, risolve il problema della convivenza nello stesso spazio di relazione delle differenze religiose, culturali, etniche e di genere, attraverso le stelle del mondo dell’arte.

Il suo tentativo è assolutamente condivisibile, tuttavia Di Veroli chiude gli occhi sul fenomeno prettamente artistico e si preoccupa troppo di attribuire all’arte un ruolo che non le è mai stato attribuito e che non è nelle sue prerogative o nei suoi requisiti: ovvero, non l’essere arte in sé e per sé, ma essere arte soltanto per sé e per il Sistema dell’arte.

Se fosse preso sul serio il “per sé” e il “per il sistema” dell’arte non si produrrebbe comunque alcuno scandalo nella classe proletaria o nella borghesia, almeno seguendo il vecchio obbiettivo delle avanguardie, ma sarebbe scandaloso l’oltraggio al vivente tutto.

Questo a causa dell’uso di materiali e tecniche assolutamente senza morale, senza indirizzo verso il futuro e nemiche del vivente, in un’epoca in cui invece la vita e il vivente sono la chiave per accedere alla società che avviene.

Come a dire: avete voluto un nuovo Aufheben dell’arte? Con la sua morte avrete soltanto un’arte della morte.

Tuttavia una sintesi è sempre necessaria, anche dovesse presentarsi come una insistenza e si ripresentasse innanzi a quest’arte di nuovo come la possibilità della sua morte.

L’arte della morte usa materiali che sono un oltraggio al vivente in un’epoca di estinzioni di migliaia di specie, malattie (il Covid-19), fame nel mondo e problema dell’alimentazione, clima in crisi come mai prima per emissioni di CO2, IA che si fanno la guerra tra Silicon Valley “concentrate” e Silicon Valley “disperse”, secondo una logica anch’essa ormai da vivente (la IA come “avantspecie”).

Così, abbiamo un Occidente che non può più permettersi il costo ambientale, ecologico e umano di questa forma di arte per far scalare il suo sistema ad artisti che non sanno fare altro che farsi sparare a un braccio da un amico cecchino un proiettile calibro 22 o farsi crocifiggere su un maggiolone Wolkswagen (Chris Burden: Trans-fixed, 1974 ), buttarsi da un palazzo per rompersi le caviglie e farsi mettere in una gabbia per un anno come a dimostrare una loro resistenza eroica alle deprivazioni sensoriali dei sistemi dispotici dell’Oriente (soprattutto Jump piece dell’artista famosissimo, ex militare taiwanese Tehching Hsieh), che inchiodarsi il proprio pene a una tavola (Bob Flanagan), che avvolgersi di fasce di rame con secchi d’acqua al cui interno vi siano cavi elettrici a 110 volt. , lasciati volutamente scoperti, aspettando una mossa malvagia del pubblico che ne decreti la morte (Chris Burden), che impacchettare il Reichstag, le torri gemelle o un’isola (Christo e Jeanne -Claude), che togliersi 5 litri di sangue e metterli nel frigo con lo stampo in negativo della propria testa o realizzare la scultura di una donna senza braccia e gambe incinta (Marc Quinn) e di sostenere chi in qualche modo è il grande vecchio o l’Andy Warhol 2.0 di tutti loro: Damien Hirst.

Se è possibile dire che accettiamo volentieri che l’ultimo Aufheben sano della storia dell’arte sia avvenuto in realtà in Oriente per una questione puramente dialettica e cioè per una questione di risorse energetiche (e comunque mai, nemmeno nel caso del passato accetteremmo l’uso come materiali primi dell’opera d’arte parti del vivente e della vita), in Occidente dobbiamo urgentemente riprendere il discorso della morte dell’arte come spazio di sperimentazione di un’arte alla portata di tutti.

La ragione è che non vi è alcuna necessità, vista la scarsa attenzione delle nuove generazioni alle forme di arte del Novecento e la loro scaltrezza nel produrre le proprie mitologie e i propri linguaggi attraverso i social e la cultura pop, di cercare tra loro il grande artista. La loro intelligenza sta nel salvare se stessi con semplicità, senza dover andare in gita scolastica a vedere le opere micidiali di Damien Hirst.

I loro segreti linguaggi sono oggi vincenti perché hanno un modo di diffondersi a sciame, oltre ogni universalità di ideazione del Novecento, lasciando indietro quindi l’arte della morte e il sacrificio dei loro artisti più imbarazzanti della piccola e media borghesia scelti per difendere gli interessi di curatori, galleristi, di fama internazionale.

Questo Aufheben farsesco ma necessario che si sta ripetendo per la seconda volta, la seconda morte dell’arte, ci fa tuttavia guardare utilmente dentro questa epoca, in filigrana, e comprendere cosa vi accade e chi sono i responsabili dell’attuale degrado ambientale e del vivente.

L’APR sostiene, piuttosto, che la gioventù contemporanea è più astuta del sistema dell’arte e piuttosto che sciupare il proprio tempo in una galleria della grande borghesia internazionale o in un museo per hipster, preferisce sentirsi della buona musica pop e andare a ballare per strada o nei locali per vivere un momento passionale.

Contro il nuovo capitale preferiscono ai piccoli intellettuali che si salvano sempre per il rotto della cuffia dopo aver letto una quantità libri pari a un esame universitario, una canzone come Gold di Chet Faker o After the storm di Kali Uchis con Tyler, the Creator, Bootsy Collins o di Hirsch con Love is real.

Ovviamente, la nostra critica radicale punta a che la formazione estetica dei ragazzi svicoli il sistema dell’arte e quello della produzione pop e musicale; infatti, essi, come hanno fatto spesso, si auto-organizzano fuori da ogni ideologia, soprattutto fuori da ogni ideologia di estrema destra che oggi ha anzi gran successo.

I ragazzini hanno, in modo culturale (non sottoculturale) tutta la ragione del mondo per crearsi mondi e avere una loro dimensione avvolgente al di fuori delle altre fasce di età più adulte.

Che essi debbano sempre e comunque sottomettersi alle fantasie malate delle generazioni adulte e delle loro irresponsabili opere d’arte, come quelle in effetti di Damien Hirst che sono un vero e proprio danno simbolico contro il vivente e la vita, non è un destino. Cum grano salis.

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Daniele Vazquez è antropologo, psicogeografo, urbanista e scrittore di science fiction. Tra i fondatori del Luther Blissett Project, ha fatto parte e fa parte di numerosi gruppi anti-artistici, attivisti e di ricerca indipendenti sulle forme di vita urbane, tra i quali l’Associazione Psicogeografica Romana. Ha pubblicato contributi per diversi libri, articoli per numerose riviste e nel 2010 il volume Manuale di Psicogeografia, nel 2012 il romanzo La comunità dei sogni, nel 2015 La fine della città postmoderna, nel 2016 ha fatto parte dell’équipe di ricercatori che ha lavorato al volume Sviluppo e benessere sostenibili. Una lettura per l’Italia, nel 2018, con Cobol Pongide, il libro patafisico Ufociclismo. Atlante tattico ad uso del ciclista sensibile e, con Laura Martini, la raccolta di scritti del Centro di Ricerca dei Luoghi Singolari: Che cosa è un luogo singolare?

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