[Kalporz] Letteratura elettroacustica

immagine per Letteratura elettroacustica, Henri Chopin
Henri Chopin
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Henri Chopin

Trovandomi ad ascoltare nell’ultima settimana il lavoro che i miei cari amici San Giorgio Cibernetico avevano dedicato nel 2021 al poema di Patrizia Vicinelli “Non sempre ricordano” (1986), “In to Surrender”, ne ho approfittato per ripassare alcuni dei dischi presenti nel mio archivio musicale a tema sound poetry, un catalogo che, seppur non vastissimo, riesce sempre a suscitare nuove scoperte e meraviglia.

Ma cosa si intende per sound poetry? In questo genere, ibrido tra arte poetica e musicale, si tende a esplorare le possibilità foniche del linguaggio, piuttosto che quelle verbali e semantiche, per costruire il senso dell’opera.

Allontanandosi dal significato, dunque, gli artisti si trovano anche più liberi di sperimentare la creazione di parole, fonemi e suoni in libertà totale, azzerando le strutture grammaticali e sintattiche per generare (anche in maniera casuale) nuovi suoni gestiti tra loro esattamente come farebbe un compositore.

Dagli anni ’60 in poi, quello della poesia sonora è stato un campo d’azione condiviso da una pluralità di artisti, ognuno con la propria marca stilistica. Nel 1979 ci pensò Henri Chopin, forse il più famoso tra questi, a immortalare il movimento nella pubblicazione “Poèsie Sonore Internationale”, libro manifesto che comprendeva due audiocassette con una raccolta di brani di vari artisti.

Avvicinandosi alla pratica della registrazione su nastro negli anni ’50, Chopin cominciò a incidere le proprie poesie e trovare modalità nuove per esprimere la sua arte.

Concentrandosi inizialmente sulla ripetizione di fonemi e sulle potenzialità foniche della voce recitante, l’artista francese si allontana dalla parola sensata per arrivare a un affresco astratto multiforme di suoni, vocaboli, e distorsioni.

Nel 1966 lavora a “Le Corpsbis” allontanandosi ancora di più dalla parola e creando l’apparato sonoro per “Live to Live II”, una pièce teatrale basata su giochi di luci e ombre, in un tentativo di disorganizzare i sensi dello spettatore, rifacendosi alle teorie di Rimbaud e di Artaud.

In questo caso la presenza corporale del poeta performer viene sostituita proprio dalla luce nello spazio, mentre la sua opera sonora rifiuta ormai completamente la parola, accusata di essere un “impedimento alla vita”, una retorica che vorrebbe spiegare l’inspiegabile, in favore di una oralità pura, “un suono umano che non spiega, trasmette emozioni, suggerisce scambi, comunicazioni affettive; non afferma con precisione, è preciso.”

Proprio Chopin, nel 1967, parlava della propria azione in questi termini:

“Nessuno ha mai provato a stabilire il caos come sistema, o a permettergli di emergere. Forse ci sarebbero più morti tra le costituzioni deboli, ma certamente ce ne potrebbero essere meno rispetto a quelli che ci sono in quell’ordine che difende la Parola, dai socialismi ai capitalismi.

Senza dubbio ci sarebbero più esseri viventi e meno esseri morti, come impiegati, burocrati, uomini d’affari e dirigenti governativi, che sono tutti morti e che dimenticano l’essenziale: essere vivi. […]

La Parola oggi non serve più nessuno se non per dire al droghiere: dammi un chilo di lenticchie. La Parola non è più utile; diventa persino un nemico quando un singolo uomo la usa come parola divina per parlare di un dio problematico o di un dittatore problematico.

La Parola diventa il cancro dell’umanità quando si banalizza fino al punto di impoverirsi cercando di creare parole per tutti, promesse per tutti, che non saranno mantenute, descrizioni della vita che saranno sia erudite che letterarie e che richiederanno secoli per essere elaborate senza tempo rimasto per la vita.

La Parola è responsabile della morte fallica perché domina i sensi e il fallo che le è sottomesso; è responsabile della nascita degli esasperati che servono principi verbosi.”
(da “Why I Am The Author of Sound Poetry and Free Poetry”)

L’azione corporea diventa quindi il mezzo principale per presentare la vitalità dell’atto artistico, aiutato e filtrato da apparecchiature elettriche ed elettroniche per aggredire la sfera sensibile dell’ascoltatore.

Henri Chopin porterà alle estreme conseguenze questa pratica quando, nel 1972, ingoia una sonda con un piccolo microfono registrando i suoni interni al suo corpo.

Con questo atto crea la sua opera più famosa, “La Digestion”, in cui nega totalmente la parola regredendo la sua poesia al minimo denominatore della concezione dell’arte: essere vivi. Ne “La Digestion” si possono sentire una incredibile varietà di suoni e rumori, a testimonianza di un corpo umano sempre in movimento, sempre produttore di suono.

Il far di sè opera d’arte, dunque, utilizzando un linguaggio universale e lasciando alla percezione sensibile di ognuno di digerire a proprio modo il proprio lavoro.

Fra le tante avanguardie del ‘900 l’azione di Chopin, per quanto radicale, rappresenta ancora una delle frontiere più aperte ed esplorabili nell’arte sonora contemporanea. Storicizzabile per lo stile o per i mezzi di produzione ma sempre attuale, in quanto mette al centro l’unico creatore e fruitore dell’arte stessa: l’essere umano e il suo corpo.

di Matteo Mannocci


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