Migrant Belonging(s) di Nicolei Buendia Gupita. Contributo di Lily Woodruff

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Un passaporto, un rosario, un gatto portafortuna in miniatura, un ombrello, una macchina fotografica compatta, scatolette di cibo, portafogli in pelle, borsette e valigie, tutti ammassati su una zattera di bambù. Per la mostra Migrant Belonging(s), l’artista multimediale Nicolei Buendia Gupit (Los Angeles, USA, 1990) presenta una collezione di calchi di oggetti che rappresentano i viaggi di persone provenienti da tutto il mondo che hanno sradicato e trasferito le loro vite in Italia.

Ha raccolto le storie di soggetti intervistati provenienti da Albania, Argentina, Brasile, Egitto, Libano, Filippine, Stati Uniti e Vietnam, che hanno lasciato situazioni di instabilità politica ed economica per cercare un lavoro e un’istruzione migliore, potersi reinventare e aiutare le famiglie che hanno lasciato in patria. Venendo in Italia, osserva Gupit, le loro motivazioni assomigliano a quelle delle generazioni che sono emigrate negli Stati Uniti, come la sua stessa famiglia, per inseguire il Sogno Americano.

Per gli spettatori milanesi, il tema della migrazione ricorderà probabilmente la crisi dei rifugiati dell’ultimo decennio, quando milioni di persone sono fuggite dalle guerre in Siria, in Medio Oriente e in Africa per approdare o attraversare l’Italia, anche attraverso la stazione ferroviaria centrale di Milano, che a metà degli anni 2010 è diventata simile a un campo profughi.

La nuova vita che li attende è sconosciuta e spesso descritta in termini di speranze o sogni, eppure questi sogni si condensano nella materialità assumendo la forma di beni di prima necessità come i bagagli, i talismani che garantiscono la sicurezza del viaggio, i documenti necessari per oltrepassare i confini e aprire le porte, gli oggetti sentimentali densi di ricordi di famiglia e amici, e infine gli oggetti che si acquisiscono in un nuovo luogo nel processo di costruzione di una casa.

Sono gli oggetti di transito che Gupit rappresenta in Migrant Belonging(s), ma il suo lavoro dimostra che il materiale, pur essendo concreto, non è del tutto stabile. I significati degli oggetti rappresentati sono soggetti a spostamenti tanto quanto i corpi di coloro che li trasportano.

Gli oggetti realizzati da Gupit sono calchi che assomigliano alle cose che gli intervistati hanno portato con sé da casa. Gupit ricopre i portafogli, i documenti e i soprammobili con del silicone per creare degli stampi dai quali crea i prodotti finali in paperclay, materiale che sembra leggero ed effimero come la carta di cui è infuso, ma che mantiene una risoluzione che permette alla texture dei dettagli di rimanere leggibile, il che a sua volta fa sentire il significato degli oggetti vicino, come un ricordo che rimane fresco.

Gupit esalta i dettagli strofinando gli oggetti con pigmenti secchi e lavaggi acrilici, producendo così monocromi che appaiono consumati dal tempo e sbiaditi come vecchie fotografie. Una delle cose che Gupit ha sentito ripetutamente dagli intervistati è che i loro oggetti hanno assunto un nuovo significato nel contesto delle loro nuove realtà. Per questo motivo, Gupit è arrivata a descrivere quegli oggetti nei loro nuovi contesti culturali come “brutte copie” di se stessi.

Le repliche  che realizza originano questo effetto di disfunzione, in quanto letteralizzano il processo di riproduzione di un originale nella creazione di un oggetto somigliante, la cui capacità di trasmettere l’essenza dell’originale è intensificata dalla diretta provenienza dello stampo e dalla scala uno a uno.

Si può immaginare l’esperienza sconcertante di tenere in mano un oggetto fantasma che assomiglia a un vecchio portafoglio che sta perfettamente in mano, ma che non contiene la valuta che un tempo si usava per comprare le necessità e i piaceri della vita quotidiana e che, anzi, non si può nemmeno aprire perché è un oggetto-immagine solido, senza dotazione funzionale di comodità personale.

Sebbene gli oggetti replicati da Gupit raccontino le esperienze di singoli individui, si nota che, nella loro quotidianità, assomigliano a effetti personali che potrebbero appartenere a quasi tutti coloro che vivono nel nostro mondo globalizzato.

L’opera presenta un’impressione di continuità più che di differenza. Gli oggetti non significano tanto l’origine quanto la mobilità. La zattera di bambù trasporta gli oggetti lontano dalla relativa sicurezza del viaggio in treno ed evoca il rischio che ha portato alla morte di migliaia di persone in mare.

Tuttavia, i destini dei migranti che l’opera di Gupit evoca sono ampi e variabili, comprendendo sia i sommersi che i salvati. Come accumulo, essi assumono la forma della dispersione e dell’ammasso: strategie non compositive che lo scultore minimalista Robert Morris paragonava all’ampiezza di un paesaggio in cui il terreno ha la precedenza sulla figura.

Nel caso di Migrant Belonging(s), l’immanenza di questo paesaggio, che si trova su un percorso di liminalità, dimostra che l’appartenenza è allo stesso tempo fondata e fluida, definita nei sogni e contingente alle relazioni materiali di negoziazione culturale.

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