12 anni schiavo di Steve McQueen: L’odissea di Solomon Northup vince il premio Oscar

Chiwetel Ejiofor in 12 anni schiavo di Steve McQueen - Lupita Nyongo

Risvegliarsi incatenato in un luogo sconosciuto, vittima della completa violazione di ogni diritto umano. Essere considerato un bene schiavo, perdere improvvisamente la libertà, il proprio nome e diventare merce umana.

Il viaggio di un uomo nella disumanità. Questo è l’ autentico incubo vissuto da Solomon Northup, un afroamericano nato libero nel nord dello stato di New York, che nel 1841 venne rapito e venduto come schiavo in Louisiana, poco prima della Guerra di Secessione.

Per dodici anni Solomon fu vittima di brutalità e degradazione, allontanato dai suoi affetti ma riuscì a non soccombere alla disperazione.
Spettatore inerme del quotidiano orrore che vivevano gli schiavi nelle piantagioni e lui stesso vittima di sevizie e continue minacce.

All’interno di questa filiera della crudeltà Solomon cercò di aggrapparsi alla speranza di ritornare libero in tutti i modi possibili. Provando notte dopo notte a scrivere quella lettera che poteva salvargli o costargli la vita se fosse stato scoperto.

In balia di padroni e sorveglianti, che basandosi su una disumanità legalizzata, davano sfogo al sadismo più estremo come sempre accade quando la violenza nei confronti di un’ etnia diventa norma sociale per scopi politici ed economici.

Sul sangue di 12 milioni di africani, venduti e deportati oltre oceano, si è compiuto il processo di modernizzazione del Nuovo Mondo basato sullo sviluppo dell’industria tessile e quindi sulla raccolta di cotone nelle piantagioni, i lager a cielo aperto degli schiavi.

L’autobiografia di Solomon Northup Twelve years a slave pubblicata nel 1853 è una preziosa e incredibile testimonianza della condizione di schiavitù. Un libro che è stato quasi del tutto dimenticato, ed è rimasto fuori catalogo per buona parte del Novecento. In realtà, sarebbe andato perduto per sempre se nel 1968 la storica Sue Eakin non l’avesse riproposto riportandolo al centro del dibattito sui diritti civili.

I rapimenti, ai fini di vendita, di persone di colore libere erano incredibilmente diffusi nel New England. Rare volte i malcapitati riuscivano a tornare dalle loro famiglie e raccontare la loro terribile esperienza.

Nel 2002 lo Steve McQueen artista realizza Carib’s Leap (Falling People) / Carib’s Leap (Live Action) un’opera video che fa riferimento al suicidio di massa degli abitanti dell’isola di Grenada che nel 1651 si gettarono nell’oceano da un’altura, scegliendo la morte, pur di evitare la sorte di prigionia e schiavitù nelle mani di padroni coloniali francesi.

Oggi lo Steve McQueen regista ritorna ad affrontare l’olocausto dello schiavismo.

Dopo Hunger e Shame si confronta con un progetto cinematografico e produttivo molto diverso. Con Twelve years a slave per il regista inglese si aprono le porte di una produzione hollywoodiana, la Plan B Entertainment di Brad Pitt e questo inevitabilmente, nel bene e nel male, ha il suo peso. D’altra parte, afferma McQueen:

“Credo proprio che senza Brad Pitt il film non si sarebbe mai fatto”

I fardelli scomodi purtroppo si fanno notare come il pleonastico discorso contro lo schiavismo pronunciato dall’abolizionista canadese Samuel Bass interpretato proprio dallo stesso Pitt che si riserva questo cameo del bianco buono. Momento ampolloso e interferente, assolutamente non necessario.

Il rigore e la nitidezza registica di McQueen, legata ad un’ emotività visiva che riduce la parola al minimo, questa volta vacillano. Diventa a tratti didascalico e convenzionale non riuscendo a gestire con innovazione un film più corale e narrativamente molto esigente.

Nonostante questo 12 Years a Slave penetra con il lirismo delle immagini e la sua drammaticità portata al culmine.

Coinvolge, con sottile sensibilità, lo spettatore dentro ogni scena lasciandolo libero di giudicare quello che vede. Ci trasporta all’interno della vicenda con inquadrature strette, sempre ad un palmo dai personaggi con pochi e statici respiri panoramici a camera fissa.

La struggente bellezza di una natura incontaminata e illimitata ma impassibile al dramma umano. Sempre vista dietro invisibili sbarre. Non può dare nessuna gioia o sollievo. Come in Malick e in Weir c’è un creato che scandisce tranquillamente il passare del tempo mentre tra gli uomini si consumano i crimini più terribili.

Una tacita complice perché nei suoi meandri di fitte foreste, paludi, alberi secolari avvengono impiccagioni, sparizioni, stupri, torture, suicidi.

C’è una violenza molto esplicita mostrata allo spettatore in lunghi piani-sequenza in cui lo scorrere del tempo sembra interrompersi di colpo per isolare la sospensione del martirio.

Una crudeltà che viene analizzata nelle sue sfumature, nelle conseguenze provocate non solo sugli oppressi ma anche sugli oppressori.

“L’oppressore è schiavo quanto l’oppresso, perché chi priva gli altri della libertà è prigioniero dell’odio, è chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L’oppressore e l’oppresso sono entrambi derubati della loro umanità.”
(Nelson Mandela, Lungo cammino verso la libertà, 1995)

L’implacabile cinismo del ripugnante mercante di schiavi Freeman che vende uomini come fossero animali da soma. Il padrone Ford, caritatevole ed esitante che comunque accetta lo schiavismo come un male necessario. Il demoniaco schiavista Edwin Epps invece ha edificato un sistema ideologico e addirittura teologico su cui basare le sue sevizie. Desidera la schiava Patsey ma si odia per quello che prova perché il mondo di cui fa parte lo vedrebbe come un abominio.

Questo sentimento, non essendo cosa concessa, si trasforma in ossessione violenta e sadica che esige soddisfazione con ogni pretesto.

La silenziosa, mite ma ostinata battaglia di Solomon si contrappone a quella risonante e super eroica dello Django di Tarantino, un altro straordinario film che ha riaperto le riflessioni sugli anni della tratta degli schiavi. Una ferita ancora profonda e non rimarginabile perché non appartiene solo al passato. Molte forme di schiavismo persistono nel presente con le identiche modalità di rapimenti e deportazioni in altri Paesi. La tratta di bambini per scopi sessuali o lavoro forzato e la tratta di ragazze da avviare alla prostituzione sono gli esempi più drammatici.

Steve McQueen con il suo terzo lungometraggio si aggiudica il premio Oscar 2014 per il miglior film oltre al premio per la miglior sceneggiatura non originale e migliore attrice non protagonista a Lupita Nyong’o per il ruolo della schiava Patsey.

Un riconoscimento importante per una carriera registica ancora giovane ma molto incisiva che sta compiendo un progressivo allontanamento da quelle origini legate alla video arte ancora evidentissime in Hunger, molto smorzate ma presenti in Shame e ormai quasi sparite in Twelve years a slave.

In Italia è molto più conosciuta la sua carriera registica rispetto a quella artistica.

Nel 2005 alla Fondazione Prada di Milano è stata presentata una sua antologica.

L’occasione più recente, per avere una panoramica sul McQueen artista, c’è stata a Basilea presso lo spazio Schaulager dal 16 Marzo al 1° Settembre 2013.

Una vasta retrospettiva di video, fotografie ed installazioni che comprendevano Giardini il mediometraggio proiettato nel 2009 alla Biennale di Venezia o Drumroll (1998) che gli valse il prestigioso Turner Prize.

Resta come filo conduttore della sua ricerca, tra arte e cinema, l’impegno sociale e l’indagine psicologica sullo stato di oppressione che può nascondersi nel quotidiano.

Il corpo indiscusso protagonista di ogni inquadratura. Su di esso il malessere del vivere diventa infernale epifania organica. Un’ armatura sacrificale contro un potere sociale/economico/politico aberrante che infine lascia ogni gravità e si smaterializza per sublimarsi in rinascita e quindi nuova speranza.

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“L’arte è l’anima del mondo, evita che il mio inconscio s’ingravidi di deformi bestie nere.” Laureata in Scenografia e in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Roma ha lavorato in ambito teatrale collaborando con esponenti della scena sperimentale romana come Giuliano Vasilicò e l’Accademia degli Artefatti e, come fotografa di scena, per teatri off. Negli ultimi anni, accanto alla critica d’arte affianca la critica cinematografica. Ha scritto per Sentieri Selvaggi, CineCritica e attualmente per Schermaglie oltre che per art a part of cult(ure). Nel 2012 ha curato la rassegna cinematografica “FINIMONDI: Cataclismi emotivi,cosmici ed estetici nel cinema” presso la libreria Altroquando di Roma.

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