Vita e vitalità attraverso il Corpo. Intervista a Stefano Scheda

Dimenticare a Memoria - Genova 2014 - Stefano Scheda - ph. Stefano Scheda

Approfittiamo di un fine settimana che Bologna dedica all’arte con un ricco ed articolato programma sempre vivo in città, per incontrare l’artista Stefano Scheda e riprendere insieme i fili delle riflessioni già iniziate in occasione della sua personale alla MLB Gallery di Ferrara e aggiornarci sull’evoluzione dei progetti in essere.

Ci ricordi dove eravamo rimasti?

“In seguito alla scossa avvenuta a maggio 2012, proprio mentre si istallava la mia mostra Sorolla’s Garden (doppia personale con Hiroyuki Masuyama), sulla parete della sala principale della galleria si aprì una crepa. Nello spazio creatosi inaspettatamente ho inserito una serie di rami gemmati, per dare il senso della vita che rinasce…”

…e lo stesso tema ha caratterizzato le opere esposte ad ArteFiera dello scorso anno.

“Il tutto è partito da un gioco per smitizzare la paura del terremoto, cercando di riportare l’esperienza di quella che è stata una vera e propria catastrofe, inattesa e destabilizzante, in un’opera d’arte che varcasse la soglia della galleria e approfittando del passaggio di tante persone, potesse davvero sensibilizzare il pubblico. Ho ricoperto così, con una coltre mobile di migliaia di monetine da un centesimo, come fossero macerie, l’intero pavimento dello spazio. Il visitatore diveniva parte interattiva nella modificazione fisica e sonora prodotta dal calpestio e dallo spostamento, creando continue e variate traiettorie, anche giocose, rendendo aleatoria la quantificazione del valore assoluto dei soldi ed esorcizzando la fobia monetaria che ci ha portati ad essere sempre più aridi e distaccati: ossessione del denaro compensata dal nulla? Insomma una traduzione più distante possibile dalla visione comune del terremoto, associando a quello geologico, il sisma di natura economica, che già stava colpendo il nostro Paese. La particolarità della proposta, concettualmente forte, ha raggiunto lo scopo e catturato l’interesse della stampa e non solo.
Questa premessa è un buon esempio di come il mio lavoro tenda sempre ad una forma di surrealismo ironico e dirompente rispetto agli stereotipi, a rimuovere la consuetudine.”

Alla MLB, oltre ad alcuni oggetti, presentavi il progetto fotografico Fuori/Dentro. Come intendi tu l’uso di questo mezzo?

“Sostanzialmente come documentazione. Spesso è arduo tornare sul luogo dove realizzo un’opera. Intervengo su oggetti o edifici mettendo in scena uno spostamento degli elementi consueti, come si diceva prima.
Nel caso di Fuori/Dentro avevo trovato, nel parco di un edificio storico, la casa dei custodi di una grande villa di proprietà di un principe, ricoperta dalla vegetazione mai rimossa da 25 anni. Affascinato dal lavoro che la Natura aveva operato, ho inserito uno specchio sulla grande porta d’ingresso ad arco a tutto sesto e sulle finestre a lato. La casa stessa è divenuta così un’osservatrice dal doppio sguardo, interno/esterno e viceversa, raccogliendo e rimandando le informazioni di ciò che avveniva intorno, le stagioni che cambiavano, le trasformazioni.
Ho poi fotografato l’opera per riportarne la testimonianza nello spazio della galleria.”

Altro mezzo espressivo che tu impieghi è la performance…

“Credo che la definizione di performance necessiti di una certa duttilità e sia assimilabile al concetto di Opera aperta di Umberto Eco, uno strumento interpretabile a seconda della propria poetica. La tipizzazione dell’artista è data dall’intenzionalità comunicativa, pur se individua tratti condivisi da altri. Ci troviamo nell’epoca della ripetizione, dunque cos’è l’originalità? L’originalità non sta nella differenza di qualità, ma in una diversa intensità di qualità comuni.
Pensiamo al nostro rapporto spazio/tempo che, rispetto agli artisti del passato, come ad esempio Caravaggio e Rossini, si è ristretto moltissimo; viviamo un tempo praticamente in diretta e in molti stiamo lavorando sulle stesse tematiche pur elaborando poetiche personali e scarti concettuali individuali. Dunque anche le mie performance vedono un uso impuro del mezzo rispetto al rigore di alcuni artisti in stile anni ‘70, sono più attratto dall’organizzare dei set e vedere cosa succede. E’ il caso di T(r)atto, presentato per la prima volta durante lo SMELL Festival nel 2012 a Bologna: i visitatori erano accolti nell’atrio di un palazzo storico borghese e dopo aver percorso, uno alla volta, un breve tratto dentro un ascensore fortemente illuminato, venivano catapultati, ignari della loro destinazione, al buio, in un lungo e stretto tunnel fatto di corpi nudi. Al termine del percorso si usciva in una via completamente diversa da quella di entrata. Si creava così un forte spaesamento e al posto dei riferimenti spazio-temporali, si recuperava il coinvolgimento relazionale. Il tempo impiegato individualmente nel percorso, portava ad acuire la parte sensoriale della percezione, il tatto, l’olfatto, l’udito.
Questa situazione, modificata in alcune parti, è stata riproposta a Set Up (la manifestazione che si è svolta all’Autostazione di Bologna dal 24 al 26 gennaio 2014), una sorta di T(r)atto n.2, all’interno di una rassegna performativa In Corpo 4 curata da Sponge Arte Contemporanea. Il tutto si è svolto, in questo caso, in una stanza rettangolare, con due porte opposte e oscurate da tende. I visitatori bendati da me, entravano uno per volta e senza nessuna indicazione e si trovavano ad affrontare un cammino costituito dai corpi nudi delle persone che si sono proposte spontaneamente per costituire il tunnel. E’ stato interessante osservare come i partecipanti si predisponessero alla relazione. Ludwig Wittgenstein invita a:

“Sperimentare il contatto con l’alterità sconosciuta, proiettare sul corpo altrui quell’oscurità che è prima di tutto in noi stessi”.

L’altro può spaventare perchè costringe ad un confronto con il nostro lato emotivo irrisolto. Entrando in quella stanza, ogni soggetto (che facesse parte del tunnel o che lo attraversasse) si rendeva disponibile a concedere una parte di sè, ad accettare l’ignoto, l’inatteso. Accade poi che l’artista vada alla ricerca di qualcosa ed invece incappi in altro; è molto più frequente di quanto non si pensi.. Ci si organizza per creare una certa situazione ed invece un inconveniente inaspettato modifica tutto rendendolo ancor più interessante!”

Da dove parte questa tua ricerca sul nudo?

“E’ una costante nell’espressione della mia poetica, così come il concetto di architettura, reale o vivente nei corpi di chi partecipa alle azioni artistiche.
T(r)atto n.2 può essere considerato la prosecuzione di una mia ricerca avviata con Looking for the body of the Artist alla Galleria Martina Detterer di Francoforte, a cura di Peter Weiermair nel giugno 2013, in occasione dell’evento The naked and the nude. In questa sperimentazione l’attore sono io, solo, nudo e mi muovo in una stanza al buio; lo spettatore decide se cercarmi e io posso o meno farmi trovare. O ancora si pensi per esempio alle foto fatte tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, di corpi messi in stretta relazione con uno spazio architettonico anonimo, un non luogo che poteva essere la parte sottostante un ponte, una piscina vuota o semplicemente un cumulo di travi di cemento che acquisiva interesse grazie alla relazione con questi. La ripresa in orizzontale veniva in seguito ruotata, per dare così un senso virtuosistico senza che si rendesse necessario il ritocco, rarissimo nel mio lavoro.
Lo stesso per l’opera presentata quest’anno ad Artefiera con la Galleria Artforum, Roll n’Roll, una serie di ibridazioni di corpi nudi e vestiti, su stampe sovrapposte, dove la carta fotografica diviene la seconda pelle. Il mio lavoro sulla pelle e di conseguenza sul corpo, ha una linea di coerenza, pur nell’evoluzione del percorso, che si riassume nell’affrontare paure ed ossessioni, anche se non sono espresse direttamente.”

Inoltre tra Artefiera e Set Up, hai portato un lavoro anche a Genova…

“Sì, ho celebrato, assieme ad altri autori, la Giornata della Memoria partecipando ad una mostra dal titolo Dimenticare a Memoria – Riflessione emozionale sulla diversità ricordando l’Omocausto e tutte le deportazioni. Data l’importanza del tema, ho tentato di evitare i luoghi comuni e l’ho affrontato pensando a ciò che è successo alla popolazione degli omosessuali, destinati a sepolture separate rispetto alle altre persone uccise dai nazisti, discriminati quindi anche nella morte. Ho scelto per questa occasione la memoria di una mia stessa opera, una sorta di autocitazione, partendo da un’immagine costruita mettendo una decina di persone nude in una grande cassa, ripresa dall’altro. Una messa in scena della morte, operata per contrasto da persone vive ed anche molto sensuali, la lotta fra la vita e la morte. Ho riportato il tutto su un tappeto, istallato al centro di una stanza e ho lasciato al pubblico l’opportunità di calpestarlo o di rispettarlo, rimanendo anche questa volta ad osservare. Ho pensato al tappeto per la funzione legata alla quotidianità di oggetto di casa, nel tentativo di allontanare la retorica vuota di significato e al contempo avvicinare la memoria della ricorrenza al presente, alla pratica quotidiana, non celebrativa, non occasionale.”

Oltre all’attività artistica vera e propria, tu insegni all’Accademia di Belle Arti di Bologna, quale materia?

“Insegno una materia che mi sono inventato io perchè quella ministeriale cioè Decorazione per l’ambiente mi sembrava un po’ datata… allora l’ho tramutata in Strategia dell’Invenzione. Sono interessato a comprendere e a trasmettere il rapporto che intercorre fra l’idea astratta e la sua possibile realizzazione in forma osservabile, concreta. Cerco di abituare gli allievi a capire che anche per creare ciò che ci sembra scontato, sono stati necessari pensieri e azioni e quindi a tentare di vedere ciò che ancora non c’è, ad allargare la visione. Secondo alcune filosofie, il bambino va posto sulle spalle del padre per aiutarlo a scorgere meglio l’orizzonte; mi ritrovo in questo quando, nel caso del mare (elemento spesso presente), ho a che fare con una linea che nella sua essenzialità, sposta notevolmente il punto di vista, richiede una grande apertura. Il rigore e lo studio sono fondamentali, ma è importante fare attenzione allo studio rigido della tecnica, perchè può costringere l’espressività: trovo che gli allievi migliori, che apportano maggiore movimento e leggerezza, siano quelli provenienti da esperienze e competenze in campi non artistici. Tornando ad un mio lavoro su Giorgio Morandi, riconosco che la magia è venuta proprio da un errore fotografico, che ha portato una luce quasi accecante, molto significativa, ad un’immagine che se fosse stata perfetta avrebbe perso forza. Giusta la ricerca, quindi, ma va lasciata aperta la possibilità anche a tutto ciò che sfugge al calcolo. James Hillman afferma che se l’altro non ci vede, non esistiamo e se non sappiamo vedere, l’altro non c’è. Quindi è in noi il far sì che qualcuno o qualcosa che ancora non è, sia. Bisogna sempre unire la vita con l’arte, liberandoci dai vincoli delle paure e dei nostri limiti… un lavoro diventa interessante quando lo puoi leggere su più livelli; se ha un’unica lettura non vive.”

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Vive a Bologna, dove lavora come logopedista al Servizio di Neuropsichiatria Infantile occupandosi prevalentemente di disturbi della comunicazione, del linguaggio e dell'apprendimento, è appassionata da sempre di Arte, in qualunque forma si presenti. Da alcuni anni ha iniziato un percorso nel campo della fotografia

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