Tutto un altro mondo: quando la fotografia diventa esplorazione.

MAST Photography Grant - Lebohang Kganye - ph. Cristina Villani

Passeggiare tra immagini fotografiche, essere travolti dalla narrazione di luoghi attraverso due dimensioni o forse tre: il passato, il presente e l’enigmatica proiezione nel futuro a cui ci induce la produzione tecnologica.
Sono a Bologna, al MAST, luogo di bellezza e di contaminazione meccanica. Io che di questa scienza conosco poco o nulla, appartengo alla categoria di coloro che inciampano per caso o per fatuo destino a questo luogo di fascinazione essendo a due passi da casa.

È lì che mi faccio trascinare, per grazia ricevuta da un’imprenditrice attenta a fare della cultura non una merce, ma un dono, lungo i percorsi che di volta in volta ci vengono offerti, avventure inimmaginabili dove tutti i sensi partecipano, non solo il visivo e l’uditivo, ma l’insieme dei ricettori sensoriali che abbiamo in dotazione e di cui, normalmente, non ci avvaliamo appieno.

Il Mast Photography Grant on Industry and Work, ossia il concorso per giovani fotografi, curato da Urs Stahel, a tema industria e lavoro nella sua settima edizione, ha aperto i battenti il 25 gennaio scorso, e mi ha trovata pronta all’incontro con gli artisti.

Sono giovani talenti di cui la maggioranza proveniente da paesi in via di sviluppo o dove l’accanimento industriale e tecnologico si è imposto o si sta imponendo con la massima aggressività.

Diventa vitale allora fissare i momenti che possono documentare l’impronta cangiante di questa invasione, ambivalenti come siamo tutti nel ricercare il progresso, ignari o distratti nel percepirne il prezzo da pagare, e sopraffatti comunque nell’avvertirne a posteriori tutto il disagio procurato.

Eppure dietro a queste immagini fotografiche non avverto nessuna ondata catastrofista da parte degli autori, quanto piuttosto un tentativo di legare la memoria del passato, attraverso tracce autobiografiche con un presente che, seppure invadente, a volte devastante, può favorire l’apertura ad un varco creativo, uno spazio interpretativo dove tecnologia e meccanica, possono diventare leve per tracciare un mondo quasi onirico, in cui l’uomo non ne sia sopraffatto, ma possa trovare una modalità per narrare di sé e del proprio percorso esistenziale.

Di sé e di tutti coloro che hanno incontrato l’esperienza della migrazione, ossia di quel particolare ed unico percorso di vita, in cui tutto può accadere a partire dallo sradicamento delle proprie radici culturali ed esistenziali, fino ad approdare ad una possibilità di riscatto in cui proprio la fotografia, una sorta di narrazione silenziosa che urla l’indicibile, ne può essere testimonianza vitale.

Sono i soul collage, ossia i collage dell’anima di Lebohang Kganye (1990, Sudafrica – premiata con la Menzione Speciale) che fissano attraverso scatti fotografici pezzi di vita di africani, in cui donne e uomini si percepiscono intenti a ristabilire un quotidiano in un altrove rispetto ai luoghi delle loro origini.

Nelle immagini proposte il bianco e il nero conferiscono, anche a strutture realizzate in forma tridimensionale, una luce che è cifra non solo cromatica, ma anche tensione alla speranza di una vita, reinterpretata tra il crinale di una collina sulla cui sommità un faro guarda lontano, ed una ritrovata casalinghitudine in cui si rinnova il compimento di piccoli gesti di cura quotidiani.

E nel solco dell’analoga esperienza migratoria, si colloca anche la produzione fotografica di Farah Al Qasimi (1991, Emirati Arabi) con spezzoni della vita fordiana reinterpretata da una consistente comunità araba insediatasi a Dearborn, nell’area metropolitana di Detroit.

Il tentativo di emancipazione di un popolo attraverso gli status symbol che connotano la società americana, piccole contaminazioni che gridano il tentativo di mantenere vive le proprie origini: le mandorle, la torta e il santino sul cruscotto di una Ford, come liaisons dangereuses tra due continenti così distanti, cosi vicini.

L’antropocene si svela, con le opere di Salvatore Vitale (1986, Palermo), nel suo effetto boomerang prima ancora che sul territorio geografico, su quello corporeo, rendendo l’uomo un’appendice di un ingranaggio meccanico che lo domina.

E la provocazione dell’ossimoro si spinge fino in Sudafrica dove la ricerca dell’oro non costituisce per chi la deve compiere, con i gesti quotidiani della fatica, del sudore e dello sfruttamento, una prospettiva salvifica, quanto piuttosto un’assurda contraddizione che svela lo scarto tra dominanti e dominatori.

Tra essi oggi anche la tecnologia informatica rappresentata da un numero di computer affastellati gli uni sugli altri, quasi a creare una pira funeraria da incenerire in quanto carcasse tecnologiche; una visione che mi ha ricordato Zabriskie Point di Antonioni, quando nella scena finale come nel corto di Vitale, l’esplosione e la distruzione degli oggetti simbolici del realismo capitalista, assumono la cifra di un’autentica, rinnovata rivoluzione.

Eppure il sublime può svelarsi: l’ho percepito nelle trame fotografiche di Maria Mavropoulou (1989, Grecia). Sono arazzi, tessiture, un ordito di fili intrecciati e di micro cellule assemblate come neuroni cerebrali e come sinapsi che connettono e trasmettono impulsi.

Un viaggio nel ventre delle intelligenze artificiali dove a dominarci sono gli algoritmi che decidono del nostro destino e compiono per noi azioni e lavori ripetitivi.

Ma nelle immagini tessute con una cucitura certosina di infinite sequenze fotografiche, compaiono immagini oniriche per lo più riconducibili ad un mondo abitato da guerrieri, santi, eroi, draghi assemblati in modo da produrre mandala tecnologici ad alta potenza meditativa.

I suoni e le grida dei venditori di candeggina a Tangeri li ho invece avvertiti dinnanzi alle opere di Hicham Gardaf (1989, Marocco – Vincitore dell’edizione 2023 del Premio); in esse ho percepito la ricerca di un equilibrio tra una spinta verso il progresso che porta ad uscire e ad abbattere i legami con la tradizione, e per contro il pericolo evocato da un cambiamento che lavoratori percepiscono come una minaccia.

Si avverte nell’urlo appoggiato su una mano, quasi a fare eco a un monito di pericolo del personaggio in primo piano nella foto in bianco e nero, fino alla felliniana e quasi circense immagine del raccoglitore di bottiglie d’acqua, da cui appare progressivamente sopraffatto, fino a scomparire.

E’ la materia plastica a dominare la scena con una presunta sacralità che si contrappone nella sua analoga verticalità, alle due donne arabe in bianco e nero dedite a intime confessioni, un esercizio questo di delicata sensibilità.

Ancora una volta il mondo del lavoro si palesa nella sua inquietante immanenza esposto come è alle contaminazioni del progresso. Solo la bellezza dell’arte potrà rendere trascendente ciò che nello sviluppo appare oggi destinato a travolgerci senza scampo.

E ciò che il MAST ci insegna è che è proprio la bellezza che salverà il mondo. Ce lo disse Dostoevskij quando lanciò questo come monito, ossia allertandoci sul fatto che proteggendo il nostro patrimonio, di cui anche la tecnologia del lavoro è espressione, potremo contrastare un declino che è già in atto e che tragicamente si affermerà se la cultura verrà progressivamente meno.

Per fortuna invece il MAST ci nutre di bellezza e di speranza attraverso una rinnovata mostra fotografica assolutamente da non perdere. Non resta che ringraziare di cuore.

Info Mast Photography Grant on Industry and Work

  • Mostre di Hicham Gardaf, Lebohang Kganye, Farah Al Qasimi, Maria Mavropoulou, Salvatore Vitale.
  • A cura di Urs Stahel
  • Dal 25.01.2023 al 01.05.2023
  • Aperto dal martedì alla domenica, dalle 10.00 alle 19.00 – Ingresso gratuito
  • Via Speranza, 42, Bologna
  • Catalogo: Corraini Edizioni
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Vive a Bologna, dove lavora come logopedista al Servizio di Neuropsichiatria Infantile occupandosi prevalentemente di disturbi della comunicazione, del linguaggio e dell'apprendimento, è appassionata da sempre di Arte, in qualunque forma si presenti. Da alcuni anni ha iniziato un percorso nel campo della fotografia

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