Alla Biennale: la particolarità dell’outsider

Al termine del suo saggio introduttivo al catalogo della veneziana Biennale 55, È tutto nella mia testa?, Massimiliano Gioni sintetizza in questi termini il senso della sue scelte commissariali, precisando la direzione e la specificità della sua proposta espositiva:

«Dopo tutto, il modello stesso delle esposizioni biennali nasce dal desiderio impossibile di concentrare in un unico luogo gli infiniti mondi dell’arte contemporanea: un compito che oggi appare assurdo e inebriante quanto il sogno di Auriti. A dispetto del titolo quindi, Il Palazzo Enciclopedico non ha ambizioni universalistiche: l’enciclopedia che invoca non è quella di Diderot ma piuttosto l’enciclopedismo barocco e, ancora prima, quello medioevale, in cui magia, riti, tradizioni e credenze religiose contavano almeno quanto l’osservazione diretta della realtà. In maniera ancora più esplicita, Il Palazzo Enciclopedico è una mostra sul bricoleur e l’autodidatta: pertanto è una celebrazione dell’eccezione e dell’eccentrico piuttosto che il tentativo di una sistematizzazione totale. Dopotutto come scriveva Joseph Beuys in un testo che sembra evocare molte delle atmosfere di questa mostra, “ogni uomo possiede il Palazzo più prezioso del mondo nella sua testa”: bisogna entrare in se stessi per occupare questo palazzo, per trasformare le nostre immagini interiori in realtà»[1].

Di certo eccentrica è la produzione ‘astratta’ di Hilma af Klint, la pittrice svedese che in vita non volle mai esporre quanto sperimentava al di là dei canoni figurativi che correntemente invece mostrava al pubblico. Con decisione testamentaria, chiese che le sue opere ‘non’ naturalistiche, in cui, influenzata dall’esoterismo e dalla teosofia (fino all’antroposofia di Steiner), tentava di render rappresentabile (dandole immagine o espressione) la dimensione ‘invisibile’ del quotidiano, fossero rese pubbliche solo 20 anni dopo la sua morte. Attiva alla fine del secolo XIX e nel primo decennio del XX, anticipò con la sua produzione segreta le istanze dell’astrattismo storico, se non altro per la medesima vocazione ‘spiritualistica’ che l’accomunava a Kandisky, Malevič e Mondrian. L’attenzione su questo corpus di lavori è stata rilanciata recentemente (2013) dalla grande mostra retrospettiva Hilma af Klint – a Pioneer of Abstraction, allestita al Moderna Museet di Stoccolma e al Museo Hamburger Banhof di Berlino. Gioni ha inserito 5 sue opere nel Padiglione Centrale dei Giardini, insistendo sul fatto che essendo la mostra:« interessata ad esplorare i regni dell’invisibile e i domini dell’immaginazione, il lavoro di Hilma af Klint si rivelerà certamente centrale per iniziare un’indagine sui molteplici modi in cui le immagini sono state usate per organizzare la conoscenza e dar forma alla nostra esperienza del mondo»[2].

Risulta così ancor meglio chiarito che il riferimento di Gioni all’universo immaginario rientra nei termini “dell’antropologia delle immagini” di cui parla Belting e in cui l’immagine non può essere considerata «soltanto come prodotto di un determinato mezzo (la fotografia, la pittura o il video), ma anche come prodotto del nostro io, nel quale generiamo immagini personali (sogni, immaginazione e percezioni) che interagiscono con le altre immagini del mondo visibile»[3].

Da ciò consegue che, come nel caso della Klint, chiunque intenzionalmente operi una traslazione ‘formale’ dal proprio serbatoio interiore di immagini a quello esteriore della loro esposizione sensata (per fini intellettuali, estetici o ‘psicologici’ ecc.) può a buon diritto, per il curatore, essere equiparato alla schiera degli operatori artistici ‘tout court’.

In tal senso, con tonalità simpatetica forse più vicina all’immaginazione ‘formatrice’ di Merleau-Ponty che all’inconcusso fondo filogenetico delle Urbilder del Libro Rosso di Jung [4], Gioni ha selezionato, oltre a un centinaio di artisti riconosciuti, una trentina di outsiders che esplorano l’immaginifico senza tema di abbracciarne i contorni ambigui e sfumati delle esperienze medianiche, spiritistiche o occultistiche.

Eclatanti in mostra si rivelano essere le opere di Lesage , Crowley e Rizzoli. Il primo, Augustin Lesage, minatore francese, nel 1911 mentre lavorava duramente in un cunicolo sentì una voce che, al pari delle visioni per la Klint, lo indirizzò alla pittura. Imbracciati pennello e colori, fu in grado di eseguire composizioni estremamente complicate e di grandi dimensioni, contenenti stilemi di molte culture figurative: dagli egizi agli indiani. Dedicatosi interamente alla pittura tra le due guerre e sostenuto economicamente dalla Società Spiritistica Parigina, continuò a stupire i contemporanei per la miracolosa spontaneità con cui era in grado di padroneggiare un universo immaginario che pareva fluire dalle sue mani attraverso un rapporto medianico con il patrimonio iconografico umano del passato. Le tele esposte, Composition symbolique sur le monde spirituel (1923, 1925), Composition symbolique. Amour pour l’humanité (1932), danno la sensazione di un caleidoscopio d’immagini simmetriche che richiamano la proliferazione di elementi frattalici direzionati verticalmente. Sembrerebbe che l’autore, similmente al mito della caverna platonica, una volta liberatosi del mondo ‘apparente’ della miniera fatto di inerti stratificazioni di materiale geologico, lo abbia ritradotto, alla luce ‘dello spirito’, come effettivamente reale in una sovrapposizione infinita di simboli.

Per quanto riguarda Aleister Crowley, ermetico, mistico, e presunto satanista, fondatore del culto di Thelema (edotto a suo dire dallo spirito Aiwass, ministro del dio egizio Horus), sono in visione, sempre nel Padiglione centrale, nove acquerelli dei Tarocchi che egli commissionò alla pittrice Frieda Harris nel 1938. Costati cinque anni di lavoro per la cura posta nei dettagli da parte degli autori, questi lavori dall’iconografia déco fondono il simbolismo della tradizione esoterica con il desiderio da parte di Crowley di ampliare questo variegato bagaglio figurativo passato calettandolo con la propria visionarietà, ‘ispirata’ e sostanziata dalla ritualità magico/sessuale con cui conduceva le cerimonie iniziatiche della sua religione.

Achilles G.Rizzoli è un caso che ha fatto riconsiderare la categoria dell’outsider art [5], dopo la scoperta, avvenuta casualmente nel 1990, della sua produzione di ‘architetture’ visionarie, in cui egli simbolizzava eventi e persone. Al contrario di molti altri outsiders, non era un autodidatta ma disponeva di una preparazione tecnico-scientifica, acquisita presso il Politecnico di Oakland fino al 1915, e grafico-meccanica (in particolare, nel disegno prospettico), frutto della frequentazione del San Francisco Architectural Club (dal 1916 al 1922), dove apprese le regole della composizione e progettazione architettonica nonché l’iconografia dei vari stili (dall’architettura classica, a quella rinascimentale piuttosto che romanica o gotica)[6].

Questa formazione specifica ha sussidiato sempre Rizzoli nel suo lavoro creativo originale e ‘artistico’, consentendogli di dare una veste formale riconoscibile e precisa alle sue visioni e ‘sogni’ costruttivi. Questi presero corpo negli anni ’30 quando, ottenuta la stabilità economica con l’impiego come bozzettista presso lo studio architettonico Deichmann, si stabilì con la madre, cui era morbosamente legato, a San Francisco. Impiegato modello e introverso di giorno, di notte dava libero sfogo alle sue ‘simbolizzazioni’ (in forma architettonica) di persone a lui care, presentandole come emblematizzate in edifici meravigliosi, che presuppongono un mondo utopico e conciliato ( la città immaginaria di Y.T.T.E.), dove non c’è posto per dolore e solitudine (che invece lo affliggevano nella realtà, tanto da farne un emarginato dopo la morte della madre), ma solo l’armonia di gioia e bellezza compendiate dall’architettura in quanto diretta espressione del benvolere divino ( era un cattolico devotissimo e un praticante ‘ossessivo’ della parrocchia locale).

In esposizione, ai Giardini, vi sono otto ‘opere’, tra cui la prima, del 1935, dedicata alla madre: Mother Symbolically Represented. The Kathedral. Qui, la figura della genitrice (che perderà nel 1937, lasciandolo nella più cupa disperazione) è ‘elevata’, all’interno di un grande biglietto di compleanno dipinto ad inchiostro ( 85,7×55,6 cm), in sembianza di chiesa neo-gotica con due torri diseguali a lato della facciata. Ogni parte della ‘cattedrale’ è riccamente ornata per visualizzare metaforicamente la forza, la bellezza e la ricchezza spirituale dell’animo della madre.

Le metamorfosi umano-litiche come questa, così come le altre dei conoscenti, hanno fatto parlare di Rizzoli come ultimo rappresentante della cosiddetta “architettura parlante” [7], sviluppatasi in Francia nel Settecento con E.-L. Boullée, C.-N. Ledoux e J.-J. Lequeu. Le ‘fisionomizzazioni’ del Nostro sembrano riprendere in qualche misura l’idea che gli edifici debbano rendere esplicito immediatamente il proprio ‘carattere’ attraverso la tipologia costruttiva.

Boullée aveva specificato il ‘carattere’ architettonico, riportandolo al registro delle forme naturali di per sé espressive della loro funzione, come corrispondenza biunivoca tra impressione e immagine [8], aprendo in certo modo alla sublimità della ricchezza creativa interiore in grado di rimodulare l’effetto impressivo naturale (il riconoscimento del suo proposito) attraverso la grammatica costruttiva. Similmente si muove Rizzoli nel tentativo di perseguire (e rendere in immagine) «nelle regole delle forme architettoniche il modo di trasformare quei “caratteri” che lui trovava nelle persone»[9].

Così, nell’ossessiva ricerca di fissare ‘in eterno’ lo spirito vivente dei soggetti rappresentati (i pochi che gli avevano dimostrato interesse) nell’inorganico della loro figurazione architettonica, egli testimonia dello sforzo titanico di sublimare in concreto l’inespresso delle proprie pulsioni affettive (l’amore che non riuscì a manifestare a nessuno, all’infuori della madre) come sublime monumento del ricordo.

Ma il sogno di trasporre le proprie ideazioni in un’immagine imperitura non è forse comune ad ogni artista, outsider o no?

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Note

1.  M.Gioni, È tutto nella mia testa? in Il palazzo enciclopedico. Vol I, Venezia, Marsilio, 2013, p. 28.

2.  Intervista in Hilma af Klint going to Venice Biennale 2013 ( http//ww.modernamuseet.se).

3.  Cfr. Hans Belting, Antropologia delle immagini, tr. it. a cura di S. Incardona, Roma, Carocci, p.10.

4.  L’esposizione delle tavole del Liber Novus (Libro rosso) (1914-1930) di C.G.Jung apre, in una sorta di introduzione tematica, il Padiglione Centrale della Biennale ai Giardini.

5.  Termine coniato da Roger Cardinal nel 1972, come sinonimo dell’art brut e designante, in generale, più che una tonalità espressiva particolare, quegli artisti che operano al di fuori o marginalmente alla cultura ufficiale.

6.  L’insegnamento standard per l’istruzione architettonica negli Stati Uniti all’inizio del secolo era basato sui principi dell’Ecole des Beaux- Arts parigina, e prevedeva prove pratiche per gli studenti consistenti nella presentazione di progetti grafici di edifici (projects rendus) che gli stessi dovevano approntare, utilizzando l’inchiostro di china nella risoluzione finale, in base agli insegnamenti appresi. Questi consistevano nel rispetto dell’unità e dell’ordine, della progettazione assiale e radiale, della simmetria nella disposizione delle forme, delle proporzioni e degli schemi decorativi armonici. La precisione e la cura nei dettagli erano fondamentali in questo tipo di esercitazione, particolari che diventavano sempre più complessi via via che lo studente proseguiva nel corso e si misurava con la presentazione grafica di megastrutture civili o religiose (Cfr., su questo, Sarah F.MacLaren, L’architettura magnifica di Achilles G. Rizzoli, Agalma.Rivista di studi culturali e di estetica, 14, 2007, pp.42-57 (http://www.agalmaweb.org/articoli.php?rivistaID=14).

7.  Cfr. J.Beardsley, The Joy Zone ( A Bit of Heavenly Architecture) in J. F. Hernandez, J.Beardsley, R. Cardinal, A.G. Rizzoli. Architect of Magnificent Visions, San Diego, Harry N.Abrams Inc. ( Cat. della mostra al San Diego Museum of Art), 1997, p.90).

8.  Etienne-Louis Boullée, Architettura. Saggio sull’arte, tr. it. a cura di Aldo Rossi, Padova, Marsilio, 1967.

9.  Cfr. S.F. MacLaren, L’architettura…cit. p.46.

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Pagliasso, Giancarlo (Torino, 1949). Estetologo, scenografo, artista e scrittore. Fondatore, nel 1976, del G.R.M. e direttore dello Studio 16/e (Torino, 1977-90). Teorico e artista dell’Arte Debole (1985-96). Direttore dal 1997, dell’agenzia d’arte Figure. Caporedattore della rivista www.Iride.to. (2002-2004). Ha pubblicato: Déjà Chimera Saggi/Writings, 1987-90 (Tangeri, 2001); La retorica dell’arte contemporanea (Udine,Campanotto, 2011); Il deficit estetico nell’arte contemporanea (Cercenasco, Marcovalerio, 2015); Fotografia 2 (Udine, Campanotto, 2015); Il nuovo mondo estetico (con Enrico M. Di Palma) (Cercenasco, Marcovalerio, 2020). Ha curato: Sheol (Torino, Marco Valerio, 2003); Collins&Milazzo Hyperframes (Udine, Campanotto, 2005); Julian Beck. Diari 1948-1957. (Udine, Campanotto, 2008); Julian Beck. In the Name of Painting (Pordenone, 2009). Curatore di mostre in Italia e all’estero, è uno dei redattori di Zeta (Udine), con cui collabora dal 2005.

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