Contronote sul Pierino di Paolino. A proposito del Pierino Porcospino di Paolo Pera

immagine per Paolo Pera, Pierino Porcospino, 2018

Nella premessa  alla sua versione di Pierino Porcospino (in uscita per i tipi di Gian Giacomo Della Porta Editore), l’autore (Paolo Pera) si qualifica come missionario nel «proporre goffamente i frutti di un’alienata – e inquinata – fantasia», cercando di sviarci dal recondito della sua vera intenzione: rileggere l’inconscio di Der Struwwelpeter di Heinrich Hoffmann, facendo finta (l’estetica analitica parlerebbe di  make-believe) di  fornirne una traccia aggiornata sulle corde di una presunta diegesi autobiografica.

Non è dimostrabile che Paolo Pera (d’ora in poi, stando al gioco, lo chiameremo, Paolino) conosca l’interpretazione data da Groddeck delle novelle di Hoffmann (in cui anche il medico educatore è osservato  a sua volta dall’analisi psicoanalitica dell’autore de Il libro dell’Es); certo è che, in qualche misura,  sembra porsi come doppio dello psichiatra francofortese, illustrando graficamente  anche – come fece lui nel 1848 – i versi delle sue nuove filastrocche.

Al pari di lui, Paolino vuole farci intendere che i personaggi di cui tratta sono, come scrisse Anita Eckstaed di Hoffmann, «immagini al negativo del bambino che fu».

Così, le vicende di Paulichen che s’incendia, del cattivo Federigo che finisce azzannato, del grasso Gasparino che muore anoressico o di Konrad (che subisce la mutilazione delle dita per essersele succhiate) a tutta prima, negli episodi disegnati e nei versi liberi di Paolino, paiono articolare la loro violenza secondo gli stilemi di una divertita e antimoralistica vena splatter, a sussidio dell’adagio che l’infanzia  non possa essere emendata dai suoi difetti, se non in quanto soppressa, prima di aprirsi a possibili evenienze di correzione nell’età adulta.

Rimodulando le filastrocche di Hoffmann,  attraverso la mediazione di quelle felicemente rimate da Gaetano Negri nel 1882, che trasudano però del severo perbenismo educativo interno alla cultura della giovane Italia post-unitaria, Paolino ci induce a pensare che anche la sua storia infantile (nella premessa, lamenta «la colpa…d’una generale educazione al brutto…della perdita d’ogni valore e d’ogni dignità ideale») possa iscriversi, o essere riconducibile, all’interno dei disturbi e patologie comportamentali che accompagnano la crescita di molti bambini.

Infatti, l’identificazione, nelle dieci storie, con le malattie mentali quali la bulimia e l’anoressia, il comportamento antisociale piuttosto che l’iperattività, il deficit d’attenzione o la piromania, è quanto ha caratterizzato la letteratura interpretativa del libro hoffmanniano, in parallelo al nodo gordiano delle relazioni tra natura e cultura in ambito pedagogico (in quanto riflesso tra universi infantile e adulto).

Sulla selvatichezza dei modi – quella che Adorno in Minima Moralia tratteggerà come antesignana dell’ideologia porcospinosa della prassi nazista di trattare gli uomini con pura brutalità –  Paolino ricostruisce le storielle del fiero cacciatore e del moretto, per indurci alla captatio benevolentiae verso la sua rappresentazione sadica delle sventure dei personaggi.

Questa selvatichezza, però, a cominciare dall’illustrazione grafica e verbale della vicenda del cacciatore, diviene indizio che egli, sottotraccia, mira a portarci a riflettere sul suo macabro divertissement al di là del  metadiscorso narcisistico che ci aveva fatto intendere voler perseguire.

Intanto, nella rivisitazione del testo, il Nostro si discosta da Hoffmann per quanto attiene al suo retaggio illuministico – che lo scrittore tedesco media dalla pedagogia di Rousseau – di una natura già da sempre orientata a favorire uno sviluppo di formazione psico-sociale positivo.

Infatti, Paolino fa morire tutti i personaggi della storia, che si riducono alla lepre, assassina e suicida, al cacciatore e sua moglie.

Rispetto alla versione originale (e a quella del Negri, cui ammicca come riferimento ispiratore) manca il leprottino-figlio, l’unico a ‘godere’ dello zucchero ‘spermatico’ versato in seguito allo sparo-erezione del fallico fucile imbracciato dalla lepre.

Ora, Paolino riduce anche la parte grafica (che nell’edizione tedesca accompagna in quattro riquadri colorati l’intero svolgersi della vicenda tra il cacciatore e la lepre) ad una sola vignetta in bianco e nero, in cui l’animale con il fucile eretto assiste gioiosamente all’ascesa celeste dell’anima del cacciatore.

Infine, se il Negri inquadra nella simmetria di 42 endecasillabi doppi a rima baciata le peripezie del cacciatore, cacciato dalla sua preda, per renderle meno ostiche al lettore; il Nostro sviluppa il tema in 70 versi liberi, con metrica che varia dal quinario al dodecasillabo, per palesare invece verbalmente il ritmo concitato del furto-castrazione del fucile da parte della lepre e della sua spietata vendetta.

L’assunto è che la natura non è buona per niente, ma pure la cultura non aiuta.

Così, la lepre non solo spara al cacciatore e ne provoca la morte, inducendolo a gettarsi nel pozzo, ma uccide anche la moglie di quest’ultimo e si toglie la vita per nevrosi d’abbandono.

La morale suona ancora più drastica: sparito il figlio-leprotto, viene meno l’effetto inibente che il padre fallico (ideale) ha – in quanto coscienza morale superegoica – sul bambino, la cui castrazione simbolica la lepre effettua in modo traslato sul cacciatore rubandogli il fucile.

Dotata del suo fallo-arma, la lepre è soggetta  al desiderio della moglie (del cacciatore), ponendosi così nella posizione del figlio, ma non risolve l’edipo perché viene rimessa nel ruolo di madre-padre, allorché la moglie (madre) del cacciatore le mostra la pelliccia fatta con le pelli dei suoi cuccioli.

In quanto madre-padre, la lepre constata l’impossibile dell’amore del figlio, cioè l’impossibilità del suo desiderio; come figlio, invece, è costretta a riconoscere che la madre, come  moglie del cacciatore, desidera quest’ultimo, ma non può assumere positivamente l’impossibilità del suo desiderio perché sa che il padre è morto ( lei ne è la causa, con la caduta nel pozzo del cacciatore).

Quanto emerge è che Paolino (d’ora in poi lo chiameremo l’autore), rivisitando Hoffmann, non aggiorna la dinamica pulsionale e liberatoria dell’Es, sottesa alle sue storielle, come voleva Groddeck, ma nemmeno ne accentua la valenza struttural-culturale, seguendo Lacan.

L’autore si limita a lasciarci in compagnia di un ‘bambino’ che, alla ricerca del proprio desiderio, rimane sospeso tra l’amore verso il padre ideale e il riconoscimento doloroso di quello reale.

Dimenticavo: si tratterebbe di far vedere ulteriormente come procede l’autore nella sua dualità irrisolta sotterranea anche a proposito de La storia del Moretto, ma si è fatto tardi… e mi limito a lasciare alcuni indizi che il lettore dovrà completare da solo.

L’autore, rispetto all’originale e alla versione del Negri, disegna e descrive i tre bambini, che incontrano e insultano il malcapitato ragazzino di colore, come incappucciati del KKK.

Uno solo (Gigino) agita la bandiera, come indicato da Hoffmann, gli altri due non sono nominati (Kaspar e Wilhelm, nel testo tedesco) e portano croci in fiamme invece del cerchio  e della ciambella.

Il maestro Nicolò viene indicato dall’autore solo con la sua funzione, resa tuttavia più forte attraverso il richiamo metonimico del calamaio, nel tentativo di precludere l’identificazione, suggerita nel testo tedesco, con San Nicola.

Ipotizziamo che il moretto, nel suo desiderio di esser visto autenticamente per quello che è, sia l’Io Ideale (e quindi rientrare nel registro dell’immaginario), mentre i tre ragazzini che non lo accettano, ben identificati edipicamente e vogliosi di farsi apprezzare dallo sguardo sociale nel rimarcarne lo spirito e la lettera identitari, siano l’Ideale dell’Io (circoscritti perciò al simbolico), allora il maestro, in quanto  loro contraltare punitivo e violento, invece che solo coscienziale, è il Super-io, che circoscrive l’inemendabile del reale.

Date queste premesse, lasciamo  a chi vorrà leggere il Pierino Porcospino di Paolo Pera il piacere di scoprire perché l’autore non ha rispettato il finale de Die Geschichte von den schwarzen Buben di Hoffmann.

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Pagliasso, Giancarlo (Torino, 1949). Estetologo, scenografo, artista e scrittore. Fondatore, nel 1976, del G.R.M. e direttore dello Studio 16/e (Torino, 1977-90). Teorico e artista dell’Arte Debole (1985-96). Direttore dal 1997, dell’agenzia d’arte Figure. Caporedattore della rivista www.Iride.to. (2002-2004). Ha pubblicato: Déjà Chimera Saggi/Writings, 1987-90 (Tangeri, 2001); La retorica dell’arte contemporanea (Udine,Campanotto, 2011); Il deficit estetico nell’arte contemporanea (Cercenasco, Marcovalerio, 2015); Fotografia 2 (Udine, Campanotto, 2015); Il nuovo mondo estetico (con Enrico M. Di Palma) (Cercenasco, Marcovalerio, 2020). Ha curato: Sheol (Torino, Marco Valerio, 2003); Collins&Milazzo Hyperframes (Udine, Campanotto, 2005); Julian Beck. Diari 1948-1957. (Udine, Campanotto, 2008); Julian Beck. In the Name of Painting (Pordenone, 2009). Curatore di mostre in Italia e all’estero, è uno dei redattori di Zeta (Udine), con cui collabora dal 2005.

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