Metafore dell’impegno all’interno della 56 Biennale di Venezia

R.Tiravanija, Untitled, 2015

Okwui Enwezor sostiene in catalogo che la condizione stessa di una mostra internazionale come la Biennale di Venezia sia una sorta di trascendentalità socio-culturale in grado di orientare  le scelte operative degli artisti verso una riflessione impegnata «del rapporto tra arte e il suo contesto storico». L’attuale congiuntura del mondo prescrive, laddove come nel caso di manifestazioni culturali importanti quali le grandi esposizioni d’arte si mostra e si discute dello stato della creazione e dell’inventiva spirituali, che queste vengano finalizzate alla comunicazione di un significato, poiché:«Oggi, ancora una volta, il paesaggio globale è segnato da profondi disordini, terrorizzato dall’ombra della crisi economica e da una confusione virale, dalle politiche secessioniste e dalle catastrofi umanitarie in mare aperto…»(1).

Rispetto a questo quadro e per evitare che «l’arte si raffreddi in una compostezza che è un rigor mortis formale», l’invito di Enwezor è stato declinato in diversa misura dagli artisti invitati alla kermesse veneziana, tuttavia l’opera che più mi è parsa in sintonia con gli intendimenti del curatore, che all’uopo aveva segnalato come paradigmatica la lettura storica fatta da Benjamin dell’Angelus Novus di Klee, è The AK-47 vs the M16 (A Universe of Collisions), 2015 di The Propeller Group (Tuan Andrew Nguyen, Phunam  Thuc Ha e Matt Lucero). Il collettivo vietnamita ha proposto all’Arsenale, all’interno di un parallelepipedo di gel balistico e con proiezioni di filmati, la collisione tra due pallottole sparate da armi utilizzate durante il periodo della guerra fredda. Il gruppo, conosciuto già per il fantastico trailer pubblicitario che sponsorizzava il Comunismo nella mostra The Ungovernables (New Museum Triennial, NY 2012), ha preso spunto per l’opera veneziana dalla visione di due proiettili scontratisi su un campo di battaglia della guerra di secessione americana. Successivamente, la discussione tra i membri ha portato a riflettere sul significato dello scontro e della sua valenza simbolica in un’ottica di confronto non apertamente bellico ma ideologico-politico-economico quale è stato quello tra i due blocchi americano e sovietico per buona parte del secolo passato. La visualizzazione delle tensioni, di punti di frizione e dei momenti di possibile confliggere reale che l’immagine dello scoppio dei proiettili rende tangibile (per mostrare la quale TPG ha utilizzato le tecniche balistiche con la paraffina in uso all’FBI) risulta in questo modo la metafora più efficace possibile per trasmettere in chiave squisitamente formale e percettiva  il senso di una contrapposizione tra due weltanschauungen apparentemente inconciliabili.

È singolare che la brutale bellezza delle volute e delle bolle di gas sprigionate dall’impatto delle ogive mi abbia richiamato alla mente, portandomi a virare completamente forse dagli intendimenti degli artisti, il perlage di una stupenda bottiglia di Marengo, che avevo gustato qualche sera prima a Monforte a casa del mio amico Dario M., dove, grazie alla moglie Silvia e al figlio Enrico, avevo potuto apprezzare la cucina della maison e questo singolare vino, prodotto dal vitigno del Cortese, che un particolare processo di chiarificazione e una doppia fermentazione a bassissima temperatura e in autoclave rende fruttato agli agrumi, al gelsomino e al gusto di acacia.

Va da sé che far collidere due pallottole all’interno di una vasca di Marengo avrebbe potuto sollecitare riflessioni sulle sperequazioni  e contrasti delle politiche alimentari all’interno della massificazione e non dell’agricoltura globalizzata, ma la mia impressione stavolta era dettata da uno stimolo estetico, forse non kantiano, ma autenticamente ‘sentito’.

Tornando al tema del richiamo all’ordine di Enwezor, ho trovato pertinente l’intervento installativo di Adel Abdessemed, che non sempre mi aveva convinto circa la puntualità tematica in esposizioni precedenti. L’opera, dal titolo Nympheas  e sistemata  a terra all’ingresso dell’Arsenale con neon socio-concettuali degli anni ‘70 di Bruce Nauman alle pareti, consiste di fasci di lunghi coltelli che, piantati su basamenti in ferro, si aprono a raggiera come petali dalla parte del manico.

Di certo, l’impatto metaforico per significare «le catastrofi impilate ai piedi dell’angelo della storia» è meno efficace e decisamente più naif di quello articolato da The Propeller Group, ma la qualità sensibile dell’insieme coinvolge a livello percettivo perché l’articolarsi quieto, ‘stagnante’ e floreale delle lame, nella semioscurità dell’ambiente, ci ricorda pur sempre che la terribilità di un luogo, di un contesto o di un’epoca è in qualche misura affrontabile quando lo sguardo che ci guida sa distinguere e confrontare in modo accorto e vigile.

Traslazione puramente metonimica è invece il lavoro di Gluklya (Natalia Pershina-Yakimanskaya), artista russa che mostra capi di vestiario, ‘appesi’ su alte grucce a croce greca, indossati durante le manifestazioni di protesta nel suo paese principalmente contro l’elezione e l’insediamento al governo di Putin (il titolo è emblematico Clothes for Demonstration against False Elections of Putin).

Tuttavia, queste sineddochi crocifisse sono interessanti non tanto come spoglie di rivendicazione politica ma, essendo personalizzate, in quanto indicatori socio-psicologici o, come spiega l’autrice, «elementi di confine e confronto tra l’esterno e l’interno, tra il privato psicologico-corporale e il pubblico del mondo socio-fisico». Il fatto di essere discriminanti e contigui alle polarità soggettive ed oggettive, di essere metafora tra l’interazione chiasmica’( per dirla alla Merleau-Ponty) del “dentro e fuori” è quanto costituisce la pregnanza e la valenza politiche degli abiti piuttosto che la loro contestualità oppositiva e contestataria di essere vessilli portati del dissenso.

Su un piano di interscambio funziona invece la proposta culturale di Rikrit Tiravanija, che riadatta per lo spazio delle Artiglierie un suo intervento effettuato in una galleria di Pechino nel 2014. Con Untitled 2015 (14.086), l’artista presenta 14.086 mattoni (quanti occorrono per costruire la più piccola unità abitativa in Cina), messi ad asciugare al sole, incisi in lingua cinese con il motto graffito da Guy Debord a Parigi nel 1953 «Ne travaillez jamais» («non lavorate mai»), impacchettati e venduti ai visitatori da muratori-artisti. Ogni mattone costa 10 euro e contribuisce a finanziare l’ISCOS, organizzazione per i diritti dei lavoratori nel mondo.

In certa misura, in quest’opera costruita dal vivo permane la dinamica dello scambio economico alla base della produzione di merci, ma sottende un’ottica di condivisione sociale, visto il consenso richiesto  rispetto alla finalità dell’acquisto, allargata alla prospettiva non semplicemente mercatistica della produzione di beni immobili o privati, che metaforizza un ambito più paritario e meno diseguale del mercato almeno limitatamente all’interazione diretta tra produttore e fruitore

Rispetto alle intenzioni ireniche dell’artista, che assegna all’arte il ruolo di mallevadrice verso la libertà, ogni singolo tassello venduto di Untitled 2015 si posiziona realmente come un mattone in grado di contribuire a costruire l’edificio solidale che l’ISCOS vuole preservare dagli attacchi delle disuguaglianze sociali che le recenti politiche del lavoro globalizzate sono state in grado di attivare.

Un’eco di questa intenzionalità producente effetti concreti si respira anche in Sepphoris, un progetto – tra gli Eventi Collaterali alla mostra – nato da una visita nel 2011 dell’artista e fotografo Alessandro Valeri all’orfanotrofio di Tsippori, nei pressi di Nazareth, in Israele.

L’edificio è situato in un kibbutz ebraico, in un territorio prevalentemente abitato da arabi musulmani, dove un gruppo di suore dell’Ordine delle Figlie di Sant’Anna ha aperto un centro accoglienza per  bambini di tutte le etnie e di tutte le fedi, nel quale non è praticata alcuna opera di evangelizzazione. Le foto, scattate da Valeri, della
 struttura
e dei bambini, cercando di rendere la miracolosa sospensione di ogni contraddizione presente  in quella terra ottenuta dalla semplice collaborazione comunitaria di persone di buona volontà, forniscono il materiale per l’installazione ( a cura di Raffaele Gavarro) nell’atrio interno del Molino Stucky di Venezia. Questa  consiste in quindici tele (3mx3m) di immagini fotografiche con interventi pittorici, che si avvitano per 25 metri lungo le pareti della struttura.  Le opere essendo state donate 
all’orfanotrofio,  per
 ottenere
beni
 di
 prima
necessità
 e
ristrutturare parti dell’edificio, sono già testimonianza mostrata della loro nuova destinazione,  non più rappresentativa ma ostensiva e fattuale di questa seconda finalità ausiliatrice. Si fanno in termini paradossali metafora non tanto di immagini toccanti quanto di comportamenti virtuosi. L’installazione
è
accompagnata da un video che illustra l’iter del progetto, caldeggiato da Valeri e reso possibile dal concorso solidale di diversi soggetti unanimemente coesi nel sostenerlo.

 

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Pagliasso, Giancarlo (Torino, 1949). Estetologo, scenografo, artista e scrittore. Fondatore, nel 1976, del G.R.M. e direttore dello Studio 16/e (Torino, 1977-90). Teorico e artista dell’Arte Debole (1985-96). Direttore dal 1997, dell’agenzia d’arte Figure. Caporedattore della rivista www.Iride.to. (2002-2004). Ha pubblicato: Déjà Chimera Saggi/Writings, 1987-90 (Tangeri, 2001); La retorica dell’arte contemporanea (Udine,Campanotto, 2011); Il deficit estetico nell’arte contemporanea (Cercenasco, Marcovalerio, 2015); Fotografia 2 (Udine, Campanotto, 2015); Il nuovo mondo estetico (con Enrico M. Di Palma) (Cercenasco, Marcovalerio, 2020). Ha curato: Sheol (Torino, Marco Valerio, 2003); Collins&Milazzo Hyperframes (Udine, Campanotto, 2005); Julian Beck. Diari 1948-1957. (Udine, Campanotto, 2008); Julian Beck. In the Name of Painting (Pordenone, 2009). Curatore di mostre in Italia e all’estero, è uno dei redattori di Zeta (Udine), con cui collabora dal 2005.

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