Uno sguardo globale sulla Beat Generation al Centre Pompidou di Parigi

Beat Generation Centre Pompidou Paris 2016 - B.Plossu, Mexique (Le Voyage mexicain), 1966

Sotto un cielo autunnale e piovoso, in una Parigi assorta e appena scossa dallo straripamento della Senna, dalle violenze degli hooligans per gli Europei di calcio, dai disagi degli scioperi contro la riorganizzazione del lavoro e dal peso psicologico della convivenza subliminale con la minaccia terroristica, si è aperta a fine giugno al Beaubourg la mostra dedicata alla Beat Generation.

Coordinata da Philippe-Alain Michaud (coadiuvato da Jean-Jacques Lebel, Rani Singh  ed Enrico Camporesi), l’esposizione (che proseguirà da novembre 2016 a marzo 2017 al ZKM di Karlsruhe) si propone di fare il punto sull’influenza e i raccordi culturali che il movimento beat ha avuto e prodotto anche al di fuori del contesto americano di partenza (in particolare a Tangeri e Parigi).

Insistendo sul valore espressivo della produzione beat, il curatore ha suddiviso la mostra in 15 stazioni che compendiano, illustrandoli, le tematiche e gli ambiti valoriali del messaggio culturale e politico proposto dai poeti, scrittori, musicisti, cineasti e artisti riconducibili alle istanze del movimento.

Mostrando il ruolo anticipatore che la ribellione dei Beats svolse per la generazione degli anni ’60, con la messa in questione degli ideali ingenuamente progressisti dell’Occidente, il rifiuto del razzismo e dei pregiudizi sessuali, il riaggiornamento dell’etica tribale degli Indiani d’America attraverso pratiche  di vita comunitaria libertarie e nomadi (al cui interno l’epica del viaggio e l’uso degli psicotropi come stimolanti creativi divennero vettori di una nuova sensibilità e spiritualità ‘sciamanica’), la mostra in qualche misura ne individua anche la pertinenza storica quale punto di scaturigine della controcultura liberal che ha determinato per la successiva contestazione di ‘sinistra’ al sistema capitalistico un’attenzione privilegiata verso la difesa dei diritti civili a scapito di quelli sociali.

Si parte dal fertile humus del Village a New York, dove poesia e musica jazz costituiscono negli anni ‘40//’50 il sottofondo culturale continuo in cui si muovono Allen Ginsberg, Jack Kerouac e William S. Burroughs, gli attori principali della corrente beat, insieme agli altri protagonisti della scena artistica cittadina.

I curatori, nell’approntare i materiali espositivi, hanno insistito sulle interazioni collaborative e anti-autoriali tra poeti, musicisti e artisti, indotte dall’affermarsi delle tecniche moderne di riproduzione scritta, visiva e sonora.

Così, oltre le pagine delle riviste Floating Bear, Kulchur e Fuck You (diretta dal poeta Ed Sanders), accanto alla macchina da scrivere Underwood di Burroughs, contornata da microfoni, magnetofoni, radio  e registratori magnetici degli anni ‘30/’40, si trova anche il cutter utilizzato da Brion Gysin per sperimentare la tecnica del cut up nel riordino atemporale dei testi.

È per sottolineare che attraverso la ricomposizione ‘combinatoria’ delle frasi (utilizzata anche da Burroughs), l’atto creativo letterario si appaia ai criteri narrativi del montaggio cinematografico/fotografico e dell’improvvisazione musicale jazzistica durante la ripetizione e variazione tematiche dell’esecuzione.

Al centro dello spazio, fa bella mostra di sé pure il dattiloscritto originale di On the Road (1951) di Kerouac: un lungo foglio continuo che ben illustra l’articolarsi del testo – nella sua materialità spaziale di flusso dinamico e torrenziale di scrittura – reso possibile dalla ripetizione infinita del semplice typing.

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Riflessi della poetica ‘documentale’, immediata e ‘in movimento’, che pervade tutta la produzione beat, sono le foto dei paesaggi metropolitani e  naturali statunitensi di Robert Frank ( From the Bus, 1958, e The Americans, 1955), immortalanti New York e  le grandi arterie che attraversano il paese e le cittadine sorte lungo i loro percorsi.

Il medesimo spirito hic et nunc traspare dagli autoscatti e ritratti fotografici di amici e amanti di Allen Ginsberg (Gregory Corso, Jack Kerouac, William S.Burroughs, Paul Bowles, Neal Cassady, Peter Orlovsky, Gary Snyder ecc.). Invece, le foto di Fred W. McDarrah  e John Cohen  dettagliano  nello specifico i luoghi d’elezione nella grande mela dove agivano i poeti e gli scrittori e avvenivano  gli incontri con  gli altri rappresentanti della vita culturale cittadina  (dalla Cedar Tavern al Cafe Bizarre…piuttosto che la sede del Living Theatre a Sullivan Street).

Particolarmente significativi dello spirito di gruppo che sosteneva le imprese creative dei Beats  sono gli scatti di Cohen  durante le riprese del film  Pull my Daisy, sceneggiato da Kerouac, Ginsberg e Cassady,  diretto da Frank e il pittore Alfred Leslie, con musiche di David Amram. Vi compaiono gli stessi Ginsberg e Amram, Orlovsky, Corso, gli artisti Alice Neel e Larry Rivers, gli attori Richard Bellamy e Delphine Seyrig, la danzatrice Sally Gross e il figlio di Frank Pablo.

Questa sezione è chiusa, se così si può dire, da una corposa rassegna di opere figurative che in qualche misura traducono in termini iconografici lo spirito nomade e sincopato delle sperimentazioni scritturali. Vi sono quadri di pittori tout court  come Julian Beck, Alfred Leslie, Jean-Jacques Lebel, Bob Thompson, Larry Rivers e Robert LaVigne accanto ad opere grafiche di Kerouac, Burroughs, Orlovsky e Corso.

Se gli stilemi dei primi rientrano quasi tutti nella koiné espressiva dell’Espressionismo Astratto, le opere dei poeti e scrittori sono decisamente ascrivibili ad una figuratività naif e brut.

La presenza più significativa è quella di Julian Beck, fondatore con Judith Malina del Living Theatre e amico in particolare di Allen Ginsberg (in mostra, vi è una foto del poeta scattata al funerale di Beck nel 1985). Sono esposti quattro suoi quadri compresi tra il 1956 e il 1958, anno in cui decise di smettere la carriera di pittore per dedicarsi interamente al teatro. Sono lavori a tecnica mista e collage che dimostrano la padronanza assoluta della sintassi informale-espressionista da parte di Beck (era nella ‘scuderia’ di Peggy Guggenheim fin dal 1945, quand’ella inaugurò a New York la galleria Art of This Century) e, nello stesso tempo, l’assimilazione delle istanze neo-dada, sicuramente recepite dalla sua frequentazione con Rauschenberg, ma mediate attraverso il filtro di una vena lirica e ‘gestuale’ decisamente originali e in linea con la musicalità interna alla prosodia beat (vedasi, Death by Sea,1958; Untitled, 1958 ed Eleanor of Aquitaine, 1956).

Il dipinto di Leslie The Second Two-Panel Horizontal (1958), pur debitore nei confronti di Motherwell e Kline per la composizione a masse bicolore, è importante in quanto fece da sfondo alle riprese di Pull My Daisy. Anche il collage di intonazione erotica di Lebel ( presente in mostra nelle molteplici vesti di curatore, artista, traduttore e sodale) risente dell’influsso neo-dada, mentre il ritratto del poeta afro-americano LeRoy Jones e della sua famiglia, da parte di Thompson, ha toni espressionistici e realistici di matrice europea, legati al suo tentativo di coniugare in chiave simbolica la tavolozza dei Fauves con i contenuti etnico-antropologici di denuncia degli aspetti e pregiudizi razziali allora presenti nella società americana.

Infine, i ritratti ad inchiostro su carta di La Vigne convengono invece ad un esercizio rappresentativo di scavo psicologico,  come si evince dal delicato Portrait of Peter Orlovsky (1955), eseguito prima della rottura con l’amato a seguito dell’innamoramento subitaneo e passionale di Ginsberg per Orlovsky.

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A compendio, nello spazio delle immagini, una vecchia radio trasmette musica jazz americana degli anni 40’-’50. Si alternano brani di Bud Powell, Miles Davis, Charlie Parker, Art Tatum, Thelonious Monk, Gerry Mulligan e Dizzy Gillespie, tra gli altri.

Le copertine degli album dei dischi sono esposte ad ulteriore rinforzo  dell’ipotesi di sinergia tra le alternanze ritmiche del bebop e le tecniche d’improvvisazione e recitazione della poesia beat.

La sezione dedicata alla stagione californiana dell’esperienza beat (dal 1952 al ’65, in particolare) s’incentra sull’attività della libreria City Lights, fondata da Lawrence Ferlinghetti e Peter D.Martin a San Francisco nel 1953.

Nel ’56 diede alle stampe una pietra miliare della poetica del movimento: Howl and Other Poems di Ginsberg. Soprattutto il testo Howl, accusato di oscenità, contribuì ad alimentare il mito dell’autore e dei suoi amici (il titolo fu suggerito da Kerouac) come vessilliferi di una morale aperta ad accettare le istanze della bisessualità e omosessualità e a rivendicarne la liceità in termini di costume e di esperienza di vita. In mostra, si trova una visualizzazione pertinente del poema ad opera di Allen Ruppersberg The Singing Posters: Poetry Sound Collage Sculpture Book (2006).

Composta da 200 manifesti colorati (occupanti due pareti), con la grafica fluorescente della Colby Poster Printing Company di Los Angeles (una tipografia attiva dal dopoguerra sino al 2012 e significativa nell’attestare un codice espressivo particolare nel panorama visivo californiano), l’opera presenta la trascrizione del testo ginsberghiano in tre diverse maniere: due versioni fonetiche (American Heritage Format e Respelling Format) e una in inglese standard. Frammisti ai blocchi del testo, vi sono posters pubblicitari  di eventi sportivi o d’altro tipo che contribuiscono ad accentuare l’effetto caleidoscopico dell’insieme.

Scopo dell’artista era la trasmissione delle parole del poeta per veicolare nello spettatore l’empito sonoro e vibrante del  reading con cui lo stesso Ginsberg nel 1955, presentando la poesia alla Six Gallery, aveva rivitalizzato la tradizione dell’oralità poetica. San Francisco e la West Coast vedono anche specificarsi un’attitudine più accentuata da parte dei Beats verso la cultura esoterica (sia sul versante dell’interesse spiritual-religioso nei confronti dell’Induismo e della filosofia Zen che su quello pseudo-religioso riguardante l’astrologia e la magia).

All’uopo, la pratica dell’assunzione di droghe diviene propedeutica  in chiave psichedelica e lisergica (vedi foto di Ginsberg che documenta l’incontro tra Timothy Leary, il teorico e profeta dell’LSD, con Neal Cassady).

La produzione artistica del fotografo e regista Wallace Berman, creatore di Semina, una rivista d’arte a tiratura limitata che mescolava prosa, poesia e arte figurativa con contributi di Ginsberg, Borroughs e Jean Cocteau fra gli altri, illustra bene questo clima culturale. Il suo cortometraggio Aleph (1956-66) è un compendio di omaggi alle poetiche dadaista e surrealista, implementate sul credo simbolista dello scompiglio dei sensi per produrre trascendenza.

Il film – in 8mm e completato postumo da Stan Brakhage – contiene interventi pittorici sulla pellicola, immagini fotografiche a 16mm incorporate e l’utilizzo dell’alfabeto ebraico che  viene a costituire una sorta di sfondo subliminale all’interno del vorticoso montaggio delle sequenze. Al di là delle possibili contaminazioni della Kabbalah, in mostra si possono apprezzare diversi suoi collages verifax nei quali la componente numerologica degli elementi sottende sempre la tensione creativa tra finito e infinito.

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La medesima impellenza sperimentale si trova nei cortometraggi di Christopher MacLaine (The End, 1953), Larry Jordan (Man is in Pain, 1955), Bruce Conner (Looking for Mushrooms, 1959, allucinato resoconto sulla trasfigurazione della città di San Francisco che divenne seminale per Dennis Hopper mentre girava Easy Rider) e Stan Brakhage (Desistfilm, 1954, in cui tra gli interpreti figura lo stesso Jordan).

Intorno a Conner ed alla sua Rat Bastard Protective Association, fondata nel 1959, graviteranno anche artisti come Jay DeFeo, Joan Brown, Wallace Berman, e  scrittori quali Michael McClure e Philip Lamantia. Infine, il resoconto dettagliato dei luoghi frequentati dalla comunità beat è fornito dalle istantanee di Ettore Sottsass ( Shig Murao, 1962, ritratto del co-proprietario di City Lights con Ferlinghetti) e Charles Brittin (Charles Brittin’s one-day exhibition at Wallace Berman’s Semina Gallery, Larkspur,1961).

Prima di concentrare l’attenzione sulla vita e produzione letteraria dei Beats a Parigi, la mostra testimonia anche l’attrazione di Burroughs, Kerouac e compagni per il Messico e Tangeri.

Oltre al loro desiderio di rimettersi sulle tracce di Artaud e andare alla ricerca dell’apertura trascendente verso gli stadi di sublimità mentale indotti dalla mescalina e il peyote, il Messico rappresentò pure, come per Conner (Crossroads, 1976), un possibile luogo di salvezza in caso di catastrofe nucleare (vedi la documentazione de Le voyage mexicain, 1965-1966, di Bernard Plossu). Tangeri invece significò per Paul Bowles (che ci viveva fin dagli anni trenta), ma soprattutto per Burroughs (vedi la serie di foto Tanger vers 1964) e il pittore-scrittore canadese Brion Gysin (che vi aprì il ristorante Thousand and one nights) una tappa importante per l’approfondimento del ruolo degli stati di trance nella musica (I maestri musicanti di Jajouka si esibivano nel suo locale) e nella pratica scritturale (la tecnica del fotomontaggio  e buona parte di Naked Lunch venne concepita  da Burroughs all’Hotel El Muniria sotto l’effetto  dell’eroina).

Al contrario, l’esperienza estatica di lucida concentrazione indotta dalla cannabis può aver contribuito ad invogliare Ginsberg, Kerouac, Corso e Orlovsky nel  raggiungere Burroughs in Marocco.

Tra il 1957 e il 1963, i principali protagonisti della corrente beat soggiornano a Parigi, passando per il mitico “Beat Hotel” al n.9 di Rue Git-Le-Coeur. Il fotografo inglese Harold Chapman, che all’epoca alloggiava lì, ha esaustivamente documentato i loro andirivieni (Allen Ginsberg nella camera 25 del Beat Hotel, 1957). Se Burroughs era stato l’artefice del trasferimento in Marocco di Ginsberg e compagni, saranno Ginsberg e Kerouac, che a Tangeri avevano risistemato tutti i frammenti di Naked Lunch (anche il titolo venne suggerito all’autore da Kerouac), a convincerlo di trasferirsi a Parigi nel 1958 (dove il suo ‘capolavoro’ verrà edito dalla Olympia Press nel 1959).

La pensione di Mme Rachou accoglie anche Gregory Corso e Brion Gysin. Quest’ultimo inventa l’artificio strumentale del cut up (la genesi del quale è ben documentata, in catalogo, dalla bella intervista a Gysin fatta da Gérard-Georges Lemaire), che in qualche misura permette di formalizzare a livello pratico-teorico l’abbecedario espressivo di alea e rigore combinatorio già utilizzato da Burroughs nella composizione di Naked Lunch.

Questa tecnica di incisione e ricombinazione irrelata di parti di testo, insieme alla pratica di piegamento dello stesso (fold in) e alla permutazione delle parole, sta alla base della successiva trilogia di Burroughs Soft Machine (1961), The Ticket that Exploded(1962) e Nova Express (1964) ed è portata ai suoi massimi livelli espressivi nell’opera grafico-poetica The Third Mind (1965), composta a quattro mani da Gysin e Burroghs.

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Sempre a Parigi, Gysin con Ian Sommerville, scienziato matematico e amante di Burroughs, costruisce la Dreamachine. Apparecchio cilindrico con fori, al cui interno si trova una lampadina da 100 watt, viene fatto ruotare in modo da suscitare un effetto stroboscopico.

Per i creatori, se osservato da vicino, era in grado di stimolare i ritmi alpha del cervello, suscitando visioni interiori paragonabili a quelle allucinatorie esperite sotto assunzione di droga. Anche l’attività di Ginsberg e Corso è proficua nella Ville Lumière (in mostra abbiamo la visualizzazione dei testi di Kaddish, 1957, e di At Apollinaire’s Grave,1958, del primo, mentre l’abilità di poeta visivo del secondo è palese in Bomb,1958, la cui composizione grafica è omomorfa ai contenuti trattati nel testo).

Durante la permanenza parigina, attraverso la mediazione di Lebel, Ginsberg, Burroughs e Corso incontrano nel 1958 Duchamp, Man Ray, Péret e la moglie di Breton, operando finalmente in modo fisico il raccordo sinestetico con il background culturale dadaista e surrealista che aveva alimentato potentemente la loro ispirazione.

Contemporaneamente, fraternizzano anche con il poeta belga, naturalizzato francese, Henri Michaux (come Ginsberg propugnatore della funzione stimolante degli allucinogeni per la creazione scritturale), e i poeti sonori Bernard Heidsieck e Henri Chopin (che pubblicherà anche le sperimentazioni in quell’ambito di Gysin e Burroughs).

Infine, Ginsberg e Burroughs  si recano anche a Meudon a parlare  di letteratura francese  con ‘l’esiliato’ Celine. Tutte le loro frequentazioni sono ben documentate in catalogo. Ciò che rimane singolare, nei loro trascorsi cittadini è l’assenza di comunicazione con gli scrittori del Nouveau Roman.

Probabilmente, anche se si fossero incontrati, il cartesiano formalismo esistenziale di Butor, Simon e Robbe-Grillet sarebbe suonato lettera morta al loro istintuale vitalismo esistentivo.

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Pagliasso, Giancarlo (Torino, 1949). Estetologo, scenografo, artista e scrittore. Fondatore, nel 1976, del G.R.M. e direttore dello Studio 16/e (Torino, 1977-90). Teorico e artista dell’Arte Debole (1985-96). Direttore dal 1997, dell’agenzia d’arte Figure. Caporedattore della rivista www.Iride.to. (2002-2004). Ha pubblicato: Déjà Chimera Saggi/Writings, 1987-90 (Tangeri, 2001); La retorica dell’arte contemporanea (Udine,Campanotto, 2011); Il deficit estetico nell’arte contemporanea (Cercenasco, Marcovalerio, 2015); Fotografia 2 (Udine, Campanotto, 2015); Il nuovo mondo estetico (con Enrico M. Di Palma) (Cercenasco, Marcovalerio, 2020). Ha curato: Sheol (Torino, Marco Valerio, 2003); Collins&Milazzo Hyperframes (Udine, Campanotto, 2005); Julian Beck. Diari 1948-1957. (Udine, Campanotto, 2008); Julian Beck. In the Name of Painting (Pordenone, 2009). Curatore di mostre in Italia e all’estero, è uno dei redattori di Zeta (Udine), con cui collabora dal 2005.

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