Fabian Marcaccio: la mutazione della pittura

La mostra di Fabian Marcaccio LOVELESS: Variant Paintants, ancora per pochi giorni presso la galleria Jerome Zodo di Milano,  è l’occasione per prendere contezza dell’evoluzione del suo lavoro all’interno del filone di ricerca sui Paintants ( Painting+Mutant). Sono opere che spingono la dimensione pittorica ad esplorare al limite le proprie possibilità fluide, dinamiche e plastiche.

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L’artista argentino-americano con quest’ultima produzione ha segnato ulteriormente una svolta radicale lungo il percorso di ridefinizione della sua composita poetica. Attivo sulla scena newyorchese già alla fine degli anni ’80, Marcaccio è l’erede più coerente dell’approccio decostruzionista in pittura inaugurato da Jonathan Lasker e, diversamente da altri esponenti di quella corrente come Lydia Dona e Shirley Kaneda, con i Paintants ha condotto la figuratività bidimensionale della tela ad ibridarsi con l’astrazione tridimensionale della scultura e la transitorietà del video.

In visione, nell’articolato spazio della galleria, oltre a Paintants scultorei come This Just Out Paintant (2009), This Just In Paintant (2009) e Paint Fuck Film Kill Itself Paintant (2011), che mostrano figure cronenberghiane nell’atto di sputare colore o suicidarsi sparandosi in bocca oppure in grado di autofilmarsi mentre si compattano in qualità di carcasse semi-organiche, vi sono esemplari più recenti assemblati con corde di vario uso, colorati con pittura alchidica e silicone, su telai di legno.

Queste strutture bidimensionali, eppure pittoplastiche, referenziano in genere rispetto alla figura umana nei termini della sua finitudine. Abbiamo infatti un accenno alla problematica cangiante dell’identità in Mirror (2013), un quadro di 180×155 cm., in cui la sagoma sfatta di un possibile ritratto si aggruma tra spesse pennellate di silicone verde/blu sulla superficie a rete, ottenuta dall’intreccio di corde da imballo, che sostituisce il tradizionale supporto della tela. Con In Vitro Transfer (the new origin of the World), del 2012,  un altro grande lavoro (quasi un bassorilievo di 188x155x13 cm.) a tessitura tra corde anche per arrampicata, ma dai toni caldi ed epidermici, la citazione da Courbet adombra una scena confusa di inseminazione artificiale, mentre in Corpse: panel paintant (2011) la griglia di corda, da cui affiorano resti umani, è stampata su tela che viene trattata a pigmenti d’inchiostro e acrilico.

Il tema del cadavere, più che altro nel vorticoso procedere della decomposizione, è il soggetto anche del video in DVD Corpse: animation paintant (2011) e ancora, in un piccolo quadro con supporto di cordame, dal titolo Hitman (2012), riappare il volto di un uomo deformato dall’impasto di silicone e materia pittorica. La serie con le corde è conclusa da un’altra voluminosa opera Global Flag (2012) , su cui campeggia la parola Fortune in nero seguita dalla cifra rossa 500. Anch’essa molto aggettante (155x188x13 cm.), è un provocatorio riferimento alla lista delle cinquecento imprese a maggior fatturato statunitensi stilata dalla rivista economica Fortune ogni anno. Se non proprio una denuncia, implicitamente un richiamo alla vigilanza etico-civile o alla declinazione sociale degli eventi economici e politici che l’opera può anche veicolare.

Istanze sociologiche fanno capolino altresì nelle otto piccole stampe (tutte di 28,5×33,s cm.) di disegni digitali eseguiti su I Pad, tecnica di trasposizione grafica che l’artista ha cominciato a utilizzare ultimamente.

A parte Altered, che è un inventario di tutti gli stilemi espressivi di Marcaccio, in cui ben emerge il suo costante riferimento al mondo figurativo pop, Drone e Fallujah si riferiscono chiaramente alla guerra in Iraq, mentre all’universo politico-finanziario globalizzato alludono Reagan-ThatcherFortune 500 ( in pratica, una versione cartoon del quadro omonimo). Infine, Global Zombie, Sings e I Limo Pad sembrano gettare uno sguardo sulla vita metropolitana attraverso la lente deformata della sottocultura fumettistica e dei b-movies.

Questi lavori tuttavia istanziano la sensazione che, pur nella ‘radicalità’ dell’approccio decostruzionista, Marcaccio sembri orientato ad una riconsiderazione della forma, giustificata in parte come esigenza di articolazione narrativa iscritta direttamente sul corpo dell’opera. L’indizio ci è suggerito dall’installazione Drag (2013), che si sviluppa facendo scorrere su una parete della galleria un quadro di stucco colorato (48x46x5 cm.) in grado di lasciare una scia variegata quasi fosse una cometa in movimento. Il contatto col muro, mentre consuma il blocco di materia plastica, sedimenta anche il suo percorso e ne visualizza la storia, temporalizzando il tragitto come memoria osservabile. Lungo questa persistenza affabulatoria, iscritta nell’evidenza del disfacimento fisico dell’opera, un timido profilarsi della figurazione sembra emergente anche se in modo ancora problematico.

 

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Pagliasso, Giancarlo (Torino, 1949). Estetologo, scenografo, artista e scrittore. Fondatore, nel 1976, del G.R.M. e direttore dello Studio 16/e (Torino, 1977-90). Teorico e artista dell’Arte Debole (1985-96). Direttore dal 1997, dell’agenzia d’arte Figure. Caporedattore della rivista www.Iride.to. (2002-2004). Ha pubblicato: Déjà Chimera Saggi/Writings, 1987-90 (Tangeri, 2001); La retorica dell’arte contemporanea (Udine,Campanotto, 2011); Il deficit estetico nell’arte contemporanea (Cercenasco, Marcovalerio, 2015); Fotografia 2 (Udine, Campanotto, 2015); Il nuovo mondo estetico (con Enrico M. Di Palma) (Cercenasco, Marcovalerio, 2020). Ha curato: Sheol (Torino, Marco Valerio, 2003); Collins&Milazzo Hyperframes (Udine, Campanotto, 2005); Julian Beck. Diari 1948-1957. (Udine, Campanotto, 2008); Julian Beck. In the Name of Painting (Pordenone, 2009). Curatore di mostre in Italia e all’estero, è uno dei redattori di Zeta (Udine), con cui collabora dal 2005.

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