A proposito del Bestiario frattale – In memoria di Jean-Claude Meynard

immagine per Jean-Claude Meynard
Jean-Claude Meynard, Nautilus, 2014

La realizzazione del “Bestiario frattale”, intrapresa da  Jean-Claude Meynard (1951, Parigi, recentemente scomparso, a Valbonne, l’11 settembre 2019) nel corso degli ultimi anni (2014-2017), consente di delineare con più precisione la portata assiologica e teorica della sua produzione (ne abbiamo trattato qui). In termini di riflessione generale sulla traiettoria del suo lavoro, sembra addirittura in grado di illuminarne dall’interno il senso e la profondità meglio che le precedenti serie figurative metamorfiche degli Ibridi e delle Mutazioni.

Questa miglior evidenza programmatica (o, meglio, immediata comprensibilità dell’assunto mediatico a monte del progetto del Bestiario) è resa più trasparente dalla declinazione del tema della complessità della metamorfosi (che qui si focalizza sul raccordo-giunzione-disgiunzione dell’umano e del non-umano) non solo in termini formali (come poteva essere ancora negli Ibridi), ma anche in chiave simbolica (rispetto ai bacini teorico-pratici delle istanze antropologiche ed etologiche che forzatamente richiama). Va da sé che la scelta del soggetto pone allo scoperto – o più distintamente illumina – circa la valenza etico-cognitiva che Meynard assegna alla propria pratica estetica e al ruolo che la pratica artistica in generale può ancora svolgere all’interno del contesto socio-storico attuale.

Esamineremo in dettaglio in un secondo momento, con un’analisi critico-interpretativa il quid e la caratura simbolica specifica delle singole risoluzioni figurative (ogni immagine ‘animale’ è generata mediante un algoritmo che permette di formalizzarne la figura attraverso la concrezione articolata di un morfema metaumano, mentre in primis cercheremo di dettagliare le coordinate ideative a monte del Bestiario, per riportarle al quadro complessivo di quella che potremmo chiamare “l’ontologia dell’arte” al cui interno si collocano gli intendimenti estetici (almeno per noi) del progetto di Meynard.

Intanto, in sintonia con le indicazioni di Georg  W. Bertram (1), l’intera architettura del Bestiario sembra essere inscrivibile all’interno di una prassi riflessiva, cioè non destinata alla semplice produzione di un corpus di opere ma  all’approfondimento e al confronto da parte dell’osservatore con le istanze che i lavori pongono in essere rispetto alla cognizione che questi ha di sé e, in senso più generale, circa lo specifico identitario che caratterizza il posto e la legittimità del porsi dell’uomo nel mondo.

L’esperienza estetica, presupposta dal lavoro di Meynard,  si configura quindi in relazione ad indici di trasformazione e rinegoziazione differenziante con le pratiche quotidiane e non come qualcosa di avulso da quest’ultime. Il feedback pratico di riconsiderazione del proprio ruolo, del proprio sentire e percepire il mondo, nonché quello di contribuire a perseguirne le sollecitazione razionalmente mirate e produttive, comprendendole nel loro svolgersi, rientra come intendimento non secondario all’interno della poetica meynardiana e investe in egual misura il suo operare e conseguentemente il procedere interpretante dei fruitori.

Già dalla scelta del medium digitale con l’utilizzo della figurazione frattale, l’artista si appropria di strumenti operativi che non appartengono canonicamente al registro stilistico delle discipline pittorica o grafica, ma essendo mediati dall’ambito matematico privilegiano un importo cognitivo di sottofondo che corrobora strutturalmente le sue risoluzioni figurali immaginative.

Tra i primi in Francia, alla fine degli anni ’80, ad averne intuito le potenzialità geometrico-topologiche per la creazione artistica, ne ha esplorato le implicanze euristiche, dapprima in relazione ad una chiara interrogazione sulla complessità e caoticità dei fenomeni fisici,  poi anche di quelli socio-storici e psicologici in vista di una maggior comprensione del mondo nelle sue infinite sfaccettature. L’intrinseca valenza metonimica del frattale, unita alla proprietà di permettere, come teorizzato da Deleuze, la sintesi disgiuntiva del particolare nell’universale e viceversa, ha consentito all’artista di cogliere, accorpandole in un tracciato visibile coerente, costellazioni di senso nel medesimo tempo stratificate e uniche.

Queste costellazioni significanti, in cui i riferimenti e i raccordi tra l’umano e il bestiale supportano, in un continuo rimando e variazione di scala (subliminale e fisica), ogni possibile campo semantico individuabile dall’osservatore, sono a loro volta interagenti con le costellazioni generiche (2) che specificano la determinatezza formale delle opere (esemplare a questo proposito la rivisitazione di ritmo, tono e notazioni ‘cromatiche’ riscontrabile nell’invenzione iconografica di Partition Papageno).

Gli animali di Meynard (dal fantastico Nautilo al solarmente piumato Pegaso, piuttosto che l’ultrastorico Elefante, corazzato di memoria, o il Felino, aggressivamente simmetrico) surdeterminano l’elemento iconografico tradizionale ad un registro iconologico nuovo e problematico, proprio quando si cimentano in parallelo con i risultati espressivi ereditati dalla storia passata circa il medesimo soggetto.

Data la concrescenza continua della figuratività frattale, che però s’appoggia sulla ricorsività circolare micro-macrologica delle forme, l’osservatore è contemporaneamente guidato e provocato dalle immagini: in un primo momento esperisce la  loro misura autoreferenziale, poiché le suggestioni al loro interno tra natura e storia, simbolico e reale, che l’artista maneggia, interagiscono e aggiungono nuovi  sviluppi sintattici alla lunga cronaca della raffigurazione artistica degli animali; in seguito, è costretto a prendere partito rispetto a quanto di specifico gli viene presentato.

Rimanendo alle immagini, non è azzardato dire che consentono suggestioni interpretative sottoinsiemistiche rispetto alle grandi aree tematiche che l’artista ha dovuto percorrere, campionando gli ambiti religiosi, filosofici, scientifici e letterari di iscrizione iconografica zoologica,  prima di arrivare alla sintesi finale del risultato operativo  (la matrice digitale cui dare corpo e sostanza d’opera). Infatti, la chiarificazione immediata della figura di ogni singolo animale accoglie un ventaglio significante di ipotesi distribuito su più sememi che intrecciano inestricabilmente prospettive raziocinanti, immaginarie o di pura invenzione.

Contemporaneamente, il riflesso costruito delle immagini, il loro comporsi virtuale in assenza di referente, appartiene ad una sfera figurale istanziata da parametri ostensivi più logico-conoscitivi che rappresentativi. Meynard, con spirito neo-romantico, sembra profilare in ognuna di esse l’insinuarsi dell’infinito nel finito, piuttosto che ricercare una risoluzione formale conchiusa.

In questo senso, data la loro costituente apertura significante, manifestano il proprio potenziale trasformativo (o di conferma per i soggetti rispetto al loro situarsi nel mondo) in quanto atti iconici, stimoli a pensare e ad agire, risultando costruzioni poietiche ispiratrici di inflessioni attive e chiare per la vita.

Questo carattere aperto delle raffigurazioni sostanzia anche la libertà del fruitore di rapportare il contenuto di provocazione,  che Meynard gli propone, ai propri intendimenti pratici extraestetici in vista di un percorso diegetico di consapevolezza.

Come già detto, il lavoro dell’artista riesce, per un certo verso, a vincolare l’osservatore agli indirizzi che esso dipana al proprio interno, cioè le relazioni e gli ambiti determinati che costituiscono l’articolazione espressiva della dialettica tra uomo e animale,  mentre dall’altro ne stimola l’attività critica di confronto ricollocandola al di là di questo bacino specifico.

Ciò  consente di avviare, proprio mentre il fruitore si confronta con quello (giudicando se l’opera nelle sue componenti si uniforma all’aspettativa di essere confacente o meno (3) per la rideterminazione pratica delle proprie concezioni di sé o situazioni emotive a cui aspira), una sorta di dipendenza nell’autonomia (4), che contemporaneamente specifica l’esperienza estetica (al cui interno possiamo quindi riportare la poetica meynardiana nella sua esteriorizzazione del Bestiario) come momento di interazione dinamica tra artefatti artistici, pratiche umane e istanze critiche – a forte impedenza normativa e valutativa –  atte a far riflettere sugli artefatti e sulle determinazioni che questi suscitano.

In conclusione, sulla base di queste chiarificazioni, l’impulso a monte dell’approccio artistico meynardiano (e potremmo dire il nocciolo dell’anelito critico che la serie figurativa del Bestiario ‘incapsula’ come propria ragion d’essere) non teme di poter fallire o, meglio, accoglie l’indeterminatezza come specificità pratica della sua continua autoriflessione circa il proprio valore. Così, questo suo articolarsi in «forme particolari autodeterminate della prassi» (5) è anche indizio non ingannevole del suo orientamento verso una destinazione pratica di libertà.

Note

(1) in particolare, G W..Bertram, L’arte come prassi umana. Un’estetica, ed.it. a cura di F.Vercellone, tr.it. di A.Bertinetto, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2017. G.W.Bertram, Che cos’è l’arte?Abbozzo di un’ontologia dell’arte, in Il bello dell’esperienza. La nuova estetic tedesca, a cura di A. Bertinetto e G. W. Bertram, Milano, Christian Marinotti Edizioni, 2017. Riferimenti, confronti e ulteriori specificazioni rispetto alle posizioni di J.-C. Meynard sono da intendersi comparativamente agli orizzonti teorici contenuti in questi due testi.

(2) L’arte come prassi umana… cit. pp. 121-138.

(3) Bertram parla, in questo senso, di “pregevolezza dell’opera”. Cfr. G. W. Bertram, Che cos’è l’arte?… p. 223.

(4) G. W. Bertram, L’arte come prassi umana…, cit. p.179.

(5)Ibid., p.182

*Jean-Claude Meynard (1951) è mancato il giorno 11/09/2019. Questo testo vuole ricordarlo in relazione al contributo che la sua poetica di interazione tra arte e scienza (arte frattale) ha portato nell’ambito della ricerca figurativa contemporanea.

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Pagliasso, Giancarlo (Torino, 1949). Estetologo, scenografo, artista e scrittore. Fondatore, nel 1976, del G.R.M. e direttore dello Studio 16/e (Torino, 1977-90). Teorico e artista dell’Arte Debole (1985-96). Direttore dal 1997, dell’agenzia d’arte Figure. Caporedattore della rivista www.Iride.to. (2002-2004). Ha pubblicato: Déjà Chimera Saggi/Writings, 1987-90 (Tangeri, 2001); La retorica dell’arte contemporanea (Udine,Campanotto, 2011); Il deficit estetico nell’arte contemporanea (Cercenasco, Marcovalerio, 2015); Fotografia 2 (Udine, Campanotto, 2015); Il nuovo mondo estetico (con Enrico M. Di Palma) (Cercenasco, Marcovalerio, 2020). Ha curato: Sheol (Torino, Marco Valerio, 2003); Collins&Milazzo Hyperframes (Udine, Campanotto, 2005); Julian Beck. Diari 1948-1957. (Udine, Campanotto, 2008); Julian Beck. In the Name of Painting (Pordenone, 2009). Curatore di mostre in Italia e all’estero, è uno dei redattori di Zeta (Udine), con cui collabora dal 2005.

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