Divagazioni sulla retrospettiva dell’artista americano al Centre Pompidou di Parigi (26/11/2014 – 27/04/2015)
Sarà stato forse che – dopo aver pranzato a Le Train Bleu, esperendovi la distonia della continuità difforme introdotta dal rinfrescamento dell’ambiente e degli arredi (su tutto, l’ammodernamento high-tec delle toilettes con sparizione degli ottoni, vasche e boiseries di inizio’900) – la predisposizione a pignolare su Jeff Koons, in merito ad eredità e influenze, mi si sia acuita durante la visita alla sua retrospettiva presso il Beaubourg. La mostra, frutto della collaborazione tra l’istituzione parigina (curatore Bernard Blistène) e il Whitney Museum di New York (dove ha esordito nel 2014 come esposizione di chiusura definitiva dello spazio costruito da Breuer) lascia intendere nel percorso espositivo una filiazione diretta dell’artista da Dalì e Warhol ed una putativa da Duchamp.
Ora, mentre una relazione edipica da parte di Koons con il maestro di Figueras sembra abbastanza acclarata e calzante sia in termini poetici che nelle modalità di promozione degli stessi (dall’ovvietà surreale’ delle sculture in Banality e Popeye all’idealizzazione auratica del suffragio ispiratore di Cicciolina, che come musa, quasi fosse una novella Gala, presiede con il suo corpo alle edeniche copulazioni di Made in Heaven, fino alla sottesa megalomania dell’artista di articolare le proprie ossessioni in chiave euristica con la storia dell’arte e la scienza, almeno nella sua espressione tecnologica, attraverso gli ultimi cicli produttivi di Antiquity e Gazing Balls), il rapporto con Duchamp e Warhol non mi pare altrettanto scontato.
È pur vero che l’avvicinamento del Nostro ai due mostri sacri del ‘900 passa attraverso la mediazione dell’utilizzo del ready made e dell’aggiornamento degli stilemi pop, ma nel merito del loro specifico il suo approccio è discrepante.
Rispetto ai ready made, già nelle prime opere, i cosiddetti Inflatables (oggetti gonfiabili di plastica posti a riflettere su superfici specchianti) e, più in particolare, gli aspirapolvere/lucidatrici non usati sistemati in teche di vetro e illuminati da tubi al neon (della serie The New), al di là della secolarizzazione commerciale del minimalismo (in primis, di Smithson e Flavin) e il riaggiustamento merceologico’del Pop (su cui torneremo), sembra che l’artista voglia far emergere, attraverso il maniacale allestimento protettivo, la qualità iperreale dei suoi New Hoover Convertibles o New Shelton Wet/Dry Tripledecker per consegnarli allo sguardo dello spettatore come simulacri intangibili di loro stessi[1].
In chiave concettuale, queste opere sono dei ready made sui generis, che disattendono la pretesa di modificazione ontologica introdotta da Duchamp attraverso lo scambio di significante, perché Koons si guarda bene dal presentarli come qualcos’altro da ciò che sono[2]. Circa il loro significato, sono interpretabili però, senza alcun trasferimento di senso (traslato), come semplici antitesi ossimoriche a causa del rimando di essere degli utilizzabili che fanno ‘segno’ palesemente per il loro contrario.
Parafrasando Heidegger, non hanno “appagatività” (Bewandtnis, la reale determinazione ontologica degli enti intramondani)[3], ma permangono nella “semplice presenza” di asettico isolamento e quasi feticistico rispetto cui li confina la volontà ferrea dell’artista[4].
Questa particolare configurazione semantica degli elettrodomestici koonsiani consente anche di leggere in dettaglio la relazione di parentela e il cambio di prospettiva introdotti dall’artista di York rispetto a Warhol e agli altri rappresentanti della Pop Art. Le sue sculture, infatti, combinano il banale, il quotidiano e il kitsch, già sperimentati dalla cultura figurativa pop, con la perentorietà di mostrare la purezza assoluta del valore segnico della mercificazione degli oggetti. In sostanza, laddove per Warhol e compagni si trattava “di sfruttare il potenziale formale dell’esuberanza grafica commerciale”[5], riciclando l’iconografia popolare della pubblicità e dei media per testare l’obsolescenza (dei prodotti) tramite la psicologia del messaggio[6], per Koons questo passaggio è scontato dovendo solo più illuminare, oggettivandola e mettendola tra parentesi, “la sterilità aliena, mercificata e tenuta in caro, del Nuovo, della Novità stessa”[7] che caratterizza le merci.
Il cambio di passo sperimentato da Koons pertiene in realtà al diverso posizionamento epocale in cui egli si trova ad operare. Senza nulla togliere alla sua sagacia di interprete dello Zeitgeist a lui contemporaneo, è indubbio che i Pop artisti avevano affrontato la problematica delle merci – al termine di un periodo storico (gli anni ’50 e ’60) in cui la ricchezza sociale era stata ‘accumulata’ in prevalenza sulla base di un’economia produttiva (quindi reale) – insistendo sull’aspetto simbolico attraverso cui veniva veicolata, soprattutto dalla pubblicità, l’incentivazione al consumo.
In qualche misura, questa induzione prefigurava già i prodotti sul punto di essere sussunti alla pervasività dei segni e perciò la loro rappresentazione aderente doveva essere posta sotto il registro formale-astratto dell’apparenza socialmente mediata: la simbolizzazione delle sigle, marche e slogans[8].
A sussunzione avvenuta, negli anni ’80 con la finanziarizzazione dell’economia, quando alla produzione si affianca la possibilità di speculare più velocemente attraverso il gioco borsistico – prescindendo da contropartite accertate – secondo logiche predittive o probabilistiche (puramente virtuali) che spostano titoli e capitali, modificabili nel loro valore di scambio in base alla performatività di transare istantaneamente grazie all’informatizzazione delle comunicazioni, è il quadro della realtà ad inabissarsi nel disporsi operazionale di tutte le combinazioni possibili che il mercato sollecita.
L’astrazione che regna nel comparto della finanza derivata ingenera il medesimo effetto nel valore segno dei prodotti di consumo, sollecitando gli artisti sensibili e accorti come Koons[9] a circoscrivere, esaltandolo, l’elemento iconico e indicativo che conserva una traccia di concretezza nel dispositivo comunicativo del segno significante le merci. In Koons, il tentativo è al suo grado massimo poiché il segno coincide con l’oggetto letteralmente, marcando il mitema presenzialistadi quest’ultimo quasi fosse un mana cultuale a cui rimettersi per offrirlo di persona al fedele-consumatore-collezionista[10].
Tornando alla specificità dissonante dei ready made koonsiani, essa è ancora più evidente nei lavori con i palloni da basket sospesi all’interno di teche con acqua distillata della serie Equilibrium. Qui, i palloni non rimbalzano, ma rimangono in perfetto equilibrio immobili e afunzionali al centro dei contenitori. La mitologia sportiva soggiacente, con i valori agonistici ed economici correlati (che sono al centro della serie), viene in realtà azzoppata dalla sua nuova proprietà perché i basketballs Spalding (come già nelle opere precedenti) non fanno segno (al contrario di Duchamp) per qualcos’altro, restando un prodotto non consumabile, quindi un ossimoro, che non può essere verificato. La latenza del loro senso rimane nascosta al loro interno, consentendo con ciò di esperire solo metaforicamente l’annullamento del loro valore d’uso (attraverso la loro decodificazione come prodotti artistici dato il contesto in cui sono inseriti).
Dal punto di vista referenziale, volendoli circoscrivere anche secondo l’individuazione segnica di Peirce, sono la sovrapposizione iconica di loro stessi (iperreale), mentre il loro quoziente di indicalità è tale da farne dei rapresentamen il cui grado di rappresentatività li porta a coincidere con gli individuali di cui dovrebbero essere i secondi[11]. Infine, in relazione al terzo termine della triade che caratterizza il segno peirciano, come oggetti sono scoperti dal versante simbolico, non essendo riconoscibili per “legge” o “convenzione” ma per quello che sono, cioè palloni gonfiati in modo improprio rispetto al semema dell’utilizzabilità.
Riassumendo, il plesso ermeneutico che lega appropriazione, enfatizzazione dell’oggetto di consumo e la sua traducibilità estetica in forma-merce figurativa in quanto prodotto artistico percorre tutta la produzione giovanile di Koons e informa, solo per differenza di scarti tematici, anche il resto della sua opera. A riprova, la presentazione in mostra di alcuni ‘capolavori’ della serie Celebration come il Balloon Dog (Magenta) 1994-2000, dove “il brillare e risplendere a specchio della superficie della scultura manifesta, da un lato, l’idealità dell’idea di trasmettere entusiasmo, spensieratezza e leggerezza e, dall’altro, il reale senso latente al suo interno, cioè la sua non consumabilità”[12]. L’oggetto, costruito per ‘preservare’ in eterno l’essenza del giocattolo, è impossibilitato a traslare (di senso) e può solo ‘ostendersi’ nelle dimensioni meno-che-reale, oltre-reale o iperreale, ammiccando silenzioso verso una forma di nostalgia[13] per un’idea di reale che proprio perché “trasformato dalla simulazione non è altro che il reale”[14]. L’aura a cui aspira è quella della concretezza che aleggia sulla trascendenza del prodotto (su cui si riflette sempre solo il presente della visione del consumatore) come il suo dato trascendentale perduto.
Note
1. “La vista del lavoro di Koons ci offre un’esperienza intensificata del simulacro. Gli aspirapolvere non sembrano reali ma “iperreali”. Sono totalmente originari (separati dalle evenienze casuali della realtà); sono presentati serialmente (senza originale), appartenendo ad un universo “stranamente simile all’originale” in cui “le cose sono duplicate dal loro proprio scenario”” (Peter Halley, The Crisis in Geometry (1984), in Selected Essays 1989-2001, New York, Edgewise Press, 2013, p. 102)↑
2. Quest’aspetto di oggettivazione dell’oggetto è un tratto della poetica dell’artista che è rimasto inalterato almeno fino alla grande esposizione di Versailles (Cfr. Philippe Dagen, Jeff Koons. Versailles, «Art Press», n.359, novembre 2008, pp. 20-21).↑
3. Cfr., per questo, Martin Heidegger, Sein und Zeit, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 2006, 19 ed., pp.83-88, ( tr.it., Essere e tempo, a cura di Franco Volpi, Milano, Longanesi, 2006, pp. 107-114).↑
4. L’attitudine ossessiva di Koons nel tenere intonse e pulite le proprie opere ebbe modo di manifestarsi già ai suoi esordi quando nel 1984, invitato per la prima volta da Collins&Milazzo a partecipare alla loro seminale mostra di gruppo The New Capital presso la galleria White Columns di New York, l’eccessiva cura nel lustrare durante l’allestimento la teca che esponeva (con due New Hoover Convertibles) rischiò di suscitare una reazione di rigetto simpatetico nei suoi confronti da parte di Tricia Collins.↑
5. Cfr. Herbert Read, La pittura moderna, tr. it, Ginevra-Milano, Rizzoli-Skira, 2003, p. 287.↑
6. Cfr. Giulio Carlo Argan – Achille Bonito Oliva, L’Arte moderna 1770-1970 – L’Arte oltre il Duemila, Milano, Sansoni, 2002, pp. 283-4.↑
7. Cfr. Tricia Collins- Richard Milazzo, Art at the End of the Social in Art at the End of the Social – Rooseum, a cura di Collins&Milazzo, Malmö, Rooseum, Catalogue n.2, 1988, p. 54.↑
8. Cfr. Jean Baudrillard, La società dei consumi, tr.it., Bologna, Il Mulino, 2008, p.129. Sul significato precipuamente oggettivante di questa simbolizzazione, cioè in qualche modo propedeutica per i neo-pop-artisti degli anni ’80, cfr. Elio Grazioli, Arte e pubblicità, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp. 139-44.↑
9. È noto e significativo che nei tardi anni ’70 Koons facesse il broker a Wall Street.↑
10. In mostra, il tentativo di eternizzare l’involucro delle cose (dai contenitori di bevande alcoliche alla statuaria barocca) è ben documentato nelle serie Luxury and Degradation e Statuary. Koons plasma gli oggetti nell’acciaio inossidabile (materiale tecnologicamente più confacente a distanziare l’aura del bronzo, da lui sperimentato per alcune sculture in Equilibrium, e con cui Jasper Johns, suo ispiratore, aveva fuso le lattine della birra Ballantine) come un marchio di trascendenza e di appartenenza sociale.
Rispetto a questi sviluppi, Collins&Milazzo sono estremamente puntuali: “I contenitori (di whisky a forma di trenino) in acciaio inossidabile articolano, da una parte, una dialettica tra la merce come sostanza metafisica o ingannevole, incorporando la falsa leggerezza della trascendenza e, dall’altra, la mortalità stessa, che riguarda il vero peso di tutte le cose vissute […] Nelle statue, Koons fonde vari significanti culturali per classe sociale come un busto di Luigi XIV e un coniglio gonfiabile […]stabilendo un equilibrio ironico tra registri culturali alti e bassi, tra la Storia del consumo (impersonata da Luigi)e il consumatore (il coniglio) nel mondo contemporaneo” ( T. Collins e R. Milazzo, Art at the End of the Social, cit. p. 54).↑
11. Cfr., per questi aspetti, Charles S. Peirce, Semiotica, tr. it. a cura di Massimo A. Bonfantini, Letizia Grassi e Roberta Grazia, Torino, Einaudi, 1980, pp. 133-70.↑
12. Cfr. GianCarlo Pagliasso, Ideismo: malattia senile del Concettuale. Creatività e arte contemporanea, in «artapartofcult(ure)», 12 marzo 2012.↑
13. “Il suo lavoro va tanto in profondità da consentire di riaffermare da un momento all’altro la storia come la temporalità perduta della giovinezza, permettendoci le sue superfici riflettenti di scrutare o navigare la storia della nostra perduta innocenza” (Richard Milazzo, Koons: Shiny on the Outside, Hollow on the Inside. (Part I), “Hyperallergic”, 31 gennaio 2015.↑
14. Cfr. Jean Baudrillard, Della seduzione (1979), tr.it. di Pina Lalli, Milano, SE, 1997, p. 158↑
Pagliasso, Giancarlo (Torino, 1949). Estetologo, scenografo, artista e scrittore. Fondatore, nel 1976, del G.R.M. e direttore dello Studio 16/e (Torino, 1977-90). Teorico e artista dell’Arte Debole (1985-96). Direttore dal 1997, dell’agenzia d’arte Figure. Caporedattore della rivista www.Iride.to. (2002-2004). Ha pubblicato: Déjà Chimera Saggi/Writings, 1987-90 (Tangeri, 2001); La retorica dell’arte contemporanea (Udine,Campanotto, 2011); Il deficit estetico nell’arte contemporanea (Cercenasco, Marcovalerio, 2015); Fotografia 2 (Udine, Campanotto, 2015); Il nuovo mondo estetico (con Enrico M. Di Palma) (Cercenasco, Marcovalerio, 2020). Ha curato: Sheol (Torino, Marco Valerio, 2003); Collins&Milazzo Hyperframes (Udine, Campanotto, 2005); Julian Beck. Diari 1948-1957. (Udine, Campanotto, 2008); Julian Beck. In the Name of Painting (Pordenone, 2009). Curatore di mostre in Italia e all’estero, è uno dei redattori di Zeta (Udine), con cui collabora dal 2005.
A Mister Matito, Poteto e quant’altro, ricordiamo che art a part of cult(ure) non gradisce Commenti con sfondoni e non argomentati perché mira al confronto di alto/altro livello. Sollecitiamo a riformulare, pertanto, obiezioni e critiche su tali basi ricordando, inoltre, che siamo un webmagazine libero che lascia altrettanto liberi i Redattori di esprimersi e di andare a fondo nelle proprie analisi, come in questo e in altri casi, in attesa di obiezioni dello stesso valore culturale. Jeff Koons, piaccia o non piaccia, è artista acclarato pertanto se si vuole – più che lecitamente – smontare la tesi delle sue qualità e del suo peso artistici, lo si può fare prendendosi la responsabilità di spiegarlo e approfondirlo. Grazie.
La Redazione
Cosa spiegare e approfondire? un orsacchiotto o un aspirapolvere? chi ha acclarato che e’ un grande artista? Cicciolina? magazine e critici sono al soldo dei galleristi padroni di New York. Gli stessi che si autocomprano i teschi di Hirst e poi dicono che l’ hanno venduto 50 milioni di sterline…. la finiamo o cosa? e poi moderazione ?questo e’ il mio pensiero, discorsi di alto livello si fanno quando si parla di Schiele o che ne so, magari Duchamp…ma Jeff Koons come grande artista……ahahahahahahahahahahahahahahahah…… di Koons al massimo si parla dopo essere usciti dal gabinetto.
Andate nelle accademie, nelle gallerie e nei musei e domandate cosa ne pensano dell’ arte di jeff Koons.. it’s rubbish, just silly rubbish and nothing besides
Questo e’ il mio pensiero e include anche alcune parole che voi giudicate forti. Eh lo so voi parlate d’arte come pensiero libero ma siete i primi a censurare. beh fatelo, poi diventate ne piu’ ne meno come il corriere della Sera, vuol dire che vi leggeranno i netturbini o, al massimo, i maniaci sessuali. Peace
Caro Matito, ma da cosa acclara che nel mio articolo io stia incensando Jeff Koons? Già la formulazione dello stesso doveva metterla sull’avviso che la mia non era una critica encomiastica. Se lei ha seguito quello che scrivo su questo webmagazine (Le assicuro libero e non condizionato da logiche di ‘mercato’ come purtroppo lei accusa sia), si sarà reso conto che la mia posizione è fortemente negativa nei confronti della cosiddetta ‘arte contemporanea’, ma non per spirito ‘passatista’ o ‘migliorista’…la questione è ben più complessa e grave e coincide con la totale riduzione ‘mercatistica’ di quello che un tempo era la ‘produzione dello Spirito’, al cui interno, almeno da una trentina d’anni in misura evidente (guarda caso dopo la caduta del Comunismo ‘reale’) il prodotto artistico non ha più giustificazioni culturali (cioè contenutistiche o specifiche come metaforizzazione immaginale ‘altra’ dello status quo della realtà) da esibire rispetto ad una presunta estraneità dal regno delle merci ordinarie.
L’analisi dell’opera di Koons (che a modo suo e nel contesto attuale è un ‘grande artista’) diventa così essenziale (visto che è il campione e in qualche misura il vessillifero di tutti quei ‘peracottari’ di artisti che tentano di scimmiottarne la poetica) per capire quale sia lo specifico della forma-merce figurativa (beninteso, esistono ancora esempi che si sforzano di contrastare questa tendenza ormai vincente) che verrà a costituire il patrimonio iconografico dell’epoca della compiuta globalizzazione del Capitale liberistico.
Come volevasi dimostrare, l’approssimazione e l’aggressività senza costrutto sono di questi nostri tempi oscuri. Come sarebbe utile, invece, sostenere le proprie tesi – libere, scomode se mai lo fossero, e non omologate – con argomentazioni che spiegassero, che proponessero punti di vista altri ed alti, che indicassero e difendessero nuove tesi…, magari usando bene la lingua italiana… Solo così si potrebbe – e si può – aprire e fornire alternativa al pensiero dominante. Diversamente, il fallimento è certo e nulla cambierà mai. Koons è un bravo artista? E’ un bluff? E’ costruzione di mercato e di sistema? Pagliasso ha analizzato nei minimi dettagli la questione, come ritiene opportuno (non incensando, peraltro), altri potrebbero e dovrebbero – qui ne hanno spazio a iosa – e non lo fanno, preferendo lo sproloquio e qualche accusa e offesa qua e là. Peccato. Speriamo, invece, che questo sia l’inizio di una bella sfida, e di confronti interessanti!
Allora, cara la mia redazione che vorrebbe censurare chi dice la propria, adesso scrivero’ un “bel commento” dal tono educato e ALTO, come la mia cara redazione pretende.
Si, “alto”… peccato che poi argomentazioni ALTE le pretendete sempre dalla gente comune e mai dalle istituzioni culturali della cultura della vostra citta’, dove quattro bigotti e zoticoni vogliono censurare i cartelloni pubblicitari e dove l’ unico progetto culturale nei prossimi anni sara’ il nuovo stadio di calcio (ahahahaha!!!)
Ho detto che Koons e’ una kiavika di artista e se lo dico vuol dire che ci sara’ una ragione, semplicemente la ragione di meta’ dei critici d’arte di tutto il mondo. Vivendo all’ estero da quasi vent’anni (Londra prima e Los Angeles poi) , le mie fonti sono in lingua inglese e ve ne cito una, mia cara redazione, soltanto una e proviene da Ben Lewis, uno dei migliori giornalisti al mondo che lavora per la BBC, non la RAI ma la BBC, la piu’ grande azienda televisiva del pianeta.
Il titolo del documentario e’ The Great Contemporary Art Bubble” e vi spieghera’ come e’ davvero il mondo dell’ arte su scala mondiale e come artisti come Koons rappresentano i “derivati nel mondo dell’ arte”.
Si tratta di un bellissimo documentario girato nel 2009, quando in Italia si ballava ancora la samba col nano e il bunga bunga dei politicanti erotici,
quando tutti dormivano mentre l ‘intera nazione crollava attorno.
ecco, vi metto il link qui sotto:
http://www.youtube.com/watch?v=Km5KS7U9aOc
il documentario e’ in lingua inlgese, non e’ stato mai trasmesso in Italia perche’ in Italia la parola informazione e’ come un’ offesa ai santi in paradiso
Voi siete ancora qui a esaltare nullita’ intellettuali come Jeff Koons, una vera e propria “sola artistica” nel mondo dell’ arte e questo lo sapete meglio di me ma fate finta di niente perche’ tanto in italia si fa sempre finta di niente.
Per favore, vi imploro, smettetela di essere il megafono dell’ ovvio e concentratevi nell’ avere un VOSTRO punto di vista. L’ arte’ e’ rivoluzione e il vostro censurare e difendere questa pseudoarte da supermercato e’ da restaurazione stile Ancient Regime
Vi ho citato la fonte delle mie argomentazioni, adesso citatemi la vostra.
Sapete perche’ il mercato dell’ arte in Italia e’ pessimo? perche’ critici e curatori sono fuori dalla realta’ e le fonti delle loro valutazioni sono dei pessimi copia e incolla. Il padiglione Italiano a Venezia la dice tutta: pecore e portaborse, tutto qui. Parlare di meritocrazia in Italia e’ come parlare di religione col diavolo in persona.
ps:Se avessi detto “cacca” o “escremento” e il mio cognome era Manzoni, sareste stati li a spellarvi le mani dagli applausi. Scusate, ripeto, se mi sento uno qualunque.
Comunque mi dispiace per voi, ma c’e’ sempre speranza
Kind Regards
un vostro lettore che ha il coraggio di esprimere, a modo suo, un parere
FABIO CORUZZI
http://www.fabiocoruzzi.com
lo so che l’ articolo non segue logiche di mercato anche perche ‘ in italia non esiste un vero mercato ma un’organizzazione economica di stile parasovietico. Voi seguite la logica del VIP. Avete la tendenza a inquadrare ai primi posti della vostra gerarchia culturale chi e’ ricco e famoso perche’ esso/essa si autogiustifica grazie a paparazzi e macchinoni di grossa cilindrata e magari anche la bonazza a seguito.
Jeff Koons ha avuto la fortuna di trovarsi , con le sue nullita’ artistiche, al posto giusto nel momento giusto. Non incensate Koons con le vostre parole, ma lo difendete perche esso rappresenta uno status quo che sta morendo e a voi non va giu, siete pigri a guardarvi intorno e dire come stanno realmente le cose. Il valore di un artista che produce milioni e’ creato dai media nelle mani dei grandi collezionisti, e’ soltanto una ridicola operazione commerciale, ma lo riuscite a capire oppure vi devo fare un disegnino? Vi ho citato Damien HIrst, altra supercazzola al declino, che si autocomprava le proprie opere d’ arte (sapete che alle auctions i compratori restano anonimi? beh, chi comrava il teschio di platino era Hirst in persona) . Lo sapete che il mondo dell’ arte e’ l’ unico settore dove e’ legittimo fare dell’ Insider trading? dico soltanto: siete una rubrica d’ arte? e allora parlate d’arte e aprite una sfida ai canoni tradizionali. Parlando di Koons, Hirst, Emin, parlate di cose morte da tempo. Sono soltanto ricchi e senza idee, che ne parlate a fare?
Chiedo troppo? allora cambiate mestiere, che vve devo di?
Peace
ps: a proposito…hai mangiato al Train Blue? Ci ho mangiato 3 anni fa in quel posto, sto ancora cercando di digerire…adesso ho capito perche’ hai scritto su Jeff Koons…stavi cercando di andare in bagno..ah adesso ho capito :-)
Caro Fabio (finalmente possiamo avere un referente reale e non un nickname), credo che tutta questa ‘interessante’ discussione nasca da un fraintendimento totale di quanto scritto ( e pubblicato da artapartofcult) su Koons, perché io concordo quasi al cento per cento con quanto lei sostiene…ed insisto… nel mio articolo vado a ‘fare le pulci’ alla sua opera…sono io ( pubblicato con coraggio da questo webmagazine, ma non solo perché anche la rivista Zeta con cui collaboro non ha paura di editarmi) che ho tentato una ‘deduzione sociale’ della poetica di Koons a partire dalla specificità della finanza derivata ed è questo webmagazine che ha pubblicato anche un mio intervento (citato in nota) sull’ideismo come ‘ideologia culturale’ a monte della produzione dei campioni dell’artbusiness come Koons, Cattelan, Fischer, Fabre e compagnia cantante…né io né artapartofcult siamo i “megafoni dell’ovvio”, al contrario siamo tra le poche voci che hanno il fegato di avere “una propria linea” ( senza bisogno di prendere lezioni dagli inglesi e americani che hanno imposto in arte l’international style contro cui lei si scaglia)…linea che va ben al di là di quanto sospetta essere l’incidenza di mercato…qui si tratta di una mutazione socio-antropologica, indotta da un modo di produzione votato al consumo senza misura, che investe a monte la stessa possibilità ‘libera’ dell’espressione…che se ne fa un baffo della stessa necessità sociale dell’arte e riduce ogni creazione a puro valore di scambio segnico per giustificare il plusvalore delle suoi prodotti di contro alla dinamica valoriale delle merci ordinarie…si tratta di prendere contezza che l’opera d’arte oggi non ha nessun aggancio ‘trascendentale’ cui appellarsi per pretendere di essere fuori dalla mercificazione globale nella quale ci costretti il capitalismo liberistico ( che ha trionfato ‘realmente’ sull’utopia da lei invocata).
Noi ( io e la redazione) siamo consci di questo…ed il fatto che mi sia consentito di scriverne fa sì che non dovrebbe dispiacersi per noi…ma leggerci con più attenzione.
P.S.
In merito alle mie posizioni, se la redazione me lo consente La rinvierei al mio ultimo libro, in cui tutte le tematiche accennate sono sviluppate con richiamo alle fonti…come vuole Lei
http://www.ibs.it/code/9788875474119/pagliasso-g-carlo/deficit-estetico-nell-arte-contemporanea.html