Ancora due o tre cose su Jeff  Koons e poi basta

Jeff Koons, Balloon Dog (Magenta), 1994-2000

Divagazioni sulla retrospettiva dell’artista americano al Centre Pompidou di Parigi (26/11/2014 – 27/04/2015)

Sarà stato forse che –  dopo aver pranzato a Le Train Bleu, esperendovi la distonia della continuità difforme introdotta dal rinfrescamento dell’ambiente e degli arredi (su tutto, l’ammodernamento high-tec delle toilettes con sparizione degli ottoni, vasche e boiseries di inizio’900) – la predisposizione a pignolare su Jeff Koons, in merito ad eredità e influenze, mi si sia acuita durante la visita alla sua retrospettiva presso il Beaubourg. La mostra, frutto della collaborazione tra l’istituzione parigina (curatore Bernard Blistène) e il Whitney Museum di New York (dove ha esordito nel 2014 come esposizione di chiusura definitiva dello spazio costruito da Breuer) lascia intendere nel percorso espositivo una filiazione diretta dell’artista da Dalì e Warhol ed una putativa da Duchamp.

Ora, mentre una relazione edipica da parte di Koons con il maestro di Figueras sembra abbastanza acclarata e calzante sia in termini poetici che nelle modalità di promozione degli stessi (dall’ovvietà surreale’ delle sculture in Banality e Popeye all’idealizzazione auratica del suffragio ispiratore di Cicciolina, che come musa, quasi fosse una novella Gala, presiede con il suo corpo alle edeniche copulazioni di Made in Heaven, fino alla sottesa megalomania dell’artista di articolare le proprie ossessioni in chiave euristica con la storia dell’arte e la scienza, almeno nella sua espressione tecnologica, attraverso gli ultimi cicli produttivi di Antiquity e Gazing Balls), il rapporto con Duchamp e Warhol non mi pare altrettanto scontato.

È pur vero che l’avvicinamento del Nostro ai due mostri sacri del ‘900 passa attraverso la mediazione dell’utilizzo del ready made e dell’aggiornamento degli stilemi pop, ma nel merito del loro specifico il suo approccio  è discrepante.

Rispetto ai ready made, già nelle prime opere, i cosiddetti Inflatables (oggetti gonfiabili di plastica posti a riflettere su superfici specchianti) e, più in particolare, gli aspirapolvere/lucidatrici non usati sistemati in teche di vetro e illuminati da tubi al neon (della serie The New), al di là della secolarizzazione commerciale del minimalismo (in primis, di Smithson e Flavin) e il riaggiustamento merceologico’del Pop (su cui torneremo), sembra che l’artista voglia far emergere, attraverso il maniacale allestimento protettivo, la qualità iperreale dei suoi New Hoover Convertibles o New Shelton Wet/Dry Tripledecker per consegnarli allo sguardo dello spettatore come simulacri intangibili di loro stessi[1].

In chiave concettuale, queste opere sono dei ready made sui generis, che disattendono la pretesa di modificazione ontologica introdotta da Duchamp attraverso lo scambio di significante, perché Koons si guarda bene dal presentarli come qualcos’altro da ciò che sono[2]. Circa il loro significato, sono interpretabili però, senza alcun trasferimento di senso (traslato), come semplici antitesi ossimoriche a causa del rimando di essere degli utilizzabili che fanno ‘segno’ palesemente per il loro contrario.

Parafrasando Heidegger, non hanno “appagatività” (Bewandtnis, la reale determinazione ontologica degli enti intramondani)[3], ma permangono nella “semplice presenza” di asettico isolamento e quasi feticistico rispetto cui li confina la volontà ferrea dell’artista[4].

Questa particolare configurazione semantica degli elettrodomestici koonsiani consente anche di leggere in dettaglio la relazione di parentela e il cambio di prospettiva introdotti dall’artista di York rispetto a Warhol e agli altri rappresentanti della Pop Art. Le sue sculture, infatti, combinano il banale, il quotidiano e il kitsch, già sperimentati dalla cultura figurativa pop, con la perentorietà di mostrare la purezza assoluta del valore segnico della mercificazione degli oggetti. In sostanza, laddove per Warhol e compagni si trattava “di sfruttare il potenziale formale dell’esuberanza grafica commerciale”[5], riciclando l’iconografia popolare della pubblicità e dei media per testare l’obsolescenza (dei prodotti) tramite la psicologia del messaggio[6], per Koons questo passaggio è scontato dovendo solo più illuminare, oggettivandola e mettendola tra parentesi, “la sterilità aliena, mercificata e tenuta in caro, del Nuovo, della Novità stessa”[7] che caratterizza le merci.

Il cambio di passo sperimentato da Koons pertiene in realtà al diverso posizionamento epocale in cui egli si trova ad operare. Senza nulla togliere alla sua sagacia di interprete dello Zeitgeist a lui contemporaneo, è indubbio che i Pop artisti avevano affrontato la problematica delle merci – al termine di un periodo storico (gli anni ’50 e ’60)  in cui la ricchezza sociale era stata ‘accumulata’ in prevalenza sulla base di un’economia produttiva (quindi reale) – insistendo sull’aspetto simbolico attraverso cui veniva veicolata, soprattutto dalla pubblicità, l’incentivazione al consumo.

In qualche misura, questa induzione prefigurava già i prodotti sul punto di essere sussunti alla pervasività dei segni e perciò la loro rappresentazione aderente doveva essere posta sotto il registro formale-astratto dell’apparenza socialmente mediata: la simbolizzazione delle sigle, marche e slogans[8].

A sussunzione avvenuta, negli anni ’80 con la finanziarizzazione dell’economia, quando alla produzione si affianca la possibilità  di speculare più velocemente attraverso il gioco borsistico – prescindendo da contropartite accertate – secondo logiche predittive o probabilistiche (puramente virtuali) che spostano titoli e capitali, modificabili nel loro valore di scambio in base alla performatività di transare istantaneamente grazie all’informatizzazione delle comunicazioni, è il quadro della realtà ad inabissarsi nel disporsi operazionale di tutte le combinazioni possibili che il mercato sollecita.

L’astrazione che regna nel comparto della finanza derivata ingenera il medesimo effetto nel valore segno dei prodotti di consumo, sollecitando gli artisti sensibili e accorti come Koons[9] a circoscrivere, esaltandolo, l’elemento iconico e indicativo che conserva una traccia di concretezza nel dispositivo comunicativo del segno significante le merci. In Koons, il tentativo è al suo grado massimo poiché il segno coincide con l’oggetto letteralmente, marcando il mitema presenzialistadi quest’ultimo quasi fosse un mana cultuale a cui rimettersi per offrirlo di persona al fedele-consumatore-collezionista[10].

Tornando alla specificità dissonante dei ready made koonsiani, essa è ancora più evidente nei lavori con i palloni da basket sospesi all’interno di teche con acqua distillata della serie Equilibrium. Qui, i palloni non rimbalzano, ma rimangono in perfetto equilibrio immobili e afunzionali  al centro dei contenitori. La mitologia sportiva soggiacente, con i valori agonistici ed economici correlati (che sono al centro della serie), viene in realtà azzoppata dalla sua nuova proprietà perché i basketballs Spalding (come già nelle opere precedenti) non fanno segno (al contrario di Duchamp) per qualcos’altro, restando un prodotto non consumabile, quindi un ossimoro, che non può essere verificato. La latenza del loro senso rimane nascosta al loro interno, consentendo con ciò di esperire solo metaforicamente l’annullamento del loro valore d’uso (attraverso la loro decodificazione come prodotti artistici dato il contesto in cui sono inseriti).

Dal punto di vista referenziale, volendoli circoscrivere anche secondo l’individuazione segnica di Peirce, sono la sovrapposizione iconica di loro stessi (iperreale), mentre il loro quoziente di indicalità è tale da farne dei rapresentamen il cui grado di rappresentatività li porta a coincidere con gli individuali di cui  dovrebbero essere i secondi[11]. Infine, in relazione al terzo termine della triade che caratterizza il segno peirciano, come oggetti sono scoperti dal versante simbolico, non essendo riconoscibili per “legge” o “convenzione” ma per quello che sono, cioè palloni gonfiati in modo improprio rispetto al semema dell’utilizzabilità.

Riassumendo, il plesso ermeneutico che lega appropriazione, enfatizzazione dell’oggetto di consumo e la sua traducibilità estetica in forma-merce figurativa in quanto prodotto artistico  percorre  tutta la produzione giovanile di Koons e informa, solo per differenza di scarti tematici, anche il resto della sua opera. A riprova, la presentazione in mostra di alcuni ‘capolavori’ della serie Celebration come il Balloon Dog (Magenta) 1994-2000, dove “il brillare e risplendere a specchio della superficie della scultura manifesta, da un lato, l’idealità dell’idea di trasmettere entusiasmo, spensieratezza e leggerezza e, dall’altro, il reale senso latente al suo interno, cioè la sua non consumabilità”[12]. L’oggetto, costruito per ‘preservare’ in eterno l’essenza del giocattolo, è impossibilitato a traslare (di senso) e può solo ‘ostendersi’ nelle dimensioni meno-che-reale, oltre-reale o iperreale, ammiccando silenzioso verso una forma di nostalgia[13] per un’idea di reale che proprio perché “trasformato dalla simulazione non è altro che il reale”[14].  L’aura a cui aspira è quella della concretezza che aleggia sulla trascendenza del prodotto (su cui si riflette sempre solo il presente della visione del consumatore) come il suo dato trascendentale perduto.

Note

1. “La vista del lavoro di Koons ci offre un’esperienza intensificata del simulacro. Gli aspirapolvere non sembrano reali ma “iperreali”. Sono totalmente originari (separati dalle evenienze casuali della realtà); sono presentati serialmente (senza originale), appartenendo ad un universo “stranamente simile all’originale”  in cui “le cose sono duplicate dal loro proprio scenario”” (Peter Halley, The Crisis in Geometry (1984), in Selected Essays 1989-2001, New York, Edgewise Press, 2013, p. 102)

2. Quest’aspetto di oggettivazione dell’oggetto è un tratto  della poetica dell’artista che è rimasto inalterato almeno fino alla grande esposizione di Versailles (Cfr. Philippe Dagen, Jeff Koons. Versailles, «Art Press», n.359, novembre 2008, pp. 20-21).

3. Cfr., per questo, Martin Heidegger, Sein und Zeit, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 2006, 19 ed., pp.83-88,      ( tr.it., Essere e tempo, a cura di Franco Volpi, Milano, Longanesi, 2006, pp. 107-114).

4. L’attitudine ossessiva  di Koons nel tenere intonse e pulite le proprie opere ebbe modo di manifestarsi già ai suoi esordi quando nel 1984, invitato per la prima volta da Collins&Milazzo a partecipare alla loro seminale mostra di gruppo The New Capital presso la galleria White Columns di New York, l’eccessiva cura nel lustrare durante l’allestimento la teca che esponeva (con due New Hoover Convertibles) rischiò di suscitare una reazione di rigetto simpatetico nei suoi confronti da parte di Tricia Collins.

5. Cfr. Herbert Read, La pittura moderna, tr. it, Ginevra-Milano, Rizzoli-Skira, 2003, p. 287.

6. Cfr. Giulio Carlo Argan – Achille Bonito Oliva, L’Arte moderna 1770-1970 – L’Arte oltre il Duemila, Milano, Sansoni, 2002, pp. 283-4.

7. Cfr.  Tricia Collins- Richard Milazzo, Art at the End of the Social in Art at the End of the Social – Rooseum, a cura di Collins&Milazzo, Malmö, Rooseum, Catalogue n.2, 1988, p. 54.

8. Cfr. Jean Baudrillard, La società dei consumi, tr.it., Bologna, Il Mulino, 2008, p.129. Sul significato precipuamente oggettivante di questa simbolizzazione, cioè in qualche modo propedeutica per i neo-pop-artisti degli anni ’80, cfr. Elio Grazioli, Arte e pubblicità, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp. 139-44.

9. È noto e significativo che nei tardi anni ’70 Koons facesse il broker a Wall Street.

10. In mostra, il tentativo di eternizzare l’involucro delle cose (dai contenitori di bevande alcoliche alla statuaria barocca) è ben documentato nelle serie Luxury and Degradation e Statuary. Koons plasma gli oggetti nell’acciaio inossidabile (materiale tecnologicamente più confacente a distanziare l’aura del bronzo, da lui sperimentato per alcune sculture in Equilibrium, e con cui Jasper Johns, suo ispiratore, aveva fuso le lattine della birra Ballantine) come un marchio di trascendenza e di appartenenza sociale.
Rispetto a questi sviluppi, Collins&Milazzo sono estremamente puntuali: “I contenitori (di whisky a forma di trenino) in acciaio inossidabile articolano, da una parte, una dialettica tra la merce come sostanza metafisica o ingannevole, incorporando la falsa leggerezza della trascendenza e, dall’altra, la mortalità stessa, che riguarda il vero peso di tutte le cose vissute […] Nelle statue, Koons fonde vari significanti culturali per classe sociale come un busto di Luigi XIV e un coniglio gonfiabile […]stabilendo un equilibrio ironico tra registri culturali alti e bassi, tra la Storia del consumo (impersonata da Luigi)e il consumatore (il coniglio) nel mondo contemporaneo” ( T. Collins e R. Milazzo, Art at the End of the Social, cit. p. 54).

11. Cfr., per questi aspetti, Charles S. Peirce, Semiotica, tr. it. a cura di Massimo A. Bonfantini, Letizia Grassi e Roberta Grazia, Torino, Einaudi, 1980, pp. 133-70.

12. Cfr. GianCarlo Pagliasso, Ideismo: malattia senile del Concettuale. Creatività e arte contemporanea, in «artapartofcult(ure)», 12 marzo 2012.

13. “Il suo lavoro va tanto in profondità da consentire di riaffermare da un momento all’altro la storia come la temporalità perduta della giovinezza, permettendoci  le sue superfici riflettenti di scrutare o navigare la storia della nostra perduta innocenza” (Richard Milazzo, Koons: Shiny on the Outside, Hollow on the Inside. (Part I), “Hyperallergic”, 31 gennaio 2015.

14. Cfr. Jean Baudrillard, Della seduzione (1979), tr.it. di Pina Lalli, Milano, SE, 1997, p. 158

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Pagliasso, Giancarlo (Torino, 1949). Estetologo, scenografo, artista e scrittore. Fondatore, nel 1976, del G.R.M. e direttore dello Studio 16/e (Torino, 1977-90). Teorico e artista dell’Arte Debole (1985-96). Direttore dal 1997, dell’agenzia d’arte Figure. Caporedattore della rivista www.Iride.to. (2002-2004). Ha pubblicato: Déjà Chimera Saggi/Writings, 1987-90 (Tangeri, 2001); La retorica dell’arte contemporanea (Udine,Campanotto, 2011); Il deficit estetico nell’arte contemporanea (Cercenasco, Marcovalerio, 2015); Fotografia 2 (Udine, Campanotto, 2015); Il nuovo mondo estetico (con Enrico M. Di Palma) (Cercenasco, Marcovalerio, 2020). Ha curato: Sheol (Torino, Marco Valerio, 2003); Collins&Milazzo Hyperframes (Udine, Campanotto, 2005); Julian Beck. Diari 1948-1957. (Udine, Campanotto, 2008); Julian Beck. In the Name of Painting (Pordenone, 2009). Curatore di mostre in Italia e all’estero, è uno dei redattori di Zeta (Udine), con cui collabora dal 2005.

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