Animali e altri esseri o l’essere animale e l’altro da sé. Il Bestiario frattale di Jean-Claude Meynard (I)

immagine per Jean-Claude Meynard
J.-C. Meynard, Partition Papageno, 2017

Le opere del Bestiario frattale di Jean-Claude Meynard sono state esposte in un contesto museale in Italia (Palazzo Tagliaferro, Andora), in gallerie private ed esposizioni fieristiche in Francia (Galerie Dumonteil, Parigi) e in Cina ( Art Central, Hong Kong; Art Bejing, Pechino; Galerie Dumonteil, Shangai).

A monte della progettazione di ogni singolo lavoro, queste diverse dislocazioni geografiche e culturali sono state considerate dall’artista come presupposti informatori e portanti per il senso e la finalità dell’esecuzione  nel suo insieme.

Allo stesso modo, altri due serbatoi ideativi gli hanno consentito di calettare la propria immaginazione nei termini dello sviluppo formale che l’intero progetto ha assunto al suo compimento: la tradizione letteraria e il patrimonio iconografico occidentali.

Le suggestioni, all’interno del primo bacino,  pertengono a vasto raggio agli ambiti mitologico, poetico-filosofico, religioso e scientifico, quelle del secondo abbracciano un arco temporale segmentato tra classicità, rinascimento e  modernità.

Nel tentativo di raccordare l’indice metamorfico che percorre l’immaginario sull’animale (quale doppio dell’uomo) nel mondo classico (e precipuamente in quello romano), l’artista ha tenuto in seconda battuta gli aspetti simbologici di trasformazione e mascheramento che in buona misura  configurano il regno animale all’interno della sfera della pura natura.

Quest’ambito immanente non viene ecceduto in alcun modo negli autori classici, neppure come proiezione traslata del divino sull’altare del sacrificio di cui l’animale è il tramite.

Sia in prosa che in poesia, esso è presenza ontica senza trascendimenti simbolici evidenti (soprattutto in Apuleio, Ovidio e Virgilio) che non siano quelli di una retorica cauta e misurata innanzitutto sul paragone e l’analogia.

A questo registro stilistico pare accordarsi la figurazione di Partition Libellule, nella quale Meynard illustra l’effetto farfalla come una progressione musicale movimentata al contrario dal turbinio spiraloide di una miriade di individui sino all’incedere quasi statico di un singolo insetto (il cui corpo è composto dal profilo umanoide di una sagoma che sorge e declina).

Energia, ritmo e slancio spaziali di questa composizione paiono seguire gli incisi metrici (nella loro dinamicità sonora) con cui Virgilio sottolinea ne Le Georgiche l’operosità instancabile e cangiante delle api, descrivendone le traiettorie aeree e le diverse velocità di esecuzione a seconda dei compiti specifici loro assegnati[[1]].

Meynard ha infatti posizionato, sulla superficie dei quattro segmenti figurali di cui è composta Partition Libellule, componenti dello sciame degli animali come se fossero dislocati su una partitura immaginaria, omogenea però allo spazio della versificazione del poema virgiliano, così da far corrispondere le loro apparizioni a quelle degli accenti tonici  presenti in ogni verso.

Il medesimo accorgimento è utilizzato dall’artista per Partition Papageno, laddove il quadrittico dell’immagine mostra una squadratura a spartito su cui si dispongono le figure ibride dei ‘pappagalli meta-umani’, coerentemente alle note e accenti timbrici del pentagramma che sviluppa la celebre aria Ein Mädchen oder Weibchen wünscht Papageno sich nel finale del secondo atto de Il flauto magico di Mozart.

In entrambe le opere, l’artista si è proposto di implementare il lato sineddottico della parte per il tutto, alla base dell’arborescenza di crescita frattalica, su quello sinestetico/metaforico relativo alla semantica della trasformazione.

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Ecco che allora ogni immagine viene a coprire, attraverso il proprio inciso figurale, le sottostanti componenti grafiche e sonore cui allude in quanto spunti culturali di referenza.

Nel caso di Partition Papageno, tali spunti sono ancora riarticolati in trame ulteriori (che avevamo già indicato in precedenza come sottoinsiemi significanti).

Basti pensare che la quasi-animalità di Papageno è sottolineata non solo mediante il rimando ‘figurato’ alla musica (dove il personaggio canta da solo, Mozart utilizza il lied viennese  o l’aria dell’opera buffa) o alla maschera piumata del suo abito  (che ricorda la tradizione comica popolare viennese dell’Hanswurst e del Kasperl), suggerita da Meynard antropomorfizzando il piumaggio dei suoi pappagalli/papageni, ma anche richiamata subliminalmente – attraverso il fibrillare di accenti dorati sulla superficie del quadro –  alludendo alle palme a foglia d’oro portate dai sacerdoti di Sarastro durante il rito di iniziazione di Tamino e Papageno stesso.

Gli stessi oggetti sono indossati dai sacerdoti di Iside, i cui consigli di mangiar rose sono seguiti da Lucio (il protagonista de Le metamorfosi di Apuleio) per ritornare uomo dopo la sua trasformazione in asino.

I riti di iniziazione sono il discrimine implicito tra l’umano e il bestiale, così che mentre Tamino sceglie di essere iniziato alla saggezza e conoscenza (e Lucio, tornando umano privilegia lo spirito), Papageno rivela ancora ambiguità circa il proprio anelito spirituale preferendo la più prosaica e ‘carnale’ compagnia di una donna.

Inoltre, essendo sia Le Metamorfosi che Il flauto magico composizioni ibride, in cui la contaminazione dei generi assume il ruolo di un vero e proprio attivatore mutante della struttura[2], Meynard, utilizzando algoritmi che sfruttano le proprietà dei frattali di produrre figure omotetiche  a trasformazione diretta (ingrandimento) e inversa (rimpicciolimento), sembra lasciare intendere di voler seguire una modalità creativa  in qualche misura omeomorfica rispetto a quelle degli autori cui si riferisce.

Passando alle opere La Roue du Paon e Arborescence du Cerf,  l’artista si confronta principalmente con la tradizione dossografica e iconografica della Patristica e della Scolastica (tra cui spiccano gli accenti immanentistici ed ‘enciclopedici’ delle riflessioni sugli animali  di  Isidoro di Siviglia e Alberto Magno).

All’interno di questo orizzonte culturale, l’effige animale abbandona la sua ‘ferinità’ iconica per sostenere l’oscillazione semantica metaforico/metonimica  con cui cripta le significazioni delle entità (Cristo, la Chiesa, il fedele) comprensibili ormai solo per un’ermeneutica interna all’universo di senso della religiosità cristiana.

L’abbondanza simbolica viene esaltata nei bestiari medioevali per definire in dettaglio una nomotetica esaustiva delle virtù e dei vizi umani (soprattutto attraverso le figure di animali fantastici) e per approntare un formulario visivo e impressivo in grado di orientare il credente verso il cammino ortodosso della salvazione.

In La Roue du Paon, l’artista sovrappone l’immagine capovolta in positivo e negativo dell’uccello, simbolo della resurrezione (per i pagani rappresentava l’immortalità) e dell’essere rinnovato alla vita eterna attraverso i sacramenti, mentre dispiega la meravigliosa coda (ottenuta con la prospettiva centrale di un sembiante umano di schiena verso cui convergono fasce parallele del medesimo sembiante in sequenza).

Le fasce e la prospettiva centrale rimandano intuitivamente ai mosaici di Ravenna (Sant’Apollinare Nuovo in particolare); il ‘doppio’ pavone immediatamente al catino dell’abside di San Vitale.

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La figura superiore, i cui toni azzurri cangiano verso la purezza dell’acromatico, sembra alludere al pavone bianco ed alla sua simbolica cristologica. In effetti, due pavoni sono presenti nel giardino celeste sottostante il gruppo di Cristo, angeli ed Ecclesio che occupa lo spazio centrale absidale della basilica ravennate.

La scena va letta in senso temporale: il pavone di destra osserva una colomba implume, quello di sinistra  la scaccia. L’allegoria ‘disegna’ la distanza che separa l’anima rinnovata alla grazia mediante il battesimo da quella che non l’ha ancora ricevuto.

Nello stesso tempo, però, La Roue… potrebbe mostrare, attraverso la sua simmetria specchiata e cromaticamente opposta, un angelo che narcisisticamente volge le spalle ai tentativi di interpretazione miranti a definirne il genere e la condotta.

Quest’ambiguità ermeneutica si riscontra anche in Arborescence du Cerf in quanto la raffigurazione della testa dell’animale concresce sui dettagli riquadrati di una figura antropomorfa in ascensione,  mentre le corna si protendono dissociando questa effige  in lacerti positivi/negativi a scala crescente.

Se osservata dal lato canonico, l’immagine del cervo richiama subito quella dell’icona ravennate del mosaico di Galla Placidia, in cui la vitalità vegetativa dell’animale allude alla rigenerazione spirituale che l’anima può ottenere abbeverandosi alla fonte della parola divina.

Laddove la simbolica della sua rigenerazione vitale si attesti invece su un piano organico-biologico, (come nel mito di Ciparisso, la cui arborescenza in cipresso rimanda metonimicamente alla ramificazione delle corna d’oro del cervo da lui ucciso), ecco che può essere riportata ad un livello di immanenza che allude alla metamorfica, instabile, fluttuante esperienza del vivente indifferenziato.

  • un ulteriore approfondimento, sorta di seconda parte di questa narrazone, a breve su art a part of cult(ure)
[[1]]Con Nid d’Abeilles Meynard  invece costruisce l’immagine della testa di un’ape, che è contemporaneamente un favo, con il contorno  di un uomo ‘vitruviano’  trasformato/deformato a scala diversa per suggerire lo stato di quiete operosa dopo il risultato che il legame cooperativo tra esseri viventi è in grado di ottenere.[[1]]

Note

2. Apuleio tratta il soggetto in forma epica, biografica, mitologica, satirica e favolistica, mentre Mozart compone destreggiandosi con la sonata, il Lied viennese, il corale luterano, l’aria italiana e il recitativo accompagnato.

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Pagliasso, Giancarlo (Torino, 1949). Estetologo, scenografo, artista e scrittore. Fondatore, nel 1976, del G.R.M. e direttore dello Studio 16/e (Torino, 1977-90). Teorico e artista dell’Arte Debole (1985-96). Direttore dal 1997, dell’agenzia d’arte Figure. Caporedattore della rivista www.Iride.to. (2002-2004). Ha pubblicato: Déjà Chimera Saggi/Writings, 1987-90 (Tangeri, 2001); La retorica dell’arte contemporanea (Udine,Campanotto, 2011); Il deficit estetico nell’arte contemporanea (Cercenasco, Marcovalerio, 2015); Fotografia 2 (Udine, Campanotto, 2015); Il nuovo mondo estetico (con Enrico M. Di Palma) (Cercenasco, Marcovalerio, 2020). Ha curato: Sheol (Torino, Marco Valerio, 2003); Collins&Milazzo Hyperframes (Udine, Campanotto, 2005); Julian Beck. Diari 1948-1957. (Udine, Campanotto, 2008); Julian Beck. In the Name of Painting (Pordenone, 2009). Curatore di mostre in Italia e all’estero, è uno dei redattori di Zeta (Udine), con cui collabora dal 2005.

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