Militarizzazione, strategia di difesa e predominio. L’oscuro male della politica americana

Italian Renaissance Sketchbook on Military Art
Italian Renaissance Sketchbook on Military Art
Italian Renaissance Sketchbook on Military Art
Italian Renaissance Sketchbook on Military Art

Da quando gli Stati Uniti hanno relegato ad un secondo piano la fondamentale responsabilità di creare un mondo più sicuro in stretta collaborazione con Paesi alleati e partner ed hanno invece convogliato le loro energie sul nation building, la problematica costruzione di democrazia in Paesi in cui è molto difficile che questa possa mai albergare, l’America si è impegnata in una “guerra continua” che non accenna ad attenuarsi. Il risultato è visibile nel consolidarsi di un sistema di sicurezza nazionale che porta gli USA ad estendere il loro predominio militare in una vasta parte del mondo e a garantirlo con una fitta rete di sorveglianza che include la straripante rete di intelligence. Il whistleblower Snowdensi è incaricato di far sapere che la rete in questione avvolge, oltre alle nazioni ostili e ai potenziali avversari, gli stessi alleati dell’America.

Con o senza gli shutdowns conseguenti alla perdurante paralisi nel Congresso, la militarizzazione da tempo in atto altera il ruolo dell’America trasformando il concetto classico di difesa del territorio in una strategia di difesa internazionale non solo contro il terrorismo ma qualsiasi altra situazione giudicata tale da porre un pericolo “imminente” agli Stati Uniti. L’America è passata infatti dalla dissuasione, sorretta dalla sua potenza nucleare, nei confronti di possibili avversari  –in primis, l’Unione Sovietica di un tempo- ad una dottrina di intervento anche in territori remoti, molti dei quali geograficamente assai distanti dagli Stati Uniti. L’applicazione di questa dottrina comporta la creazione di un numero crescente di basi militari all’estero che, lungi dal garantire una totale eliminazione di pericoli terroristici e d’altro genere, destabilizzano interi continenti come l’Africa.

Global Hawk a Sigonella
Global Hawk a Sigonella

È di data recente la denuncia della politica strategica che ha fatto dell’Italia uno dei centri più importanti nella propagazione della potenza americana. Dopo la fine della guerra fredda, il centro strategico di gravità si è spostato infatti dalla Germania all’Italia, che è divenuta la base di lancio delle operazioni militari mirate ad interventi in Africa e nel Medio Oriente. La presenza militare americana in Italia si è triplicata dal 1991 ad oggi, con 59 basi disseminate nella penisola, le più importanti delle quali sono situate a Vicenza, ad Aviano e in Sicilia, dove la Naval Air Station di Sigonella ospita, in aggiunta agli stormi di aerei di pattugliamento, un complesso di operazioni e mantenimento di drones denominato Global Hawk. In pratica, il crescente coinvolgimento americano in Africa ha fatto dell’Italia la base strategica più avanzata e più affidabile ai fini operativi e di proiezione di potenza. Uno studio pubblicato giorni fa da David Vine della American University rivela che nel 2003 l’Ambasciatore americano a Roma Melvin Sembler comunicò a Washington che il governo Berlusconi aveva concesso agli Stati Uniti “virtualmente tutto quello che avevano chiesto”. Il telegramma di Sembler è stato reso di pubblica ragione da WikiLeaks. Un’altra comunicazione si riferiva alla contropartita economica all’Italia nel campo della “cooperazione militare”, specificamente le vendite agli Stati Uniti di armamenti di Finmeccanica e la partecipazione italiana al programma di costruzione degli aerei F-35.

Il New York Times ha pubblicato giorni fa una corrispondenza in cui riferisce la dichiarazione del generale responsabile dell’Africa Command secondo cui “dopo aver lasciato l’Iraq, ora che gli Stati Uniti si ritirano dall’Afghanistan, l’Esercito cerca nuove missioni nel mondo”. Di fatto, riferisce la stessa corrispondenza, una brigata dell’esercito si sta addestrando a Fort Riley nel Kansas per operazioni nel continente africano. Il Pentagono ha suddiviso il nostro pianeta in sette “comandi” ed ha dislocato droni capaci di condurre operazioni ovunque, senza riguardo a confini, dal Pakistan allo Yemen e alla Somalia. La verità è dunque che malgrado si parli di declino degli Stati Uniti, nessun Paese al mondo dispone della terrificante potenza militare degli Stati Uniti, con undici battle groups operanti con portaerei contro, ad esempio, una sola portaerei cinese con le caratteristiche di una vecchia portaerei sovietica.

Quello che più preoccupa alcuni circoli americani è che la militarizzazione in atto sta producendo uno squilibrio sistemico nel sistema di sicurezza nazionale, in primo luogo ai danni della diplomazia americana cui va il merito di aver creato l’architettura del mondo post-bellico. Da allora, come segnala l’ex Ambasciatore Laurence Pope, il Dipartimento di Stato ha “un ruolo principalmente amministrativo mentre il potere è centralizzato nella Casa Bianca”. La dura critica di Pope ha un bersaglio preciso: “L’assenza del Dipartimento di Stato e del servizio diplomatico è stata colmata da quello che eufemisticamente definisco il “complesso militare-intelligence”. Il Pentagono ha messo in opera ventisei team o squadre militari in tutto il mondo. Ma questa è solo la punta di un grosso iceberg che consiste nelle operazioni dei comandi regionali del Dipartimento della Difesa, l’ultimo dei quali è stato creato per l’Africa. L’ex ambasciatore riflette con evidente amarezza sul fatto che il bilancio del Dipartimento di Stato è di circa quattro miliardi di dollari l’anno, meno della metà del bilancio annuale del comando per le operazioni speciali che coprono il globo con team dislocati in oltre cento Paesi.

Può apparire paradossale, ma il Presidente Obama ha detto più volte che “occorre disciplinare il nostro modo di pensare e le nostre azioni oppure finiremo con l’essere trascinati in più guerre che non abbiamo bisogno di combattere”. A fil di logica, questo significa che una poderosa macchina militare non può sostituire efficaci istituzioni diplomatiche e politiche e che gli Stati Uniti hanno bisogno di ripensare il loro ruolo nel mondo tenendo conto del fatto che gli Stati alleati e partner rivendicano la loro libertà di azione senza l’asfissiante controllo della intelligence e dell’apparato militare americano. Questo è il senso della levata di scudi in Europa ed altrove per le rivelazioni circa la mostruosa attività di sorveglianza e di intercettazioni della NSA. Secondo i dati sottoposti al Congresso dallo stesso Pentagono, le guarnigioni che gli Stati Uniti stanno erigendo nel mondo costano oltre 22 miliardi di dollari l’anno, senza contare i 118 miliardi spesi in Afghanistan ed altre operazioni belliche. Il calcolo approssimativo di alcuni esperti rivela infine che dal 2001 ad oggi la “guerra globale contro il terrore” è costata oltre due trilioni di dollari.

Le voci critiche dell’espansione dell’ Impero Americano – tra i quali si distingue Andrew Bacevich della Boston University – segnalano ironicamente come la vocazione all’isolazionismo sia da condannare in quanto oggi impedisce agli Stati Uniti di attuare le missioni globali affidate all’America dalla provvidenza. Queste appaiono dunque inarrestabili tanto che il Segretario di Stato Kerry è giunto a rimproverare al Comitato per le Relazioni Estere del Senato che “questo non è il momento per l’isolazionismo in poltrona”. È un sintomo allarmante dell’involuzione di una politica militaristica dichiarata necessaria per combattere l’aggressione proveniente da qualsiasi angolo, anche il più remoto, del globo. Il sospetto di critici come Bacevich è che questa strategia di conclamata “sicurezza” condurrà gli Stati Uniti a guerre perpetue e ad una perpetua “insicurezza”. Opponendosi ai bombardamenti in Siria, un gran numero di americani sembra aver mandato un messaggio nel senso che l’esercizio della potenza bellica non è la maniera migliore, nè l’unica praticabile, per affermare il primato dell’America. Senza contare che l’espansione a costi astronomici delle basi all’estero comporta sperperi che sottraggono preziose risorse allo sviluppo sociale, economico e umano dell’America, una nazione che ama definirsi “eccezionale”, ma certamente non per la sua capacità di bombardare ovunque nel mondo.

+ ARTICOLI

Marino de Medici è romano, giornalista professionista da una vita. E’ stato Corrispondente da Washington dell’Agenzia ANSA e Corrispondente dagli Stati Uniti per il quotidiano Il Tempo. Ha intervistato Presidenti, Segretari di Stato e della Difesa americani, Presidenti di vari Paesi in America Latina e Asia. Ha coperto la guerra nel Vietnam, colpi di stato nel Cile e in Argentina, e quaranta anni di avvenimenti negli Stati Uniti e nel mondo. Ha anche insegnato giornalismo e comunicazioni in Italia e negli Stati Uniti. Non ha ancora finito di viaggiare e di scrivere dei luoghi che visita. Finora è stato in 110 Paesi e conta di vederne altri.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.