# 2. La Quadriennale. Sindrome da accumulo. Intervista a Luigia Lonardelli e Simone Ciglia

La 16° Quadriennale di Roma ha tentato il bell’azzardo di far deflagrare altri tempi e altri miti dell’arte italiana degli ultimi quindici anni. Farli deflagrare affinché facessero esplodere le infinite contraddizioni che questo paese non riesce né a comporre, né a rispettare, né a considerare e che certo lette dall’arte possono improvvisamente acquisire figura e riconoscimento. Ha tentato l’azzardo, ma la partita non sembra essere stata vincente. L’allestimento da sindrome da accumulo ha sferzato opere e scelte curatoriali. Queste ultime, quasi tutte sostenute ab origine da idee portanti belle e dense, sembrano in molti casi aver ceduto alla comunicazione, anzi all’alta performatività imposta dalla comunicazione, per citare un danno e un rischio per l’arte sottolineato anni fa da Mario Perniola. Il risultato è la rutilante messa a tacere di idee e opere belle. Tra le dieci idee scelte nella selezione dei curatori svolta da una giuria esterna interdisciplinare sulla base di una call for project, ce n’è però una che a quel rischio ha preferito non esporsi e non solo nel titolo; nella scelta degli artisti e delle opere ha lavorato di sottrazione e essenzialità. Rimanendo nel cerchio tracciato dal titolo della Quadriennale, Luigia Lonardelli e Simone Ciglia hanno creato un dislivello tra i due poli interpretativi; hanno anteposto alla asserzione dell’assoluta contemporaneità, al mito dunque, un dialogo poetico, rigoroso tra generazioni di artisti, sondando la traccia che il tempo descrive in quel dialogo.

Perché avete scelto di essere in due a curare questa parte?

“Abbiamo scelto di presentare un progetto insieme perché ci siamo riconosciuti in un sentimento comune di fronte alla chiamata della Quadriennale, un sentimento che si è subito concretizzato intorno all’idea della sottrazione come forma di sorda resistenza ai flussi di informazioni, immagini, dati in cui siamo immersi.
Condividiamo una visione curatoriale che non si fonda su eroismi o protagonismi, ma su una quotidiana pratica di silente creazione delle condizioni in cui progetti e opere si possano attuare al loro meglio. Abbiamo una formazione comune da storici dell’arte che ci conduce a sentire le ragioni della storia come prioritarie rispetto a ogni teorizzazione o profezia. La modalità di lavoro di gruppo, che nel rilancio continuo delle idee attenua la dittatorialità insita in ogni processo decisionale, ci sembrava la più aderente al nostro sentire. Abbiamo rappresentato questa metodologia di lavoro anche in mostra con due collettivi (Claire Fontaine e Invernomuto) che testimoniano la diffusione di questa attitudine – il rifiuto di dinamiche superegoiche –anche nell’ultima arte italiana.”

Cos’è la “codificazione identitaria”?

“La chiamata della Quadriennale c’invitava a compiere una riflessione sugli ultimi quindici anni dell’arte italiana. Fondamentalmente ci si chiedeva di ragionare in termini di gruppo e quindi di riconoscimento di analogie: in questo abbiamo subito percepito la richiesta di una norma che potesse imbrigliare insieme esperienze diverse per definire un’identità comune. La ricerca di quella che abbiamo appunto chiamato codificazione identitaria è un atteggiamento comune che spesso porta alla definizione di gruppi artatamente selezionati per rispondere più fluidamente e sinteticamente alle necessità del sistema dell’arte.”

Il vostro testo critico è un racconto, il racconto della visita di F. alla vostra porzione. È il vostro modo di esplicitare la sottrazione? Il sottrarvi all’apparire nella scrittura critica delle vostre posizioni oppure è la contestazione verso un ruolo critico che oggi rischia di non poter essere altro che una fabula?

“Sono diverse le ragioni che ci hanno condotto alla scelta di presentare un racconto come testo critico nel catalogo della mostra. In primo luogo si è trattato di una naturale prosecuzione della traccia letteraria seguita nel progetto espositivo (il protagonista del nostro racconto è vagamente ispirato a Bartleby lo scrivano). C’è poi anche l’idea di rispondere alla natura di una mostra come la Quadriennale tradizionalmente considerata popolare: volevamo avvicinare un pubblico anche meno smaliziato all’arte contemporanea, e il racconto ci è sembrato il modo ideale per farlo. Inconsciamente, è possibile che questa scelta sia stata dettata da una volontà di sottrazione, un rifiuto dell’atto critico che ha nella scrittura il suo momento culminante e che ci sembra da ripensare.”

Bartleby è inconoscibile, è incomprensibile rispetto a un modello di vita consolidato e sicuro di sé. Agamben pensa alla potenza della possibilità, lo scrivano che smette di scrivere è una rappresentazione dell’uomo che smette di dover essere uomo e rimane sulla soglia di una possibilità che diventa rifiuto. Cosa rifiutano, secondo la vostra scelta, gli artisti in mostra e per rifiutare, cosa smettono di fare?

 “L’idea della sottrazione che lega insieme le presenze in mostra, si declina in maniera differente, tanto a livello formale del lavoro quanto della stessa biografia dell’artista. Il gesto di lasciare la città per andare a vivere in campagna, compiuto da Baruchello agli inizi degli anni Settanta, ci è apparso il prototipo di un atteggiamento che si è riproposto nel tempo anche solo a livello intimamente esistenziale. Molti degli autori in mostra hanno optato per una mossa obliqua, scegliendo tecniche, soggetti, luoghi laterali al mainstream scegliendo di resistere all’affastellamento delle cose e dei fatti.”

Se ci riportiamo un attimo nel meccanismo narrativo di Melville, lo scrivano sembra diventare un rifiuto anche alla narrazione. Melville gioca su questo: nulla nel personaggio offre un appiglio per continuare a narrare questa storia. C’è il rischio che nella possibilità tra ribellione e rifiuto, che sono cose ben differenti, scegliendo quest’ultimo si scelga, nel rapporto col lettore, di non poter continuare o a essere il Personaggio o a essere narrato/esperito? L’impossibilità di appropriarsi del senso che risiede dentro l’opera.

La domanda coglie il paradosso che abbiamo affrontato con questo progetto: rifiutare la narrazione come forma di autobiografia collettiva, spesso con derive identitarie artificiose, accettando il rischio del mutismo? Crediamo che le opere in mostra continuino a rispondere a questa domanda anche se in forme talvolta criptiche, ironiche o sottilmente scettiche.”

Sull’eleganza estrema della formula del rifiuto, sono stati scritti fiumi. L’eleganza del rifiuto nell’ambito da voi circoscritto può diventare estetizzazione, pura estetizzazione, cioè quasi elegante atto che arretra da un portato ideologico?

“Il rischio dell’estetizzazione è certamente insito nell’atto del rifiuto e dare conto di questo fenomeno significa parlare del nostro tempo. La dialettica estetizzazione/ideologia non ci sembra più funzionare oggi che l’ideologia ha subito un processo di completa estetizzazione. D’altra parte il riconoscimento di un’ideologia presuppone una dinamica collettiva che non ci è sembrato riconoscere negli ultimi anni di ricerca italiana.”

Pensiamo un attimo all’oggetto artistico. Quanto rimane dell’idea di Michelangelo per cui “Tu vedi un blocco, pensa all’immagine: l’immagine è dentro basta solo spogliarla”. Cosa si leva, affinché quello che si fa per forza di levare faccia emergere il suo senso. C’è un’idea cioè che approfitta di questo sottrarsi per emergere oppure è la sottrazione stessa a essere idea?

“L’idea di sottrazione si declina anche a livello formale nelle opere in mostra. In alcuni casi viene tematizzata esplicitamente, come nel neon che recita NOPE di Claire Fontaine; in altri è invece più indiretta, come nei video di Anna Franceschini che concentrano lo sguardo su quello che solitamente viene relegato sullo sfondo – la decorazione – o nelle performance di Chiara Fumai, che rileggono momenti o personaggi riscattati da una loro marginalità, o ancora nel film di Luca Trevisani, che racconta del fallimento di un’utopia modernista.Una parte delle opere in mostra prosegue una linea fondata sull’azzeramento: il monocromo, rielaborato da Luca Vitone con l’impiego di pigmenti come la polvere, o ancora i fogli di alabastro di Massimo Bartolini. Vuota è anche la pellicola che anima la scultura cinetica di Rosa Barba. Le risponde a fianco il quadro di Nicola Samorì, costruito sullo spellamento dello strato pittorico. Matteo Fato mette in questione i fondamenti della pittura, evidenziane debolezza e precarietà, mentre gli Invernomuto s’interrogano sulla possibilità di fare scultura oggi e sul concetto di monumento. La leggerezza – intesa in senso calviniano – è un altro dei concetti sui cui ci siamo concentrati, una leggerezza incarnata nell’esile scultura di Mario Airò e nella grande tela bianca, costellata di microcosmi, di Gianfranco Baruchello. Fino alla totale sottrazione di Cesare Pietroiusti che sviluppa un lavoro laboratoriale, nel suo studio, al di fuori della Quadriennale stessa.

Sulla Quadriennale si legga anche #1  www.artapartofculture.net/2016/10/15/la-quadriennale-questo-tritacarne

www.quadriennalediroma.org
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Via Nazionale, 194, 00184 Roma
Tel.: 06 3996 7500

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Michela Becchis è Storica e Critica dell’arte. Ha insegnato nelle Università dell’Aquila e di Chieti, all’Istituto Universitario “Suor Orsola Benincasa” di Napoli e ha collaborato con l’Istituto Universitario di Fiesole. Ha curato mostre e divide i suoi studi fra l’arte medievale (“Capolavori della terra di mezzo”, cat. della mostra, arte’m, 2012; “Pietro Lorenzetti”, Silvana editoriale, 2012) e quella contemporanea e relativamentea questo settore dirige la collana TAC-Tomografie di Arte Contemporanea per la casa editrice Exòrma; in entrambi i casi rivolge il suo particolare interesse al rapporto tra arte e storia e alla circolazione dei modelli figurativi e linguistici.

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