I nomi del signor Sulčič. Un film che risveglia la memoria e richiede accoglienza

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«Risvegliare la memoria non è sempre un bene» sono le parole di monito che sembrano perseguitare e rincorrere i personaggi de I nomi del signor Sulčič, nuovo film di Elisabetta Sgarbi, presentato in anteprima alla 36esima edizione del Torino Film Festival.

Risvegliare la memoria è un’esigenza impellente, l’unica mossa possibile per riportare a galla una verità insabbiata, è un viaggio che non concede alcuno sconto di pena a chi decide di intraprenderlo, ma è anche l’unico che possa aprire un varco su un nuovo inizio.

Ivana (Ivana Pantaleo) è una ricercatrice dell’Università di Ferrara che raggiunge Trieste alla ricerca di informazioni su Sara Rojc, una donna seppellita nel cimitero ebraico. Questa ricerca le è stata commissionata da Irena Ruppel (Lučka Počkaj), una donna slovena che con tutte le sue forze sta cercando di rimettere insieme i frammenti della sua dolorosa vita. Irena è sulle tracce delle sue origini, dei suoi genitori e di chiunque abbia fatto parte della vita che si sono ricreati una volta cambiata identità e arrivati in Italia. Tra questi c’è Gabriele (Gabriele Levada), un solitario uomo che vive in una casa sul Po e che verrà coinvolto nella ricerca condotta da Irena.

Elisabetta Sgarbi e Eugenio Lio – entrambi sceneggiatori della pellicola – sparpagliano intelligentemente i frammenti del loro complicato puzzle, tanto da disorientare e spiazzare lo spettatore: scavare nella memoria, e dare un ordine, un senso e un volto a nomi privi di corrispondenze è un’operazione che richiede ostinazione, fatica, tenacia e anche una certa intraprendenza, qualità che ad Irena non mancano, tanto che persino la sua migliore amica Elena (Elena Radonicich) – braccio destro dell’impresa –, elogia la sua meticolosa minuzia nella stesura del suo piano: un immaginario copione teatrale ad effetto.

Se la donna vuole arrivare a ricostruire il suo passato, deve agire d’astuzia e toccare i punti nevralgici di chi insieme a lei è investito del ruolo di ricomporre il puzzle.  Quella che parte come un’analisi scientifica della memoria collettiva si trasforma progressivamente in una delicata ricostruzione di quella individuale: un’operazione chirurgica in cui si interviene sempre sul filo del rasoio: ogni mossa diviene più delicata e si corre il rischio di lasciarsi pervadere ed inghiottire dal dolore.

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Ed è quando il dolore entra in gioco che la realtà sconfina nell’onirico, che tutto si annebbia e la lucidità della ragione annaspa nella fragilità dell’emozione. Il viaggio verso la verità diventa dunque un viaggio all’interno del proprio subconscio e ogni paura, mancanza, bisogno mai accontentato, riaffiora.

I nomi del signor Sulčič è un film che non ha paura di parlare di assenze, di vuoto, di solitudine incomunicabile.

Le mancanze che sentono i protagonisti vengono mostrate nella loro scarna nudità, nella loro opaca lucentezza, affrontate e attraversate con timida ostinazione nella speranza di potersele lasciare alle spalle. Gli errori dei padri vessano i figli e li sommergono sotto a un’onda da cui si può riemergere solo quando si è pronti a fare i conti con la verità ferrosa e tagliente che vede tutti protagonisti di una Storia sbagliata.

Ogni certezza viene rimessa in discussione, persino il proprio nome, quello che dovrebbe fornire ad ognuno un’identità e un’appartenenza. Se si viene privati del segno identitario per eccellenza non resta che sentirsi rappresentati, ingiustamente ed immeritatamente dalle azioni, quelle che generalizzano, quelle che drasticamente etichettano chi è buono è chi è cattivo, chi è sommerso e chi è salvato.

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Poster

C’è un grande rispetto, e un’altissima considerazione dell’individuo sul piano umano ne I nomi del signor Sulčič. Non si punta il dito, non si danno colpe, si ricostruisce uno spaccato di storia con oggettività e pertinenza, senza presunzione e didascalismi.

Elisabetta Sgarbi salpa e approda in terre confortevoli e amiche che appartengono al suo privato e al suo vissuto. Regala al suo pubblico la saggezza delle parole di suo padre: «Portami via la memoria e non sarò mai vecchio.» che accompagna per mano attraverso paesi – sia geografici che frutti dell’inconscio – affascinanti e impervi dove costruisce, su terre prolifiche, la struttura stratificata del suo racconto.

Potente, intenso e permanente come un profumo antico e pungente, richiede apertura, accoglienza e tempo per sedimentare e trovare la sua giusta collocazione tra le sfumature delle esperienze significative.

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Benedetta Pallavidino nasce ad Alessandria nel 1992. Nel 2014 consegue la laurea triennale in lettere moderne con tesi in Storia e critica del cinema, nel marzo 2017 quella magistrale con tesi in Critica cinematografica. Nel 2015 vince il premio Adelio Ferrero per giovani critici nella sezione recensioni. Nel 2017 vince il Premio Franco La Polla e viene selezionata tra i finalisti del Premio Marco Valerio. Scrive di cinema e si occupa dell'organizzazione di eventi culturali ad Alessandria, dove vive.

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