Pinocchio. La fedele favola dark di Matteo Garrone

immagine per Pinocchio di Matteo Garrone
Pinocchio di Matteo Garrone. Alessio Di Domenicantonio (Lucignolo) e Federico Ielapi (Pinocchio)

È una delle favole più amate, eppure trasporla in immagini sembra essere una delle operazioni più difficili e controverse della storia del cinema. Si tratta di Pinocchio: il celebre burattino di Carlo Collodi ha dato filo da torcere a parecchi cineasti, sia sul grande che sul piccolo schermo. Esclusa la amara e poetica versione di Comencini, il cinema offre sempre troppo o troppo poco ad una storia che non è per bambini, e che è ben lontana dalla farsa – alla Benigni – e dalle mille frivolezze melense – alla Walt Disney.

A conclusione di questo 2019 cinematograficamente ricco spunta tra le proposte natalizie l’atteso adattamento di Matteo Garrone, un film incensato da alcuni, e bistrattato da altri ancor prima che fosse possibile vedere addirittura il trailer. Dove sta la verità? Probabilmente nel mezzo. Il Pinocchio di Garrone non è un film riuscito, nonostante si intravedano degli sprazzi di bellezza oscura e solitaria, disseminati un po’ caoticamente tra un’avventura e l’altra del burattino.

Fedeltà è sicuramente una delle parole chiave; un pregio che va riconosciuto a Garrone più che a chiunque altro. La storia inizia con la presa di coscienza dello spettatore dell’assoluta miseria in cui vive Geppetto (Roberto Benigni) e si conclude con la trasformazione di Pinocchio (Federico Ielapi) in bambino vero, a seguito del suo impegno nel prendersi cura del padre, sfiancato dalle ricerche del figlio e dalla vita nel ventre del pescecane (e non balena).

Nel mezzo ci sono i tre incontri con il gatto e la volpe (Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini), i cinque zecchini donati al burattino dall’imponente, ma benevolo, Mangiafuoco (Gigi Proietti), la fuga con Lucignolo verso il paese dei balocchi, le degenze in casa della fatina (Marine Vacht), che da spettro di bambina morta, diventa donna virtuosa, quasi angelicata.

Matteo Garrone racconta Pinocchio come la favola dark che, a suo modo, è anche il romanzo di Collodi. Crudele, macabra, in cui di personaggi veramente positivi ce ne sono giusto un paio, tra cui, ovviamente Geppetto. La stessa fata dai capelli turchini, più che una figura materna, è una presenza dura, e non sempre compassionevole, che alterna austeri ammonimenti, a gentili carezze.

Fedeltà e spirito di conservazione, però, non sono sufficienti a fare di questo nuovo Pinocchio una trasposizione a tutti gli effetti soddisfacente. La vita del burattino, seppur arricchita da esperienze che lo portano verso la formazione, sembra suddivisa in episodi, come se ogni scena non fosse davvero collegata a quella successiva.

Ogni incontro è un capitolo, la cui fine viene pesantemente sottolineata da una panoramica sul meraviglioso paesaggio bucolico che sta sullo sfondo. Quasi come fosse uno spot per interrompere la storia e rifarsi gli occhi con quadri d’impronta macchiaiola, che rapiscono lo sguardo e lo seducono. Un tentativo, poco incisivo, di sottolineare quanto la natura sia parte viva e vibrante della narrazione, di come questa rappresenti lo sconfinamento dell’uomo e del suo piccolo mondo interiore in una realtà molto più ampi, che lo spinge verso “la fine del mondo” – fin dove Geppetto è pronto a spingersi per ritrovare il suo Pinocchio.

La mancanza di continuità non agevola neppure il processo di svisceramento dei temi e di approfondimento delle psicologie dei personaggi, e dei loro intenti. Resta tutto in superficie, abbozzato, dato quasi per scontato, poiché chiunque sa che Pinocchio è facilmente plasmabile, che Lucignolo è discolo, che il gatto e la volpe sono impostori.

Il vuoto lasciato dall’approssimazione dei caratteri viene colmato dal grottesco esasperato. I personaggi del cinema di Garrone sono volutamente loschi, misteriosi, sporchi e sordidi; in Pinocchio questo aspetto viene inutilmente portato all’eccesso, non si cade nel farsesco, solo grazie al poco tempo d’azione che viene concesso ad ogni personaggio di contorno.

Se i comprimari sguazzano nella loro esuberanza, il lavoro fatto su Pinocchio e su Geppetto è per sottrazione. Pinocchio, scappa, corre, si ribella sommessamente e, piuttosto che gridare e gesticolare, agisce leggiadramente.  L’operazione messa in atto su Benigni/Geppetto è forse l’aspetto più riuscito dell’intero film.

Nei suoi occhi si legge la miseria, la sofferenza, la tristezza di un uomo che non ha più nulla. Delicato, paterno, dai gesti pacati e amorevoli, Benigni si trasforma, abbandona il suo piglio istrionico e si affida completamente al suo regista. Dà vita ad un personaggio umano, ricco e poetico nella sua povertà.

Si potrebbe parlare di caduta, del primo vero e affrettato passo falso di Matteo Garrone – in molti lo dicono, ed altri lo pensano –, eppure c’è qualcosa di irresistibilmente magnetico nel suo Pinocchio, qualcosa che va oltre la correttezza formale, la complessità della narrazione, ed i bei paesaggi, c’è un’antica magia malinconica che persiste e che questo ultimo adattamento è riuscito a non tradire.

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Benedetta Pallavidino nasce ad Alessandria nel 1992. Nel 2014 consegue la laurea triennale in lettere moderne con tesi in Storia e critica del cinema, nel marzo 2017 quella magistrale con tesi in Critica cinematografica. Nel 2015 vince il premio Adelio Ferrero per giovani critici nella sezione recensioni. Nel 2017 vince il Premio Franco La Polla e viene selezionata tra i finalisti del Premio Marco Valerio. Scrive di cinema e si occupa dell'organizzazione di eventi culturali ad Alessandria, dove vive.

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