Sulla mia pelle. Un film necessario.

immagine per Sulla mia pelle
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Manifesto

Stefano aveva 31 anni, non era un santo, non era forte, non aveva un cognome che contasse, e di errori nella vita ne aveva commessi parecchi e, incapace di imparare da essi, li aveva ripetuti. Stefano era stato fermato ed arrestato per spaccio e detenzione di droga. Sette giorni dopo il fermo, dopo ricoveri, spostamenti da una struttura carceraria ad un’altra, e dopo un silenzioso calvario, Stefano morì. Le cause del suo decesso sono rimaste, incerte, misteriose, oscure.

Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, presentato in anteprima alla 75esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, poi in sala e su Netflix dal 12 settembre ripercorre, step by step, gli ultimi sette giorni di vita di Stefano Cucchi – un Alessandro Borghi nel ruolo della vita – e li ricostruisce con precisione filologica e metodica.

Niente fronzoli, pietismi, note di rito a margine, o strategiche avvertenze e prese di posizione, solo l’esposizione nuda e cruda dei fatti. Quella che per molti versi avrebbe potuto essere una semplice riproposizione documentaristica, diventa, invece, una lancinante narrazione di vita.

Il regista gioca a carte scoperte, descrive Cucchi per quello che è, nelle sue luci e nelle sue ombre: un tossico che da quindici anni fa dentro e fuori dalle comunità, uno spacciatore dalla doppia vita, un pischello che tenta di farsi forza e di rispondere a tono alle Autorità, ma anche un giovane legato alla famiglia e ai propri affetti.

Gettati tutti i presupposti per una visione critica e obiettiva, Cremonini e la sua macchina da presa innescano il loro infernale congegno: una lenta e radicale discesa agli inferi che non tarda a diventare simbiotica. I corridoi prima, la cella dopo diventano prigione per Stefano e per lo spettatore che, come un invisibile ed inerme testimone, assiste, inchiodato ad una parete – virtuale e non – alla fine di un uomo.

I segni sulla pelle di Stefano sono evidenti. Le ecchimosi, il respiro sempre più affaticato dal dolore, la voce impastata, l’immobilità progressiva sono realtà a cui ci si abitua, malamente, a convivere. Non c’è nulla di esasperato o ridondante, la brutalità non è nei gesti o nei segni, è molto più infida, si cela nel dolore, nell’attesa, nel tempo che scorre senza che nessuno intervenga, nella perdita di ogni speranza, nell’avvicinarsi di una morte, quasi attesa, silenziosa e più amica di qualunque altro viso apparso sulla scena.

La macchina da presa non indugia mai sui dettagli, i primi piani sono usati parsimoniosamente solo per rimarcare ulteriormente la fatica, il dolore, la rassegnazione sul viso del protagonista. La distanza mantenuta è consciamente quella che permette di avere un occhio di insieme: a fianco di Stefano, mai su di lui, mai alla ricerca di un’interiorità nascosta. Si deve avere completa consapevolezza dei luoghi, della disattenzione, della non curanza, del graduale peggioramento delle condizioni fisiche di Cucchi.

A poco a poco che una vita si spegne, cresce sempre più forte e sempre più incontrollabile il senso di rabbia verso una giustizia che non è mai intervenuta, e lo spettatore si proietta astrattamente accanto alla famiglia Cucchi, anche essa ingabbiata, nella bolla di un’eterna menzogna. Un padre stremato, abbattuto e vinto, una madre addolorata che porta sulle sue spalle il peso e il rimorso di non essere stata in grado di controllare e proteggere un figlio, e una sorella che trova dentro di sé il coraggio per affrontare la realtà e ricercare la verità, non garantiscono nessun sollievo, nessuno stacco, nessuna presa di fiato.
Si amalgamano perfettamente alla straziante agonia di Stefano, insinuandosi con il loro strozzato lamento a colmare le sottilissime incrinature – tregue del visivo – di una struttura organica e inscalfibile.

Sulla mia pelle è, e resterà. Un film necessario. La sofferenza, la rabbia, l’indignazione che provoca sono le giuste reazioni per approcciarsi al mondo contemporaneo. Non ci sono insegnamenti da impartire, o morali da sottolineare, solo una sfilza fitta ed interminabile di punti interrogativi a ci ognuno, a tu per tu con il suo IO, dovrebbe provare a dare una risposta.

Il film su Stefano Cucchi, più di molti altri che, anche negli ultimi anni, hanno trattato pagine importanti della storia italiana, vanta il pregio di sapere unire le persone, di dare un senso di appartenenza a tutti coloro che a gran voce, o sottovoce, reclamano verità e giustizia, prova ne è il continuo sentirne parlare, il bisogno primario di molti di farsi violenza concedendosi una seconda visione.

Spesso si parla di cinema come di esperienza multisensoriale, del film di Cremonini si può parlare di esperienza di coscienza, di irrobustimento di memoria collettiva, di stimolazioni di valori intrinseci, di formazione e di presa di posizione.

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Benedetta Pallavidino nasce ad Alessandria nel 1992. Nel 2014 consegue la laurea triennale in lettere moderne con tesi in Storia e critica del cinema, nel marzo 2017 quella magistrale con tesi in Critica cinematografica. Nel 2015 vince il premio Adelio Ferrero per giovani critici nella sezione recensioni. Nel 2017 vince il Premio Franco La Polla e viene selezionata tra i finalisti del Premio Marco Valerio. Scrive di cinema e si occupa dell'organizzazione di eventi culturali ad Alessandria, dove vive.

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