Dolor y gloria. Il cinema, cura e ragione di vita di Pedro Almodóvar

imagine per Dolor y gloria

Ci sono così tante variabili ed incognite nella vita, che anche solo azzardarsi in previsioni diventa un vero e proprio terno al lotto. Ciò che resta e sopravvive sono i grandi amori, quelli a cui si è devoti fin dall’infanzia, quelli che accendono il fuoco della passione, divampano e vengono poi smorzati dagli imprevisti più infidi e sotterranei.  In Dolor y gloria, l’ultimo film di Pedro Almodóvar presentato a Cannes 72, questo grande amore è il cinema stesso, il suo essere cura e ragione di vita.

Salvador Mallo (Antonio Banderas) è stato un regista di successo. Adesso che si sta avvicinando alla sessantina vive una fase difficile: il suo genio e la sua arte sono limitati da una serie di mali fisici e dell’anima che lo portano a restare rinchiuso nel suo appartamento-museo di Madrid.

Rifiuta proposte lavorative e apparizioni pubbliche, almeno fino a quando la cineteca non propone a lui e all’attore Alberto Crispo (Asier Exeandia) di presentare la versione restaurata di un film realizzato trent’anni prima.

Ritrovare Alberto sarà per Salvador lo stimolo, insieme all’eroina assunta per la prima volta, e ad altre coincidenze concatenate, per guardarsi indietro, fare i conti con il passato e rivedere le proprie priorità.

Il dolore e la gloria in questa opera autobiografica sono le due altalene antitetiche della vita, il passaggio continuo tra passato e presente, tra quello che si è stati e quello che si è.

Il dolore fisico provato da Salvador è la manifestazione concreta di un molto più profondo e radicato che negli anni è cresciuto nella sua anima, quello che lo opprime, che lo soffoca, che lo porta a vivere in passività.

È un dolore che arriva da lontano, probabilmente dalla sua infanzia, quando, poverissimo, ha dovuto abitare in una grotta e conoscere il compromesso: entrare in seminario pur di continuare a studiare.

Il dolore di Salvador è talmente acuto da avere un solo temporaneo rimedio, l’eroina, quella droga che per anni ha rifuggito, ma che ha segnato indelebilmente la sua vita sentimentale.  Un rimedio che gli consente però di viaggiare nel tempo della sua esistenza, di rivedere il passato e analizzarlo con maturità.

La gloria è stato un altro palliativo oscillante, una tremula parvenza di stabilità che ha tappato i buchi di una solitudine, ma anche incentivato il divenire di una carriera in costante work in progress.

Almodóvar ha i suoi temi ricorrenti e questo film, come e più di tanti altri, non sarebbe lo stesso se non fossero presenti le sue radici, una su tutte sua madre, donna semplice, ma forte ed instancabile, dedita allo spaccarsi la schiena per poter offrire un futuro migliore al suo bambino.

In Dolor y gloria ha il volto e la caparbietà di Penelope Cruz che, ancora una volta con indosso le vesti di popolana, traccia e segna il cammino impervio di crescita di un bambino che sogna la scrittura e il cinema. Un bambino a cui non interessano il cioccolato o le belle case, ma sapere se Liz e Robert Taylor sono fratelli, o proteggere con le sue fantasie infantili le eroine del cinema americano che vede proiettate sulle pareti di pietra bianca del villaggio rurale in cui cresce.

Pedro Almodóvar è vistosamente cresciuto, maturato (si potrebbe dire: invecchiato).  Lascia fuori l’irruenza, la tracotanza e l’eccesso che sono state sue cifre stilistiche e si abbandona alla grazia, all’assaporabile lentezza di una narrazione che cresce e si snoda sinuosamente in tutte le sue innumerevoli appendici con pennellate brevi, dirette ed essenziali nella loro nuda potenza.

Mostra il Cinema nella sua interezza, nella prosperità e nella vacuità, nel suo essere specchio di vita ma anche ombra offuscante.

Il Cinema ha rigenerato Salvador Mallo dopo la fine della relazione con il suo grande amore Federico (Leonardo Sbaraglia), e può ancora farlo se si raggiunge una stabilità tale da volgere lo sguardo verso il futuro.

Cosa serve dunque? Il tempo, la volontà, il liberarsi dal senso di colpa, il far pace con i propri fantasmi, l’avere il coraggio di prendere una decisione.

Non c’è patetismo, alcuna retorica, nessun dramma o piagnisteo esasperato, perché la potenza – come dice Salvador – sta nel saper lottare per trattenere il pianto e non nel mostrare la sofferenza con le lacrime.

Con dignità, decoro, maturità e sensibilità viene così messa a nudo un’esistenza  che, malandata, resiste, sopravvive e che chissà, probabilmente, può salvarsi da sola senza artifici o prove estreme, solo con il tornare alle proprie radici, a quei muri di pietra bianca dove non si è saputo proteggere Marilyn e tutte le altre dive, ma da dove tutto può ancora ricominciare.

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Benedetta Pallavidino nasce ad Alessandria nel 1992. Nel 2014 consegue la laurea triennale in lettere moderne con tesi in Storia e critica del cinema, nel marzo 2017 quella magistrale con tesi in Critica cinematografica. Nel 2015 vince il premio Adelio Ferrero per giovani critici nella sezione recensioni. Nel 2017 vince il Premio Franco La Polla e viene selezionata tra i finalisti del Premio Marco Valerio. Scrive di cinema e si occupa dell'organizzazione di eventi culturali ad Alessandria, dove vive.

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