Suspiria. La ricercatezza e la potenza nel remake di Luca Guadagnino

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Suspiria, Luca Guadagnino

Il remake di Guadagnino”, quello del 2018, è forse la definizione più usata per citare Suspiria, ed è la più inappropriata, facile e decisamente insoddisfacente che si possa attribuire ad un film che al cult di Dario Argento del 1977 si ispira liberamente, e in qualche modo vuole rendere omaggio. Ci sono le Madri, la danza, la congrega di streghe, le ballerine, ma la combinazione degli elementi di base, i significati profondi, la riflessione sull’uomo, sulla storia e sulla bellezza sono le nuove strade da percorrere in cui Luca Guadagnino non teme di addentrarsi.

Berlino 1977, Susie Bannion (Dakota Johnson), ballerina americana, ottiene un provino per entrare a far parte della celebre compagnia di danza Markos. Subito notata da Madame Blanc (Tilda Swinton), viene ammessa e ben presto, in seguito ad una serie di misteriose circostanze che portano alcune ragazze all’abbandono della compagnia, Susie ottiene il ruolo da protagonista.

Nulla è casuale, la giovane americana ha un ruolo ben preciso, quello di tornare a dare forza e splendore a Helena Markos, leader prescelta della congrega di streghe che ha dato origine alla compagnia. Patricia, una delle giovani ballerine allontanatasi dalla compagnia per seguire le proprie idee politiche – almeno così sembra – ha rivelato i suoi sospetti e le sue ossessioni riguardanti la stregoneria al Dottor Klemperer, il suo psicoterapeuta, (Lutz Ebersdorf/ Tilda Swinton) che, spiazzato dall’improvvisa scomparsa della paziente, inizierà ad indagare sulla Markos Tanz Company.

La struttura di Suspiria è senza dubbio complessa e stratificata: le incognite da trovare sono innumerevoli e ben celate. Per quanto tutte le risposte vengano date fin dal principio, trovare il giusto percorso per arrivare ad esse equivale al perdersi in un labirinto di suggestioni, riflessi, percezioni e pulsioni inconsce e destabilizzanti.

La danza, il filo rosso riscorrente, è l’ago della bilancia che pende, a cadenze alternate sul piatto della vita e su quello della morte, coinvolgendo la passione – sentimentale e fisica –, la rabbia e la distruzione. La danza è una possessione, una primitiva, sensuale e orgasmica opera di manipolazione, un rito di conversione e di estraniamento da tutto ciò che è reale. Le ballerine perdono la loro umanità per divenire corpi animaleschi che con i loro gesti netti e puliti scandiscono la trasformazione, l’abbandono del razionale, favorendo l’incarnazione dell’oscuro stregonesco e del proibito seducente.

Non vi sono contorni delineati: bene e male non sono mai concetti assoluti, ma maschere flessibili che nascondono riflessi distorti ed evanescenti. Si è chi si vuole essere o la riproduzione di un modello imposto da una forza suprema e manipolatrice? Trovare la propria autenticità nel caos dell’incessante rivolta interiore è possibile solo se ci si pone un obiettivo. Susie Bannion sceglie di essere le mani della compagnia di danza, e lo diventa, donando se stessa e aprendosi – non solo metaforicamente – all’ignoto.

L’ambientazione storica, nel cuore dell’autunno tedesco, supportata dai frequenti rimandi al Terzo Reich contribuisce ad alimentare la convinzione che brandelli di male siano latenti ovunque, pronti ad intaccare ogni animo, a persuaderlo, a corromperlo e a convertirlo.

Politica e danza vengono messe sullo stesso piano, i loro riti sfociano in performances eclatanti capaci di far cambiare posizione, di creare e distruggere contemporaneamente; non a caso il passato dello psicoterapeuta – marito di una donna deportata in campo di concentramento – e l’attivismo politico di Patricia vengono usati come armi a doppio taglio, come esche, come scudi per confondere, simulare e dissimulare, per far perdere a chiunque – anche allo spettatore – la lucidità.

Stilisticamente, Guadagnino fa appello alla ricercatezza estetica che lo contraddistingue. Il suo ambizioso delirio d’onnipotenza dietro la macchina da presa non perde mai credibilità: coreografico, incisivo e diretto smuove visceralmente lo spettatore con zoom a schiaffo, panoramiche circolari e primi piani memorabili e ad effetto. Il montaggio serrato e una colonna sonora clamorosamente calzante – ad opera di Thom Yorke – completano, ornano e impreziosiscono un prodotto che di manierismo non ha traccia e che anzi protende vistosamente verso lo sperimentale.

In Suspiria, dove si parla di memoria, di colpa, di origine dell’uomo, di bellezza a cui si deve rompere il naso ci si può perdere, ma anche ritrovare senza il bisogno di dover dare un nome e una collocazione a ciò che si è visto: si può chiamare, cinema, arte, esperienza, esperimento, eppure quello che resta al termine della visione è un rimescolamento interiore, un ribollire di idee che, in positivo o in negativo, tocca e incita al confronto. Retorica a parte, questa si chiama potenza.

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Benedetta Pallavidino nasce ad Alessandria nel 1992. Nel 2014 consegue la laurea triennale in lettere moderne con tesi in Storia e critica del cinema, nel marzo 2017 quella magistrale con tesi in Critica cinematografica. Nel 2015 vince il premio Adelio Ferrero per giovani critici nella sezione recensioni. Nel 2017 vince il Premio Franco La Polla e viene selezionata tra i finalisti del Premio Marco Valerio. Scrive di cinema e si occupa dell'organizzazione di eventi culturali ad Alessandria, dove vive.

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