La Favorita. Stordente bellezza macabra di Yorgos Lanthimos

immagine per Yorgos Lanthimos

Gli intrighi a corte sono un tema ricorrente dei film in costume. I film in costume sono un indiscusso evergreen della storia del cinema. Se si fosse limitato a sommare questi due aspetti consequenziali di un determinato genere cinematografico, probabilmente avrebbe realizzato un film come tanti, o forse solo un autoriale spaccato manieristico di società d’altri tempi.

Invece, ne La favorita, il regista greco Yorgos Lanthimos ha trasfigurato tutto il suo Cinema, provvisto di sconvolgente portata emotiva, e lo ha accomodato agli standard settecenteschi, all’etichetta, alle regole e alla libertà irruenta di una vita di corte messa in ginocchio da una guerra sommessamente infida.

Inghilterra 1706: siede sul trono la regina Anna (Olivia Colman), una donna fragile, cagionevole, distrutta da una vita che le ha portato solo sofferenze. La regina, poco capace e interessata al governo del proprio paese e alla gestione della guerra contro la Francia, si affida alle decisioni prese dalla sua consigliera, Lady Sarah Malborough (Rachel Weisz) in accordo con il marito militare e il primo ministro Godolphin.

L’arrivo a corte di Abigail Hill (Emma Stone), cugina di Lady Sarah, caduta in disgrazia e alla ricerca di un qualsiasi modesto impiego, smuoverà le acque e creerà scompiglio tra gerarchie e schieramenti. Abigail sarà disposta a tutto pur di entrare nelle grazie della sovrana.

Come d’abitudine, l’operazione cinematografica di Lanthimos parte laddove c’è un disagio, una malattia – del corpo e dell’anima – latente. L’instabilità della Regina Anna è il perno su cui ruota la storia, ciò che permette a due donne diversamente spietate di mettere in atto i loro piani.

Il potere è il tesoro di cui impossessarsi; l’impadronirsene, l’esercitarlo e l’ostentarlo sono, invece, le fasi di un gioco pericoloso che crea dipendenza e annebbia ogni sprazzo di lucidità. Ogni forma di umanità viene a mancare nel raggiungimento dei propri scopi, ogni sentimento viene artificiosamente messo a nudo come arma a doppio taglio, tanto da perdere ogni sua intrinseca valenza e diventare trascurabilmente irrilevante.

C’è un totale sovvertimento delle posizioni, così instabili e insignificanti ne La favorita. La realtà è una messa in scena di parole troppo dolci e accondiscendenti, o, all’estremo opposto, troppo franche e crudeli. Di gesti pudicamente esibiti, o di altri provocatoriamente celati. È un turbinio caotico di pensieri in libertà che lo spettatore, come la regina, si vede volteggiare attorno, mentre rimane inchiodato ad una sedia che è contemporaneamente la sua salvezza e la sua croce.

La finzione, invece, quella complice che vede protagoniste Lady Sarah a Anna nella loro intimità, gronda sincerità, affetto bonario e goffi buoni sentimenti. La medesima regola vale per ogni personaggio: nessuno ricopre veramente il ruolo impostogli dal rango sociale: ciascuno è compresso nelle vesti che il destino gli ha fatto indossare.

Questo permanente e permeante senso di scomodità scaturisce quindi in una prigionia metaforica o concreta. Le mura sono prigione, come sempre accade nei film di Lanthimos, da Kynodontas a Il sacrificio del cervo sacro. Ma lo sono anche le certezze edulcorate di essere dalla parte della ragione, nella fazione vincente di una guerra intestina che, in piccolo, in una miniatura di paese (la corte) popolato da fantocci presuntuosi, non vuole aver fine.

Claustrofobico, barocco, cupo; Lanthimos stipa, opprime e comprime lo sguardo dello spettatore, lo ubriaca e lo stordisce con i suoi zoom a schiaffo e lo angoscia con le sue tipiche musiche salienti, lancette sonore che scandiscono il tempo e le azioni. Non c’è tregua dall’asfissia del complotto e dal tanfo crescente e persistente degli abusi di potere.

Eppure, ogni inquadratura, ogni azione, ogni sgarbo, violenza – sempre meno velatamente mascherata – crea un bulimico e stridente desiderio di resistenza. La macchina da presa indugia su uno dei diciassette coniglietti della regina (ricordo dei dodici figli persi ancora prima di venire al mondo) che lotta per non soccombere sotto il peso del piede della favorita del momento, e poco dopo rimane fissa sul primo piano di un viso costretto alla sottomissione forzata.

Sono immagini che restano impresse sulla retina, che racchiudono l’autentica essenza cruenta di un film che con la sua stordente bellezza e macabra universalità punta in alto, al massimo, all’Oscar che quasi certamente non vincerà, ma che va a segnare un punto a favore di quel cinema europeo che fa storia, e che ancora nel 2019 sa smuovere ciò che sta sotto la superficie livida dell’apparenza.

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Benedetta Pallavidino nasce ad Alessandria nel 1992. Nel 2014 consegue la laurea triennale in lettere moderne con tesi in Storia e critica del cinema, nel marzo 2017 quella magistrale con tesi in Critica cinematografica. Nel 2015 vince il premio Adelio Ferrero per giovani critici nella sezione recensioni. Nel 2017 vince il Premio Franco La Polla e viene selezionata tra i finalisti del Premio Marco Valerio. Scrive di cinema e si occupa dell'organizzazione di eventi culturali ad Alessandria, dove vive.

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