La Fotografia di Luciano Ferrara, i Femminielli napoletani, i reportage e altre storie

Ufficio Stampa, Roma

Luciano Ferrara (Cimitile, Napoli, 1950) si avvicina prestissimo alla fotografia, intorno al 1964, iniziando a fare da assistente in uno studio fotografico partenopeo, a Piazza Cavour, che si occupava soprattutto di documentazioni di feste e matrimoni della tradizione locale; per cinque anni, qui apprende le tecniche della Fotografia e affina la sua capacità di stampa, che diventerà ineccepibile e raffinatissima. Racconta egli stesso, infatti, di quanto fosse fondamentale, per i fotografi e per la sposa, la resa del candore del vestito, la bellezza delle stoffe, tra raso, broccato e veli. Infatti, mi racconta:

“se  dopo lo sviluppo nella camera oscura non uscivano bene fuori la luminosità del bianco dell’abito, i particolari dei ricami, le stoffe i fotografi non pagavano il lavoro e ti tiravano in faccia le foto!”.

La sua Fotografia è espressa pienamente dagli anni ’70. Si concentra essenzialmente sulla cosiddetta marginalità ma capace di svelarne la sua globalità e l’umanità, sempre evitando la retorica e i preconcetti di qualsiasi tipo. Con questa sua attenzione critica ed etica sulla realtà, fonderà nel 1989, con Serena Santoro, la Nouvellepresse, prima agenzia fotogiornalistica del Sud Italia, che credo dovrebbe essere maggiormente riconosciuta per pionierismo.

Con una simile vocazione analitica e uno spirito movimentista che ama la condivisione e il confronto, e che non lo abbandonerà mai, aprirà a Napoli, nel 2013, con l’artista mosaicista Sofia Ferraioli, Tribunali138: studio, laboratorio, archivio e abitazione dove si incontrano grandi fotografi sia nazionali che internazionali, giovani, colleghi e personalità del mondo della creatività e della cultura. Lo spazio è un punto di riferimento in città e non solo, ed è costantemente attivissimo.

La Fotografia per Luciano Ferrara è intesa come una prova dei fatti e cuore dell’informazione; attiverà quindi collaborazioni importanti con grandi testate giornalistiche tra le quali “L’Espresso”, “il Mattino” e il “Corriere della Sera”. In questo contesto nasceranno esperienze formative e umane straordinarie. Mi racconta:

“oggi sarebbero impossibili da ripetere perché allora si frequentavano quotidianamente le redazioni e i giornalisti e c’era uno scambio continuo: tu davi un’idea, parlavi di un viaggio che volevi fare per documentare qualcosa di importante, il giornalista riceveva questo stimolo e decideva di scriverci su e quindi tu vendevi il servizio grazie a questa azione combinata e, talvolta, anche casuale; o, viceversa, sentivi che qualcuno avrebbe raccontato un determinato fatto e tu partivi per farci il fotoreportage che poi ti pubblicavano. C’era una circolarità di rapporti e conoscenza, una sinergia magnifica che oggi non è più possibile”

Il suo sguardo fotografico è asciutto ma capace di cogliere l’anima di ogni collettività e individualità immortalate: se, come scrisse Susan Sontag (in: Sulla fotografia: realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino, I ed. 1978) fotografare significa “appropriarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza, e quindi di potere.”, ebbene, di questo “potere” Luciano Ferrara fa a meno, con grande convinzione morale e quell’empatia che prova per i soggetti fotografati ai quali si avvicina senza mai sovrastarli.

Questa sua attitudine artistica e professionale si accorda perfettamente alla sua operatività politica di documentazione e controinformazione, confermata dal suo percorso lavorativo, dalle mostre, dalle collaborazioni, dalle prestigiose pubblicazioni, da amicizie basare su affinità elettive profonde (con Joseph Koudelka, ad esempio); ed è visibile non solo e non tanto sul suo durissimo reportage del terremoto del Friuli e sugli scenari delle tensioni mondiali e di guerra (Libano, Territori occupati, Guerra del Golfo), o di città come Parigi, Procida, e di realtà della Romania e dell’Albania, ma specialmente nei focus sulle lotte dei Disoccupati organizzati – di cui segue tutte le vicende, diventandone un po’ la voce per immagini –, così come in quelli sul proletariato e il sottoproletariato napoletano, negli anni Settanta; sui Comitati per la Pace a Comiso e sulla legge 180, su Secondigliano, negli anni Ottanta; sulle tante vite di strada; su Comiso; su Berlino, il muro e la caduta; sui primi movimenti no-global in Europa e la grande manifestazione di Praga; su Cuba nei primi anni Duemila…

Anche nel mondo dell’arte il nostro è attivissimo, parte di quel milieu culturale che vide Lucio Amelio come animatore operosissimo e non solo come gallerista; l’archivio analogico di Ferrara contiene anche tanti protagonisti di questo vivace ambiente: da Lucio Amelio, appunto, a Joseph Beuys, Andy Warhol, Keith Haring, Jean-Michel Basquiat, Helmut Newton, Achille Bonito Oliva, Graziella Lonardi Buontempo, Tatafiore, Nino Longobardi, Sergio Fermariello: moltissimi di questi ritratti hanno a che fare con Terrae Motus, progetto originato quando, a seguito del terribile terremoto a Napoli del novembre 1980, Amelio chiamò 66 artisti in una collezione-mostra con opere che avevano come tema proprio il terremoto. Ferrara fissa una serie di icone dell’Arte in momenti di spontaneità, presi nell’attimo perfetto del loro fare e dire e che rimarranno comunque nella Storia.

Tante foto costellano il lavoro di Luciano Ferrara che riesce sempre a restituire un punto di osservazione personalissimo e problematico sulla realtà, qualunque essa sia. Lo fa fotografando al San Carlo di Napoli, ci riesce seguendo Roberto De Simone o i danzatori del Living Theatre; in concerti (dei Rolling Stones, ad esempio); e ci riesce  anche attraverso una singola foto, che, come in questo caso, diventa mitica: è quella di Diego Armando Maradona. Il calciatore argentino del Napoli è fermato dal suo obiettivo mentre esce dall’area spogliatoi per entrare nello stadio San Paolo; è, quindi di spalle, avanzando sui gradini: Ferrara ne restituisce una originalissima prospettiva ribaltata, quasi una elevazione del personaggio mostrando, anche, l’attesa dei fotografi radunati davanti a lui per immortalarlo, quasi come un corale abbraccio e un omaggio allo sportivo-feticcio; ma il gladiatore, da quella posizione, di schiena, sembra anche una muta presenza fatta di solitudine… forse. La foto, bellissima,  in bianco e nero, del 5 luglio 1984, ha avuto la sua giusta notorietà solo dopo molti anni.
La sua attenzione su tutte le cose ma da altre angolazioni si è sempre manifestata:

“(…) Bisogna scegliere e già da giovane scelsi da che parte stare, ovvero le minoranze, che per me sono la base di tutta la democrazia”. 

Ciò è riscontrabile pure nel suo lavoro quasi trentennale sui femminielli napoletani, da cui  deriverà, per la regia di Nando Balestra, il programma per la RAI Napoli, città immaginaria e le cui immagini saranno selezionate per il  documentario Les Castrats, a cura di Carlos Allende, per Antenne Deux.

Luciano Ferrara ha immortalato i femminielli di via Toledo, del Rettifilo, della Sanità per anni; frequenta e fotografa queste persone che si consegnano con naturalezza alla sua macchina, rendendo palese quella partecipazione emotiva e quasi affettuosa scaturita tra l’operator e lo spectrum – per dirla alla Roland Barthes – in uno scambio lontano da ogni giudizio e anche dal sensazionalismo di certa comunicazione patinata.

Il termine napoletano femminiello ha una forte carica allusiva: è una parola al maschile ma rimanda all’universo femminile; si riferisce a una natura articolata, fluida, altra, che integra femminile e maschile, un fenomeno presente in molte culture e in quasi tutte le epoche storiche, ma che a Napoli ha assunto caratteristiche specifiche. Diversa è, per capirsi, la ricerca della grande Lisetta Carmi, una decana della fotografia, che dal 1965 immortalò a Genova – città con non poche similitudini con Napoli: il mare, una certa tolleranza, la multiculturalità, il cosmopolitismo, la forza penetrante dell’archetipico – i travestiti scoprendo l’emarginazione, la reprimenda sociale, le loro sofferenze. A Napoli Luciano Ferrara restituisce, una decina di anni dopo, circa, tutt’altra narrazione.

Gli anni Ottanta marcano l’intensificarsi di confronti sulle questioni sessuali e dell’identità non etichettabile anche grazie a casi quali il Glam Rock degli anni Settanta, a letture evolute e al recupero di tesi quali, ad esempio, quelle di Joan Riviere in Womanlinessas a masquerade. Il saggio, che propone l’accettabilità culturale dell’identità di genere, pubblicato nel lontano 1929, torna inaspettatamente ad essere cult, passando di mano in mano tra i giovani e gli studiosi come testo rivoluzionario sull’argomento. Non è un caso che gli anni dell’edonismo reaganiano siano anche, però, quelli della New Wave e di tante estetiche camaleontiche.

Inoltre, nel 1982 esce, edito da Azienda Autonoma Pozzuoli, il volume di Roberto De Simone, Il Segno Di Virgilio che sarà una rivelazione a Napoli e per Luciano Ferrara, che vi trova riferimenti primigeni di queste figure doppie, richiamate anche da Virgilio, appunto, e con aspetti di sacralità rituale. Forse non è un caso nemmeno che le celebrazioni dai Gallae, i sacerdoti evirati e travestiti della Grande Madre Cibele, la cui adorazione era propagata nell’area flegrea a nord di Napoli e nel territorio capuano, accavallandosi al culto della Matres Matutae, del femminile originario, mescolandosi storicamente, si incontrino a loro modo nella Candelora al Santuario mariano di Montevergine (in provincia di Avellino), dove religione e folklore si uniscono nella spettacolare ‘a Juta dei Femminielli. Il mistero antico partenopeo accorpa anche la figliata dei femminielli che Curzio Malaparte, nel suo libro La Pelle tratta ricordando quanto sia eterno questo rito, rivisto in Napoli velata di Ferzan Özpetek e introdotto, nella narrazione filmica, da Peppe Barra. Insomma, i femminielli portano in sé liturgia e carnalità contaminata, per poi tornare nell’ordinarietà dei vicoli, che Luciano Ferrara conosce e pratica, e in cui queste anime belle sono integrate in quanto parte di quell’economia e quotidianità solidale e virtuosa che contribuiscono a sostenere.

Sono baby-sitter, stiratrici, confidenti, amiche, amanti pazienti, mangiano e vivono lì, negli strati popolari della Napoli di fine anni Settanta e dei pieni anni Ottanta e Novanta e che, cambiato il contesto sociale più autenticamente popolare, muterà: anche per loro, soprattutto negli anni Duemila, tanto quanto cambierà la loro stessa  figura e funzione sociale. Sarà a quel punto che Ferrara lascerà questa indagine: che quando egli l’ha portata allo scoperto, ha restituito i femminielli come prole di quella particolare tradizione verace richiamata persino dal sommo Virgilio. Antropologicamente parte di quella terra.

Ferrara li ha seguiti sulla strada; nella vestizione e trasmutazione, così intima e fondamentale; nella dimensione ludica, compreso un celebre concorso di bellezza per Miss Trans e nella teatralità di qualche performance improvvisata sulle scale di un palazzo abbandonato…; ma anche in una realtà più privata e normale: qualche matrimonio, le chiacchiere nei bassi, la cena o il pranzo preparato, tra gli scugnizzi, e durante il rientro dal lavoro a sera tarda…

Maschile e Femminile dunque: simbolicamente riuniti in un messaggio di amore che, se ha una precisa geografia, è però senza tempo.

Tutto questo è stato riassunto da Ferrara in tantissime, magnifiche foto in bianco e nero di un’autenticità sconcertante, di una profonda bellezza che materializza un dualismo esemplare. Non solo: Ferrara produrrà altre foto – vere e proprie opere d’arte – attraverso un escamotage tutto interno al linguaggio dell’Arte.

Sottopone alcune di quelle immagini fotografiche vintage a decise cesure, sezionandole, quasi chirurgicamente, in alcune parti che poi riunisce, assemblandole a creare un’apparenza di racconto e a una parvenza di integrità visiva. Sottintende, in questo modo, e sottolinea, un unicum ma allo stesso tempo “una cosa doppia”, “quod duplex”, soprattutto “res bis” / “due volte”,  e un processo di trasfigurazione identitaria possibile, di modificazione del corpo, esteriore e interiore dei soggetti fotografati, nonché, in ultima analisi, un’adesione – sempre empatica – al concetto e al diritto di libertà di genere che sovrappone magnificamente forma e contenuto, etica ed estetica. Nell’arte come nella vita.

 

  • Una mostra di Luciano Ferrara titolata “Resbis. Il dualismo dei Femminielli“è in corso sino al 19 gennaio 2019 da Howtan Space, Via dell’Arco de’ Ginnasi, 5 – 00186 – Roma Da martedì a venerdì ore 12:00 – 19:00; sabato e domenica: ore 16:30 – 19:30; lunedì chiuso, e chiuso il 24/25/31 dicembre 2018 e il 1 gennaio 2019. La mostra è comunque visitabile fino alle 23:30 tutti i giorni escluso il lunedì accedendo da HLab il cocktail bar della galleria.
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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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