L’Uomo che visse due volte. Andrea Amaducci, Human-Alien

immagine per Andrea Amaducci
Andrea Amaducci - ph. Giulia Nascimbeni

Forse non proprio alieno ma indubbiamente eclettico: è musicista, grafico, attore, pittore, formatore, ginnasta, danzatore, performer, una continua scoperta, un uomo vulcanico e delicato.
Andrea Amaducci (Forlì, 1978), ci accoglie a luci abbassate, dopo l’orario di chiusura, quando le anime, le tensioni, le energie che popolano la galleria Cloister di Ferrara, si sono un po’ stemperate.

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Andrea Amaducci – ph. Giulia Nascimbeni

In questo spazio, per tutto il mese di dicembre, Amaducci è riuscito a tenere insieme la sua mostra-saluto alla città, Degrado 4 all e una serie di eventi, che si sono autogenerati di giorno in giorno integrandosi al sunto delle sue attività.

Curata da Penzo+Fiore (“li ringrazio moltissimo per la fiducia e la libertà che mi hanno concesso”) la mostra è stata un contenitore di opere, ricordi, promesse, riflessioni, ma soprattutto l’occasione per l’artista romagnolo di tirare le somme del suo vivere nella città estense, alla quale sente di aver dato il succo del proprio lavoro e del proprio essere, attraverso “una costante analisi dei fenomeni che porta alla distillazione di una prassi, capace di aderire perfettamente al paesaggio che la contiene”, scrivono i curatori.

A legare le ultime opere prodotte e dare il titolo alla performance alla quale abbiamo assistito (e ora nel video di Alejandro Ventura) è il Sale, ciò che rimane dopo il sudore, “simbolo storico di ricchezza ed elemento di primaria importanza”, proseguono Penzo+Fiore, estratto, raccolto e re-impastato con il colore per dipingere la versione più recente dell’alter ego, l’Alieno, in veste di monaco Shaolin (“custode della sua comunità di appartenenza, opera rinunce continue che non dà a vedere, mantenendo invece agli occhi del mondo il suo costante, implacabile desiderio di crederci”) vigile osservatore dei luoghi più noti e riconoscibili della città.

Ma andiamo con ordine. Partiamo dall’inizio di questa storia, che per quanto è articolata, sembra vissuta da un uomo di età almeno doppia rispetto a quella di Andrea…

Andrea Amaducci, romagnolo di Forlì, trapiantato a Ferrara dopo anni trascorsi in giro per il mondo… ma la tua carriera inizia come atleta, anzi come acrobata

“Ho una formazione tecnica che viene dalla ginnastica artistica, con un passaggio per il calcio, come tutti i ragazzini. Questo fuori casa. In casa, invece, sono cresciuto nell’humus performativo, tipico romagnolo, del ristorante di famiglia, a San Martino in Strada, alle porte di Forlì. Ero una sorta di mascotte, spesso spudoratamente utilizzato da mio padre per intrattenere gli ospiti.”

Questo da che età?

“A due anni facevo già la verticale a parete. Una volta tra i clienti c’era un gruppo di turisti giapponesi. Finito il pranzo erano in attesa che un auto passasse a prenderli, ma diluviava e i tempi si stavano allungando. Allora mio padre mi dà 5 mila lire, mi dice di mettermi in mutande (era agosto) e di fare un paio di giri attorno a casa. Non me lo sono fatto ripetere, ho cominciato a correre e ogni volta che sbucavo dall’angolo di casa e passavo davanti ai giapponesi, questi ridevano come pazzi… avevo 5 anni!!”

Sembrano situazioni formative, cariche di emozioni e soprattutto affettivamente molto calde

“Certo e ne sono molto grato! Quando si è piccoli si cerca di assecondare il volere della famiglia, nel bene e nel male. Da adulto, con gli strumenti che il mio mestiere mi fornisce, riesco a destrutturare gli “eventi”, ad analizzarli performativamente e li definisco nella loro interezza come veri e propri spettacoli.”

Completi nella scelta dei tempi, nel contesto…

“…davvero perfetti. Da bambino non puoi fallire, inoltre me lo stava chiedendo mio padre, ero tranquillo, tutelato, sicuro… ripensarci mi emoziona ancora molto.”

Quindi la partenza è stata questa, positiva, senza forzature?

“Nessuna, anzi, io ero molto contento!! Al ristorante della mia famiglia vigeva the real chilometro zero, ognuno aveva un proprio compito e tutti collaboravano, compresi i bambini: lo zio andava a caccia per procurare la selvaggina, mio padre era un cercatore di tartufo, il lavoro era sdoganato come gioco e non mi ha mai pesato… la semina, la raccolta delle uova, la cura degli animali.
Ritengo di avere avuto una grande fortuna, tutto è stato una continua serie di avventure divertenti che restituivano la giusta misura delle cose, non era contemplato il fanatismo, solo il rispetto. Adesso che ho raggiunto la quarta decade, posso davvero riconoscere appieno il valore di tutto ciò.”

Si percepiscono il calore e lo sguardo che le persone a te vicine ti hanno dedicato e probabilmente tu hai ereditato questa capacità di guardare ciò che ti sta attorno e trasformarlo in modo giocoso, apparentemente leggero

“Questo apparentemente leggero mi fa stare proprio bene… io cerco di mettermi negli occhi di tutti, anche da un punto di vista generazionale. Cerco il confronto, di arrivare alle diverse interpretazioni di una stessa situazione, di veicolare i miei messaggi in modo efficace e mi piace lasciare la libertà e l’apertura a letture personali.”

Le tue opere sono intrise di momenti performativi, riesci a coniugare varie forme espressive. Nello scorso febbraio a Punta della Dogana a Venezia, con Collettivo Cinetico, hai accompagnato con il gesto grafico il gruppo di danza. Quando hai cominciato a disegnare?

“L’inizio, si diceva, è stato come inconsapevole performer a casa e mio padre, con un’intelligente e generosa intuizione, ha incanalato e dato forma alla mia energia iscrivendomi a ginnastica artistica. Decisione piuttosto fuori dalla norma, in quel contesto, ma che rispettava la mia naturale propensione per l’espressione corporea.

Poi è seguito lo studio e il lavoro dal 1998 con il Teatro Nucleo (fondato nel 1974 a Buenos Aires da Cora Herrendorf e Horacio Czertok e stabilitosi poi a Ferrara nel 1978) e dal 2007 con Collettivo Cinetico Performing Arts (una cinquantina di artisti diretti da Francesca Pennini in collaborazione con Angelo Pedroni).

Come molti ragazzini, inoltre, mi piaceva disegnare e mio fratello a 15 anni mi ha regalato una tela così ho potuto misurarmi con la dimensione del quadro. La passione per il disegno mi ha portato, in seguito, al personaggio dell’Alieno…

…che ti accompagna da tempo e ha anche avuto una sorta di evoluzione

“Nasce dalla scarnificazione seguita alla saturazione di un lavoro su volti, da ritratti. Frutto dell’inconscio, ricorda alcuni puppet della street art (spesso vengo definito street artist, ma in realtà la strada è il luogo, fino a poco tempo fa molto democratico ora meno, dove sento di poter esprimere spontaneamente le mie parti bohemienne, con una fascinazione un po’ adolescenziale), ha preso forma in una decina di tele dal 2003 al 2005: prima era bidimensionale, con un occhio solo, grande, la bocca prima piccola poi grande, poi si è girato, ha acquisito spessore e ha rivolto lo sguardo allo spettatore.”

Dalla tela, l’Alieno è passato anche per la produzione cinematografica con “Il sogno dell’Alieno”, un progetto per Sky Cinema realizzato tra il 2012 e il 2013 con il regista Alberto D’Onofrio e un collettivo artistico composto da te, la tua compagna Maria Ziosi, Matteo Camozzi e Paola Roberti.
Vi siete inseriti in manifestazioni politiche, comizi preelettorali e creando molta confusione, mescolando realtà e finzione, avete acquisito via via una tale fama da capovolgere completamente il contesto: da disturbatori e provocatori spesso allontanati per evitare situazioni imbarazzanti, siete diventati un possibile canale per agganciare una fascia di popolazione altrimenti non raggiungibile, un potenziale bacino di raccolta voti.

“…è stato stranissimo… per la prima volta ho sentito che mi stava sfuggendo di mano il controllo…ma lo rifarei adesso, cercando di essere ancora più impegnato come autore. Nelle attuali circostanze il valore sarebbe raddoppiato.”

Cosa ti è rimasto, del Sogno?

“La consapevolezza dell’esistenza di gap performativi, della differenza che intercorre tra il progetto e la realizzazione dello stesso. Del Sogno non ero l’autore, anche se ho messo molti contenuti e molte idee: ho voluto crearmi una piccola cellula familiare con Maria e Matteo, per una sorta di difesa da un meccanismo che ho sempre considerato the evil empire ovvero la televisione.

L’ho affrontato soprattutto per curiosità, ma è stato necessario fare i conti con una realtà molto distante da me, con una megaproduzione caratterizzata da tempi folli, confrontandomi con le dinamiche elettorali e di potere.

Sono stato testimone, nei corridoi, nei dietro le quinte, di situazioni incredibili, riuscendo ad arrivare dove mai avrei immaginato perché per il mondo della politica noi rappresentavamo il tramite con persone con le quali difficilmente entravano in contatto quindi avevamo libero accesso. Il risultato era sempre imprevedibile, anche per noi, dunque un’occasione formativa e professionale estremamente interessante.

Per undici anni sei stato formatore in carcere con un progetto di Teatro Nucleo, una sfida di non facile gestione

“Sì, ma la condizione è molto più critica per i detenuti, per chi deve rimanere dentro. In carcere mancano innanzitutto la dimensione privata e l’energia femminile ma, essendo un luogo di crisi, il potenziale creativo è esplosivo.

Horacio Czertok mi ha offerto l’opportunità di condurre laboratori seguendo, in grande libertà, un tema assegnato da lui, poi su quello si costruiva una base di percussioni con funzione di collante per le espressività che fluivano. Il suono possiede enormi valenze comunicative. Le culture orientali, al limite tra religione e filosofia, sono permeate da suoni e da risonanze, perché questi sono più potenti delle parole.

Una volta che mia madre era ricoverata nel periodo natalizio, l’ho accompagnata alla messa dell’ospedale. Mi guardavo intorno, l’atmosfera era di tale passività con le litanie recitate in tono monocorde, da sembrare più un’istallazione che un gruppo di persone riunite per il rito, allora ho risposto alla richiesta di leggere un brano per l’assemblea.

Essendo il mio mestiere e per risvegliare l’interesse degli astanti, ho aggiunto enfasi e pathos, impersonavo i protagonisti della lettura interpretando le loro voci.

Alla fine non è scattato l’applauso perché eravamo in chiesa, ma l’indomani le suore sono andate da mia madre a chiederle la mia disponibilità per tornare alle successive funzioni! Il suono ha fatto la differenza, ha un’importanza basilare, è la parte arcaica e profonda che scorgo per esempio in Maria quando sta con il nostro bimbo.”

Il tuo lavoro di educatore traspare, riemerge… alla mostra Degrado 4 all si sono visti spesso gruppi di ragazzini che arrivavano in modo estemporaneo per fare la base musicale

“Sono meravigliosi. Gruppetti di sedicenni che vanno spontaneamente a una mostra e partecipano attivamente… è importante ascoltarli e lasciare che le cose fluiscano, essere figure con forte attrattiva e dare loro concrete e ben definite responsabilità. Spesso dico loro che hanno un dono grandioso, la loro attività neuronale, nemmeno lontanamente paragonabile a quella degli adulti… a quel punto mi sentono alleato, si rispecchiano, comprendono il valore delle loro potenzialità.

Hanno bisogno di farsi gli anticorpi alla vita e ogni epoca ha i propri. Alla loro età, senza i supporti che esistono ora, ero costretto a lunghe e complicate ricerche per ottenere i materiali utili per studiare e approfondire gli argomenti che m’interessavano. Ci si doveva spostare, creare contatti e questo apriva alla vita. Salendo su un treno per andare alla biblioteca di un’altra città mettevi in conto dei rischi, potevi farti male o innamorarti.

Ora invece c’è, tra le altre cose, una sovraesposizione alle immagini, quindi è arduo produrne di nuove, è più difficile immaginare. Inoltre, prendendo spunto da un’opera che è stata fondamentale per la mostra, la poltrona realizzata in simil panette di droga, The Armchair I Love, ho potuto affrontare il tema del vero degrado: qualcuno si è un po’ scandalizzato, allora l’ho invitato ad affacciarsi dalla grande vetrata per vedere la realtà di una città che, pur sommerso e mascherato dalla buona educazione, ha questo problema in misura peggiore di quando ero adolescente io.

Ora per ragioni complesse, girano sostanze davvero pericolose, il cui effetto pare essere quello di prendere distanza da un mondo che non si ha la forza e il coraggio di cambiare: il rischio per i ragazzi di adesso è maggiore. Il degrado è di natura varia, come recita il titolo e chiariscono bene i curatori:

 “è necessario capire cosa si possa intendere per deterioramento: lo sporco che si annida in una via del centro, la presenza d’immigrati, quella di soggetti socialmente emarginati? O la perdita d’integrità morale, l’incapacità di essere ancora umani e di valutare il mondo attraverso categorie più sostanziali? Questa presa di coscienza riuscirebbe a portare verso un’idea di rinascita, di ripresa, di recupero? L’agire dell’artista è proprio il tentativo di dare forma a questa riappropriazione”.

Quindi la mostra è stata davvero un saluto?

“Sí, un bilancio, un messaggio, un saluto e sapevo che questo momento sarebbe arrivato. Ora ho bisogno di stimoli, di riprendere un po’ la vita di quando viaggiavo con la compagnia. Ho alcuni programmi che mi porteranno anche all’estero, inoltre spero presto di riprendere il lavoro sulla musica che editiamo con la nostra etichetta (Hell Yeah Recordings), altra grande opportunità perché mi ha consentito di fare le copertine dei dischi degli idoli della mia adolescenza e questo mi entusiasma tantissimo!”

Allora azzardiamo il bilancio prima di salutarci?

“I ragazzini per me sono importanti, se vengono loro va bene, significa che ho creato uno spazio intergenerazionale, lavorando in modo onesto, pulito, serio. Ma la mia maggiore certezza resta che non mi finiranno mai le idee.”

Info:

Andrea Amaducci sarà presente ad Art City White Night con Collettivo Cinetico e il fotografo Daniele Zappi nello spazio di “Bam Strategie Culturali” in via Marconi 45 il 2 febbraio dalle ore 18:00 in poi.  Si può seguire l’hashtag #kiltyourself

È possibile rivedere la performance Sale nel video di Alejandro Ventura al link https://www.youtube.com/watch?v=NngIQh3GTaU e tenersi informati sulle attività dell’artista  su  http://andreaamaducci.blogspot.com/ e su https://www.instagram.com/mr.andrea.amaducci

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Andrea Amaducci – autoritratto
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Vive a Bologna, dove lavora come logopedista al Servizio di Neuropsichiatria Infantile occupandosi prevalentemente di disturbi della comunicazione, del linguaggio e dell'apprendimento, è appassionata da sempre di Arte, in qualunque forma si presenti. Da alcuni anni ha iniziato un percorso nel campo della fotografia

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