Ten Thousand Names. Arash Radpour e il femminino archetipico dai diecimila nomi

Tutto è partito da un ricordo, quello di un film, e dall’amore del e per il mondo delle donne, iniziando da quello della sua famiglia.
Così racconta Arash Radpour, a proposito di Ten Thousand Names, un complesso lavoro che trova un suo compimento negli spazi luminosi della DafNa di Napoli.

Arash, che attualmente vive a Napoli ma nasce a Teheran (1976) e si è formato a Roma, dove si è trasferito da piccolino con la famiglia, diplomandosi all’Istituto Cine-tv Roberto Rossellini in fotografia, campo in cui eccelle e si è affermato, si esprime prevalentemente proprio con il mezzo fotografico: sino al nascere di una nuova esigenza.

Ha, infatti, sentito la necessità di ampliare la propria grammatica visiva e in questa personale, dove ha portato due anni di lavoro sul tema del femminile e dell’archetipo connesso, si è cimentato con il disegno e la tridimensionalità.

Disegni in tecnica mista, dal tratto sicuro, raffigurano uteri e trombe di Falloppio in cui il rosso domina: acquerellato, schizzato, gocciolato, denso o più velato, richiama simbologie afferenti alla Grande Madre, dai tanti nomi attribuitigli per definirla, e nessuno compiutamente perfetto per riconsegnarla nella  sua pienezza e grandezza.

Ci prova Arash, e indica anche ulteriori retaggi storico-archeologici, mitologici, nella similitudine tra quella forma anatomica e il bucranio, anch’esso dall’elevato significato generativo. C’è un sorprendente parallelismo fra archetipi: del Toro, emblema di rinascita – inteso come virile, è in verità anche segno femminile, legato alla terra e all’accoglienza – e della Dea Madre, personificazione dell’inizio del tutto.

Arash affianca alla bidimensionalità di quelle sue carte una magnifica fotografia, anch’essa con dominanti cromatiche carminio: un volto statuario, azzerato nei lineamenti dall’enorme immagine di un buco centrale, quasi un cratere, un passaggio tra interno ed esterno, forse, tra mondo sensibile e mondo originario.

Altre opere, piccole, allestite in serie, rosso lacca, sono conformate come formelle con rigonfiamenti che alludono al ventre gravido.

Infine lei: un grande apparato femminile ricostruito pezzettino per pezzettino con tanti vetri, pure rossi, lucidi, appesi uno per uno, meticolosamente, al soffitto da tanti fili trasparenti a comporre e ricostruire la forma di un monumentale utero, percepibile solo da una certa distanza, quando tutti gli elementi sono guardati in prospettiva.

Questi manufatti, sospesi, appena dondolanti al passaggio dei fruitori o quando uno spiffero muove l’aria, creano un effetto sorprendente e dal frammento, dal particolare, giungono all’interezza, all’universale. Signore e Signori, ecco a voi: la Donna. Che anche in questo caso, richiama al contempo un’immagine taurina; ma anche una croce, eco di tragedia e sofferenza, quella tragedia epica e quella sofferenza a cui l’hanno condannata secoli di storia al maschile e  parabole, e scritture religiose (“moltiplicherò grandemente le tue sofferenze e le tue gravidanze; con doglie partorirai figli: i tuoi desideri si volgeranno verso il tuo marito, ed egli dominerà su di te”), da cui l’arte, e Arash, finalmente sembra liberarla.

Tanto rosso e, si diceva, un legame al ricordo di un film, quasi onirico: Sussurri e grida (Viskningar och rop) scritto e diretto da Ingmar Bergman; è del 1972, Arash lo vide che era un ragazzino, e l’uso di tutto quel paradigmatico rosso, emotivo, lirico – grazie anche alla magnifica  fotografia di Sven Nykvist è – a richiamare il dolore, e il femminile, lo colpì talmente tanto che tutto è ritornato in qualche modo oggi, in questa sua nuova ricerca.

Questa si collega a narrazioni ancestrali, di cui tra l’altro il territorio campano è pienissimo, affollato di radici e tradizioni spirituali e pagane al tempo stesso, tutte rivolte al culto muliebre: la Grande Madre di uomini e Dei, Cibele, la cui adorazione era propagata nell’area flegrea a nord di Napoli e nel territorio capuano – per tacer di Montevergine, cantata anche da Virgilio, dove i significati si  declinano diversamente e vanno verso la figura doppia dei femminielli –, accavallata al culto della Matres Matutae, del femminile originario; Demetra-Cerere, connessa alla fertilità della terra soprattutto nell’attuale zona di San Gregorio Armeno; la Dea Iside, dove oggi c’è Sant’Angelo a Nilo; Parthenope, la cui venerazione risale alla Polis greca dei cumani, rifondata non a caso come Neapolis.

Un genere, quindi, lontano anni luce dall’essere secondo, costola dell’Uomo: lo indica chiaramente Arash Radpour, in tutta la sua stratificata, contaminata raffigurazione, raffinata, colta e profondissima.

Ed è questo che ha affascinato Anna Fresa –  con Danilo Ambrosino al timone di DafNa con la quale ho a lungo parlato a proposito di questa scelta espositiva che, ha sottolineato:

 “richiama tutto ciò che di archetipico possiamo rinvenire nel femminile, un tema affrontato da Arash in modo convincente e mai banale. Una scelta che abbiamo accompagnato passo dopo passo fino a questo risultato in galleria”.

Il risultato di chi, quindi, conosce bene l’animo femminile e le lotte affrontate nella storia, nelle culture, nelle religioni, nella geografia, per affrancarsi dalla prevaricazione del potere: maschile.

Oggi questo tema, pur trattato qui in modo lontano dalla cronaca e dalla politica – ma tutto è politica! – appare  perfettamente calato nelle urgenze del contemporaneo e nel linguaggio dell’arte. Con una genesi e uno sviluppo che Arash ha a lungo decantato.

Lo confida lui stesso:

Avevo pensato inizialmente a realizzare una performance da fare nei boschi, nei pressi di Cuma. L’incontro con un oracolo… L’utero composto di frammenti di vetro era pensato come installazione scenografica che precedeva un convegno con questa Sibilla: simboleggiava l’ingresso nelle viscere della Madre Terra.

Mano a mano che l’idea si sviluppava nella mia testa, ho eliminato la parte più teatrale del progetto, ho tenuto il simbolo e sono ripartito da lì. Come se fosse una crocifissione pagana, invece di celebrare una passione di sacrificio dogmatica, promossa dalla cultura cristiana nel corso di fin troppo tempo, con un uomo sulla croce che si immola per la causa umana versando il proprio sangue, ho voluto invece porre l’attenzione sul fenomeno reale, per questo non meno sacro, del ciclo morte-sacrificio del sangue-rigenerazione/resurrezione, che avviene all’interno dell’organismo femminile fertile.

Mentre sul dogma di stampo maschile è stata eretta una chiesa, la realtà femminile è stata relegata ai margini del pensiero culturale, forse anche intenzionalmente. Invece di essere celebrato universalmente come vero miracolo della natura, il ciclo della donna è vissuto come affare che riguarda solo lei e non la specie umana, e se vogliamo di tutti i mammiferi; la disponibilità, spesso sofferta, e che non è mai una scelta, di accogliere dentro di sé la responsabilità della successione della specie e tutto ciò che di Sacro questo rappresenta.

Ecco: io vedo un legame anche con la dovuta responsabilità dell’artista nell’essere fertile per la cultura del proprio territorio e del proprio tempo.

Una, nessuna e diecimila, dunque, per palesare la vastità di un’entità  libera dove alberga e si ripara l’universale.

Info mostra

  • Arash Radpour, Ten Thousand Names
  • in collaborazione con Carla Travierso
  • sino al 14 maggio 2019
  • DafNa Home Gallery, Via Santa Teresa degli Scalzi, 76, Napoli
  • dal martedì al venerdì 10.00 – 19.00 Sabato su appuntamento
  • Contatti: 339 267 9018
+ ARTICOLI

Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.