Ulay. L’estetica senza etica è cosmetica

Tristissima, ferale la notizia della scomparsa di Ulay (Frank Uwe Laysiepen: Solingen, 30 novembre 1943 – Lubiana, 2 marzo 2020), artista, fotografo e docente tedesco, una delle figure chiave della Performance Art degli anni ’70 e tra i più radicali, e con Marina Abramović (Belgrado, 1946) parte di un fecondissimo e lungo binomio sperimentale performativo e della Body Art in un’intesa artistica straordinaria (oltre che di coppia, pur travagliata).

Insieme, mostrarono, attraverso azioni spesso estreme e provocatorie, i limiti del corpo e delle relazioni umane, delle possibilità del cambiamento fisico e psicologico personale, di coppia e collettivo, sondando la stessa arte e le sue contraddizioni e, in questo senso, chiamando il pubblico a un atto di responsabilità interagendo con l’opera e l’artista, abbandonando il suo ruolo passivo, in cui era sino ad allora stato relegato, in favore di una sua partecipazione.

Come quando invitavano/costringevano i visitatori a toccare inevitabilmente i loro corpi per riuscire a entrare nella Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna della quale avevano ostruito il passaggio posizionandosi a guisa di… porte umane, l’uno di fronte all’altro nudi  (Imponderabilia,.2 giugno 1977).

 

I due si conobbero ad Amsterdam nel 1976 e il sodalizio durò dodici anni, alla fine del quale The Other – come si facevano chiamare – si lasciarono con una performance – The Great Wall: Lovers at the Brink, 1988, documentata dall BBC – dura, faticosa, commovente e silenziosa; commovente e silenziosa, diversamente, e a sorpresa (fore), come la magnifica riunione durante il progetto performativo al MoMa di New York nella grande mostra della Abramović (The Artist is Present, 2010) e ratificata in uno passaggio successivo, durante una conferenza per la retrospettiva dell’artista serba al Louisiana Museum of Modern Art in Danimarca, poi diventato una doppia videointervista intitolata The Story of Marina Abramovic & Ulay a cura di  Christian Lund, del Louisiana Channel.

Pur se la tenerezza, bellezza e importanza di questo riavvicinamento ha accolto purtroppo anche polemiche e poi tensioni tra loro di carattere artistico/legale, resta il grande contributo, come coppia, dato alla Storia dell’Arte, che hanno continuato ad accrescere separatamente, ognuno da par suo.

Dal 2009 Ulay combatteva una battaglia contro il cancro che non ha fermato del tutto il suo lavoro e la sua arte, sempre restata fedele al suo motto:

“L’estetica senza etica è cosmetica”.

Poi la fine, a 76 anni e un grande regalo: un bagaglio di opere e di concetti da cui attingere sempre e per sempre.

Rimasto orfano precocemente, il padre era un soldato nazista e Ulay ha quindi vissuto la propria biografia e nazionalità molto dolorosamente e conflittualmente, arrivando a lasciare la Germania e il suo stesso nome – Frank Uwe Laysiepen – in favore della nuova identità come Ulay.

Lascia la moglie e un figlio piccolo e si trasferisce ad Amsterdam, si unisce al movimento creativo Provo d’ispirazione anarchica, studia a Colonia e porta avanti una peculiare ricerca analizzando questioni legate alle rivendicazioni per i pari diritti e a analisi relative all’identità sessuale, anche gender e fluida, in azioni performative – e polaroid – in cui si traveste palesando una divisione equa tra generi, metà uomo, metà donna, forse anche per ricordare e denunciare le persecuzioni naziste nei confronti della dichiarata omosessualità ma pure – in qualche forma e maniera – non potendo non portare qualcosa della cesura del suo paese funestato da un muro e da una frattura in due – appunto – tra la popolazione, tra le stesse famiglie tedesche e, insomma, nell’animo di tanti cittadini.

Prima dell’incontro con la Abramović, già stava portando avanti una sua sperimentazione sulle possibilità del corpo, sulla sua resistenza, i suoi limiti fisici e sul dolore.

Dopo la relazione e le creazioni con l’Abramović, torna a lavorare da solo riprendendo ad esplorare, con la sua tipica radicalità, ed essenzialmente con la fotografia e delle messe in scena performatiche, i temi dell’emarginazione e del nazionalismo, quest’ultimo sentito e vissuto sulla propria pelle di tedesco con un senso di colpa per il padre nazista e cresciuto in un Paese diviso a metà.

Con la malattia torna urgente l’osservazione sul corpo e sul dolore: ne deriva un intenso, toccante viaggio nei luoghi della sua storia, con incontri, le cure oncologiche, i ricordi e la narrazione sulla sua carriera e pensieri sull’esistenza in questa che, da occasione per interrogarsi  sulla sua vita e sulla sua arte, sull’amore, sulla caducità e sul mondo, è progetto artistico che diventa un documentario, Ulay performing life (titolo originale: Project Cancer), diretto da Damjan Kozole con le prime riprese nel novembre 2011 e l’uscita  nel 2013.

Precedentemente, il suo interesse per l’ambiente, e con una ricettività non lontana da quella di Beuys, si orienta su un progetto multimediale straordinario che si concentra sull’acqua, considerata elemento-base della vita, oltre che originario; “dai ghiacciai, alle nuvole, fino alle bottiglie di minerale”, egli fa risaltare l’importanza e la bellezza dell’acqua in ogni sua forma, ponendo il dito sull’emergenza climatica e delle risorse idriche sempre più drammaticamente a rischio.

Iniziato nel 2005,  questo ramificato, ambizioso lavoro culmina nel 2012 in Earth Water Catalogue, un database online che raccoglie contributi di tanti artisti con una comune attenzione per il tema e il soggetto acqua.

Il progetto, ciò e chi lo ha mosso, la sua sensibilità, probabilmente tutto il suo lungo lavoro e la sua investigazione sarebbero sicuramente piaciuti anche all’amato Joseph Beuys con cui possiamo dire che Ulay condividesse una pionieristica radicalità e un’apertura artistica, intellettuale e affettiva alla vita, con lo sguardo spalancato verso il futuro alla cui costruzione virtuosa ha cercato di dare il suo contributo.

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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