Restanza. Fra moto interiore e lotta sociale la parola che guida il Festival dell’Erranza

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Il fascino della parola partenza s’attarda, nelle narrazioni contemporanee, sul trascorrere dei flussi del viaggiare, dell’andare, dello scoprire. Flussi turistici, letterari, cinematografici. Partenze verso vite diverse, nuove, immaginarie. Partenze verso paesi sconosciuti, dal richiamo spesso esotico; il più delle volte partenze verso un luogo in cui non ci sarà dato di restare per più di un tempo stabilito.
Oppure, partenza assume un significato doloroso, scuro, struggente. Quello dell’allontanamento, della migrazione, dell’abbandono. Luoghi, radici, affetti, amore. Pietre, finestre chiuse, sentieri lasciati alle spalle.
Ma, qualunque sia la lettura del lemma, “partenza” possiede un contrario che non è “arrivo” come dicono tutti i dizionari. Anzi, più che un contrario è una parola quasi complementare, come potremo scoprire a Piedimonte Matese, per la X Edizione del beneamato (e importante) Festival dell’Erranza dove si parlerà, infatti, di partenza e di restanza.

Restanza è una parola ancora più affascinante e profetica; una parola recente, un neologismo – a quanto pare  coniato dal Censis – che nelle situazioni sociali drammatiche, rappresenterebbe ciò che regge all’urto del cambiamento. Ciò che esprime la linea di forza su cui stare, per non essere sopraffatti. [cit. Mons. Pompili – Agenda della Chiesa Italiana 2013].

Restanza è un moto interiore, ma anche una lotta sociale, non a caso è estremamente legata alle problematiche delle devastazioni ambientali, delle emigrazioni, della delusione politica, dell’assenza delle istituzioni centrali, della mancata cura dei luoghi fragili, della negazione della complessità di ciascun aggregato sociale, culturale ed economico.

Si parte perché qualcosa ha fatto sì che venisse a mancare tutto. Si resta perché ci si vuole predisporre a essere più forti dei terremoti, più resistenti delle frane; perché si appartiene a quel territorio, per le proprie radici, perché si è stufi dell’assistenzialismo (sempre infinitamente parziale), per provare ad affermare che ci sono alternative alla gestione dei territori portata avanti sempre in nome del profitto di alcuni e ingannando gli altri con speranze ventilate, narrazioni insensate, bisogni creati.

Esempi di territori distrutti e disgregati dagli eventi “naturali” ce ne sono a centinaia in Italia. E non parliamo soltanto dei paesi annientati dai sismi, ma anche quelli assaltati da superstrade o altre infrastrutture che, in realtà, non hanno cambiato e non cambiano nulla alla vita quotidiana.

E se un tempo l’emigrazione, la dissoluzione del mondo contadino, la trasformazione economica di un Paese che non è mai stato davvero pronto a cambiare, costituivano il problema fondamentale dell’Italia, oggi sappiamo che l’emigrazione non si è mai fermata e che negli ultimi dieci anni ha registrato un grande incremento.

Restanza è ciò che resta e permane; è ciò che avanza o non si consuma.
Restanza è la posizione di chi decide di restare, rinunciando a recidere il legame con la propria terra e comunità d’origine non per rassegnazione, ma con un atteggiamento propositivo.

È fondamentale questo requisito, perché da tempo ormai vediamo dilagare il concetto di “borgo” dai tratti romantici, una delle molteplici strumentalizzazioni dello storytelling che racconta i prodotti dell’industria culturale: appetibili, venati di nostalgia, nascosti, vuoti, ma lindi e, soprattutto, pronti al riscatto.

«Restare non è un fatto di pigrizia, di debolezza: dev’essere considerato un fatto di coraggio. Una volta c’era il sacrificio dell’emigrante e adesso c’è il sacrificio di chi resta. Una novità rispetto al passato, perché una volta si partiva per necessità ma c’era anche una tendenza a fuggire da un ambiente considerato ostile, chiuso, senza opportunità. L’etica della restanza è vista anche come una scommessa, una disponibilità a mettersi in gioco».

Sono parole di Vito Teti, antropologo calabrese che ha dedicato i suoi studi e il suo tempo al tema della restanza (fra gli ultimi libri La Restanza, Einaudi 2022) e la cui presenza brilla quest’anno fra gli ospiti del Festival dell’Erranza.

Per applicare il concetto di restanza, però, non basta la passione, la voglia, l’energia e la creatività di chi sceglie di restare.

Ci vorrebbe anche una politica del territorio capace di rendere vivibili i luoghi abbandonati, la ricostruzione di una socialità che possa ribaltare l’attuale condizione (e gli attuali poteri) e raccogliere tutti i frammenti che restano, unirli ad azioni capaci di rifondare ciò che è ai margini e inventare per queste forme di resistenza, una nuova centralità.

“L’avventura del restare, quindi l’etica della restanza – scrive ancora Teti – non è meno decisiva e fondante dell’avventura dell’andare, non rappresenta l’immobilità. Restare è la forma estrema del viaggiare, è un’arte, un’invenzione; un esercizio che mette in crisi le retoriche delle identità locali. Le due avventure non sono antitetiche ma complementari, vanno colte e narrate insieme”.

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Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.

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