Renato Nicolini – La magia dell’effimero

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Sono passati 10 anni dalla scomparsa di Renato Nicolini.
Marco Testoni, musicista, scrittore, suo amico, all’inizio del 2022 gli dedica un libro dal titolo La gioiosa anomalia, edito da Efesto, che non è solo un omaggio alla sua persona e al suo ruolo, ma anche un’ottima sintesi dei fatti e soprattutto dell’atmosfera di quegli anni a Roma.

La prefazione di Christian Raimo ci fa entrare subito nel vivo degli anni in cui Nicolini è stato assessore alle politiche culturali per il comune di Roma. È un lungo elenco delle innumerevoli cose tristemente perdute che oggi sarebbero impossibili anche solo da pensare.

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Renato Nicolini La gioiosa anomalia di Marco Testoni

È difficile spiegare e far credere che Nicolini sia stato uno dei pochissimi personaggi politici per i quali si prova nostalgia. E per capire questo, Renato va contestualizzato attraverso l’analisi storica e politica di quegli anni.

Nel 1962 quando frequentava il PCI, ai vertici c’era una classe dirigente composta da intellettuali che, in seguito, è divenuta una classe impreparata che cercava senza successo di recuperare uno status di intellettuale.

Il ruolo delle università e delle scuole allora era centrale nella politica; c’era un’emancipazione e uno spessore culturale che vennero poi messi a rischio da alcune riforme: prima tra tutte quella delle lauree brevi. In quegli anni di grande fermento, invece, era in atto una politica anticlassista che voleva accrescere la consapevolezza di qualunque esperienza estetica.

Nella gestione della città, ad esempio, divenne importante riempire il centro storico, appannaggio dei turisti e dei benestanti che lo abitavano, in una continua contaminazione tra “alto” e “basso”. Oggi non c’è più questo scambio; c’è uno sterminato “basso” e un “alto” inaccessibile ai più.

La politica di Nicolini era incentrata sul recupero di spazi culturali: i circhi, i teatri tenda, gli schermi nelle spiagge e nelle piazze, le cantine, i teatri off, i cinema d’essai, i cineclub, le grandi iniziative estive come i concerti all’aperto, le proiezioni a Massenzio.

Fu un evento davvero incredibile ed insolito la proiezione del Napoleon nel 1981 su un grande schermo posizionato davanti all’arco di Costantino: simbolo di un’educazione estetica di altissimo livello e cardine di quella politica culturale. Il pubblico era variegato, per età e appartenenza sociale.

Gli spazi occupati come il Teatro Valle, il Cinema Palazzo, il Cinema America e tanti altri siti della capitale, prima e dopo quella esperienza erano stati e sono ancora perennemente minacciati dalla politica degli sgomberi, degli affitti impossibili, della burocrazia esasperante. Le sue erano invece iniziative dettate dall’esigenza di prendersi le piazze in una città spesso “sequestrata” da aziende private a capitale pubblico, perché “la città è di chi la abita”.

Nicolini, in quegli anni era riuscito a recuperare alcuni luoghi e a renderli fruibili per nuove iniziative. Durante il suo assessorato, niente affatto marginale come lo era stato fino ad allora, l’estate a Roma non fu più la stagione desolata dove solo i turisti o i meno fortunati si aggiravano per la città attanagliata dalla calura e dalle chiusure. Furono gli anni della grande “estate romana”, quando ogni sera c’era qualche cosa di bello e interessante da fare, spesso gratuita.

Roma produce immaginario”, diceva Renato.  “Roma non è e non dovrà diventare una città dove si compra e dove si vende”. In realtà dalla fine degli anni 80 a oggi sono nati più di quaranta centri commerciali favoriti dai rapporti di sudditanza delle amministrazioni verso i costruttori che vi hanno fatto sorgere intorno interi quartieri.

Anche Walter Tocci, vicesindaco e assessore alla mobilità per la giunta Rutelli parla di Nicolini con profonda tristezza, forse dispiaciuto di non averlo sostenuto abbastanza. Anche secondo la sua analisi è proprio in quegli anni che cambia il rapporto tra la politica e la cultura. Nicolini è stato forse l’unico ad indicare una via di uscita originale per l’eterogeneità sociale.

Dopo, nessuno ci è più riuscito, o forse i romani non hanno più mostrato quella ricettività. Dopo di lui la politica ha gradualmente iniziato a delegare la cultura alle piattaforme digitali, tranne forse qualcosa che si può considerare in linea col suo pensiero, come il fiorire della street art nelle periferie, il MAAM sulla Prenestina, il laghetto spontaneo alla ex SNIA.

I suoi rivali parlando delle sue iniziative parlavano di “effimero”. Lui lo definì il “meraviglioso urbano”.

Cosa ci manca di lui?” si chiede Walter Tocci. Ci manca la capacità di rompere la cappa di conformismo sicuramente aiutata dalle complicazioni infinite e dalle norme che soffocano ogni iniziativa culturale. Ci manca la capacità di mettere in contatto le avanguardie culturali con l’umanità romana.

Marco Testoni, l’autore, ci tiene giustamente a ricordare che i cosiddetti “anni di piombo” furono anche anni di grande creatività.

I romani vincevano la paura e anche la pigrizia; uscivano, sperimentavano nuove esperienze.

L’estate romana fu un successo travolgente che sembrò replicabile ovunque. Molte città europee la imitarono.

Il libro prosegue con la storia del suo assessorato che ha compreso tre giunte comunali e un fiume di idee. I sindaci che si sono avvicendati in quegli anni hanno sicuramente avuto in comune tra loro una marcata sensibilità per la cultura e la bellezza. Renato ne ha costituito il collante, l’ossatura.

Nel ’76 Giulio Carlo Argan, primo sindaco non democristiano, lo nomina assessore alla cultura. È architetto, urbanista, all’epoca ha 34 anni. Rimane nella giunta fino al ’79, poi viene rieletto fino all’81 nella giunta di Petroselli e fino all’85 in quella di Ugo Vetere.

Il suo incarico corrisponde con la politica del “decentramento”. L’idea è quella di fare cultura ovunque.

Presero piede le realtà dei cineclub con le loro proposte “di nicchia”. Nelle “cantine” si formavano avanguardie musicali che si fecero spazio fuori dai circuiti tradizionali, come i teatri tenda.  Quello di piazza Mancini il primo, nel ’76 ospitò Gigi Proietti con lo spettacolo A me gli occhi please. Fu un successo enorme perché il grande comico metteva in scena un’ironia colta e popolare al tempo stesso, sintesi perfetta del pensiero nicoliniano. Ma non era solo questo: in quei luoghi si consumavano atmosfere e rituali davvero singolari. Era finalmente il momento in cui arte, divertimento, aggregazione si fondevano magistralmente.

Contemporaneamente si iniziarono ad usare spazi centrali come le terme di Caracalla, la basilica di Massenzio. Luoghi che riprendevano vita grazie a quelle iniziative, e iniziative e che diventavano il pretesto per i romani di visitare siti che avevano visitato ma non vissuto. Erano gli anni delle proteste e delle “autoriduzioni”. Ci furono incidenti pesanti al concerto di Lou Reed, dei Led Zeppelin, di De Gregori, scontri forse animati proprio dall’idea di esercitare il diritto di partecipare.

I romani raccolsero il cambiamento, ne compresero l’empatia, l’opportunità. Si sentivano vivi e protagonisti delle loro scelte. Ce n’era perduti i gusti: il cinema, il festival di poesia a Castel Porziano, il circo in piazza a via Giulia, il ballo a villa Ada.

Argan si dimise prima della fine del mandato. L’impatto con la giunta successiva di Luigi Petroselli non fu dei migliori ma poi in realtà il nuovo sindaco si mostrò presto in linea con le idee di Nicolini, e le scelte precedenti si consolidarono. L’Accademia filarmonica Romana ottenne uno spazio al teatro Olimpico, e anche l’iniziativa del cinema a Massenzio si decentrò in più punti della città.

In questo modo le barriere sociali saltavano.

Petroselli mancò improvvisamente nel 1981, lasciando la città sgomenta e i progetti in sospeso.

Gli successe la giunta Vetere. Ma quando venne eletto, il clima politico non era più lo stesso. Nel 1984 l’improvvisa scomparsa di Enrico Berlinguer ruppe definitivamente il già precario equilibrio della sinistra per una serie di frizioni interne.

La magia si interrompe, anche se Nicolini è ancora lì, ricco di idee e di entusiasmi. C’è un elenco lunghissimo di iniziative non autorizzate, spettacoli, rassegne, mostre, sfilate, e una biblioteca comunale pensata all’interno del carcere.

Nel 1982 “la strage dei colpevoli” fu il primo “censimento teatrale” collettivo, che doveva servire a fotografare i gruppi teatrali nella Roma dei primi anni 80. La rassegna durò 3 settimane a villa Borghese, e secondo l’ormai collaudata modalità nicoliniana prevedeva “l’animazione di uno spazio urbano con un particolare focus tematico”.

Ma erano gli ultimi sprazzi di una creatività raffinata e all’avanguardia. Ci fu un cambio di rotta che volle artisti più “deboli” culturalmente, professionisti dell’intrattenimento estivo. E questo avvenne creando una “burocrazia con potere di veto”. Gli iter procedurali divennero cervellotici e tali sono rimasti. Produrre cultura e diffonderla è sempre più complesso per non dire impossibile, sicuramente scoraggiante.

Dopo questa lunga meravigliosa esperienza, dal 1983 al 1994 è deputato nel partito comunista e poi nel partito democratico della sinistra. La sua attività politica si esplica tutta nel concetto di centralità della cultura e della ricerca. Un approccio assolutamente in controtendenza con quello successivo berlusconiano, imperniato sul consumismo che fa dei cittadini degli utenti, e dei servizi delle aziende.

Nicolini rimane segnato dallo spezzettamento e dai conflitti interni alla sinistra. Ogni utopia e ogni sogno vengono simbolicamente spazzati via dalla frase tanto famosa quanto irripetibile del ministero dell’economia Tremonticon la cultura non si mangia”.

Nel 1991 la sinistra sceglie di candidare Francesco Rutelli invece di Renato Nicolini.

Venne chiamato da Bassolino a Napoli dal 1994 al 1997. Molte lettere scritte al sindaco e riportate nel libro di Testoni, testimoniano l’impegno che mise da non napoletano per tutelare l’identità di una città ancora più difficile di Roma. In queste lettere, analizza, propone, critica costruttivamente. Ma deve soprattutto prendere atto che la figura dell’assessore ha subito dei cambiamenti istituzionali che gli sottraggono senso.

Questo magnifico libro, si conclude con il discorso di Walter Tocci tre giorni dopo la sua morte.

La sua ragione politica si era conclusa parecchio prima della sua morte. Quella Roma che lui ha contribuito a regalarci e che noi di quella generazione abbiamo molto amato non è più così facile da trovare. Si, ci sono sporadiche ottime manifestazioni culturali, e anche nuovi spazi espositivi che a quel tempo non esistevano ancora. Ma sono sconnessi tra loro, e non hanno più la capacità di funzionare come un collante sociale. L’autore dice che c’è stato un “depauperamento intellettuale (…) che ha lasciato il campo libero all’intrattenimento dei centri commerciali creando condizioni di esasperante solitudine, ideali per il proliferare delle piattaforme digitali in streaming”.

Comunque sia andata sicuramente ha costituito un punto di non ritorno. Oggi noi sappiamo, anche grazie a questo libro che ci rinfresca la memoria, che quello che sembra impossibile si può realizzare, grazie all’impegno, alla competenza e alla fantasia.

Nella postfazione David Tozzo dice che nei suoi 2775 anni di storia, quelli in cui Roma ha riso di più sono stati i nove anni di assessorato alla cultura di Renato. Questo libro lo fa conoscere a chi non lo ha conosciuto.

Il suo fu un minestrone di vita e pazzia, di gioco e follia”. Ci fu davvero quel minestrone, distribuito a 30000 persone su un palco di 40 metri per 10 al festival di Castelporziano.
Il palco crollò ma nessuno si fece male.

A pensarci oggi vengono i brividi.

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Non sono una giornalista né, tanto meno, una scrittrice. Sono una fisioterapista in pensione con la grande passione della lettura che mi guida da quando ero bambina.
L’idea di questa rubrica nasce dal mio desiderio di condividere. Se un libro mi piace o mi colpisce particolarmente, cerco di raccontarlo affinché anche gli altri possano provare le mie stesse emozioni. Non amo, invece, parlare dei libri che non mi sono piaciuti. Preferisco pensare che non sono nelle mie corde, o che li ho letti nel momento sbagliato.

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