I fiori del bene di Isabella Colonnese. Andare sotto la pelle degli altri per raccontare le emozioni

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Ho trovato interessante e molto gradevole questo piccolo libro di Isabella Colonnese dal titolo I fiori del bene edito nel 2023 da Scalpendi.

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Consiste in una raccolta di racconti brevi divisa in tre parti: ognuna ha il nome di un fiore. Ogni racconto termina con una poesia che ne prolunga il tema.

La prima parte è costituita soprattutto da ricordi molto personali espressi con pudore e grazia, ma al tempo stesso facendone partecipe il lettore perché in potrebbero essere i racconti di ognuno di noi: il ricordo del padre e il dolore per la sua morte, la madre e la zia carissima che si ammalano quasi contemporaneamente, la nascita del suo ultimo figlio.

Il racconto dei fatti si alterna alla descrizione degli stati d’animo e all’analisi di se stessa. Privato e pubblico si fondono insieme oppure costituiscono un’altalena ben riuscita in cui il lettore si può riconoscere facilmente.

La famiglia è il centro di questa prima parte, sia quella di origine che quella attuale: due famiglie avvolgenti, aperte,  punto di partenza fondamentale per avere uno sguardo sul mondo e una base solida per occuparsi  degli altri. Famiglia intesa come gli affetti più stretti ed autentici,  non necessariamente solo parentali.

Anche i luoghi possono essere “famiglia” quando sono conosciuti, accoglienti, abituali . Lo è il bar di via Lilio, dove tutti si conoscono di vista e dove si può incontrare la vicina di casa artista, strana e affascinante. Lo è Daniela che subisce un abuso dal cugino del quale si fidava tanto, e Ludovica che sogna fin da bambina di fare l’attrice.

«Non bisogna solo mettersi nei panni degli altri, bisogna entrare sotto la loro pelle e poi scendere e arrivare fino al sangue: è da lì che possiamo sentire pulsare le emozioni degli altri». Isabella Colonnese fa esattamente questo: racconta e si racconta, partecipa empaticamente, senza mai lasciarsi tentare dal giudizio.

La seconda parte mette un piede fuori dalla casa e dal quartiere. L’orizzonte si allarga e insieme anche la sensibilità e l’interesse per l’esterno. Ci racconta la storia di Adjit, il ragazzo indiano che lavora nell’agro pontino, di Salvo, venuto a Roma dalla Sicilia a 19 anni per studiare medicina presso l’università cattolica,  dell’aereo schiantatosi sul monte Serra nel 1977 con a bordo 38 allievi del corso dell’accademia navale di Livorno.

La Lettera a Mattia appartenente al secondo ciclo di racconti mi sembra meriti una riflessione in più. Il destinatario è Mattia Zecca, l’autore di un libro intitolato Lo capisce anche un bambino. Quella di Isabella Colonnese  è un’articolata riflessione su quelli che sono stati gli ideali della nostra generazione, complicati dagli anni della prima repubblica, dal terrorismo, dalla strategia della tensione, dal rapimento Moro. Anni al tempo stesso esaltati da battaglie civili fondamentali che credevamo ormai conquiste irreversibili e che invece sembra rischino nuovamente di essere inghiottite dal qualunquismo e dal moralismo.

L’autrice parla ancora della propria famiglia e della famiglia di Mattia, composta da due uomini e due figli, non riconosciuta dalla legge italiana e considerata come  fossero quattro casuali conviventi, non legati da vincoli affettivi profondi. Due famiglie identiche nei loro presupposti e nella loro progettualità eppure trattate così diversamente, o meglio, una delle due soprattutto “maltrattata”.

Il discorso parte da questo esempio per allargarsi criticamente  e richiamare il lettore ad una responsabilità nei confronti delle nuove generazioni: «in questi anni la sensazione di essere sopraffatta dal senso di colpa e dal peso soffocante delle responsabilità per non essere riuscita a contribuire alla costruzione di un mondo migliore lo sento sempre più nitido e in certi momenti perfino soffocante.»

La terza parte è meno aderente alla realtà, un po’ onirica e un po’ surreale, ogni tanto con qualche  ironica allusione al mondo del quotidiano. Come dice nella prefazione Michela Monferrini, è  «il tentativo di condividere con il  lettore una domanda la cui eco è straziante: dove dobbiamo rivolgere lo sguardo per continuare il dialogo quando questo viene interrotto?»

C’è poi il racconto intitolato Un incontro dove di nuovo compare l’alternanza tra fantasia e realtà. È una sorta di confessione onesta ed intima. «Negli anni era diventato per tutti assolutamente ordinario vedermi straordinariamente impegnata (…) nel tentativo assurdo di vedere tutti contenti. Avevo bisogno di un po’ di spazio per me stessa. Di prendere aria. Ricordare chi fossi. Fare i conti con la realtà, con la mia rabbia, con i miei desideri. Quelli veri, autentici, soffocati dalle ossessioni e dai tormenti».

È la confessione di chi si offre generosamente perché ha degli ideali e delle convinzioni, ma al tempo stesso è sempre più cosciente di non poter abbracciare tutto il mondo.

Passa in rassegna tutte le persone protagoniste dei racconti contenuti in questo libro; le loro umanissime, solide e fragili vite, in ogni caso uniche e tutte ugualmente dignitose e degne di rispetto. Dal primo all’ultimo.

Questo sembra essere lo scopo più profondo di questo libro: partire da una base solida, affettiva, solare,  per porsi insieme tante domande sul futuro e sui buchi neri dell’esistenza.

Non a caso chiude la raccolta La favola delle favole in cui i personaggi delle favole tradizionali  sono “giustamente” stufi di essere imprigionati nei loro soliti ruoli. Si incontrano e si mescolano tra di loro, inventando fatti e finali diversi da quelli che siamo abituati a raccontare e raccontarci. È un gioco a mischiare le carte, un’insalata di storie che serve a recuperare leggerezza e speranza, e magari anche il senso dell’esistenza.

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Non sono una giornalista né, tanto meno, una scrittrice. Sono una fisioterapista in pensione con la grande passione della lettura che mi guida da quando ero bambina.
L’idea di questa rubrica nasce dal mio desiderio di condividere. Se un libro mi piace o mi colpisce particolarmente, cerco di raccontarlo affinché anche gli altri possano provare le mie stesse emozioni. Non amo, invece, parlare dei libri che non mi sono piaciuti. Preferisco pensare che non sono nelle mie corde, o che li ho letti nel momento sbagliato.

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