Turismo e Cultura, una storia d’amore tossico

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Trascorse da tempo le festività natalizie e prima del turbinio delle vacanze prossime, tra le pasquali e le estive solo apparentemente lontane, ci pare giusto il tempo per tornare a riflettere sul tema del turismo.
Salita alla ribalta della cronaca a seguito dell’esplosione pandemica, la solida ripartenza del turismo e una sua nuova possibilità di sviluppo sono sul tavolo di lavoro di molti. Le questioni da affrontare sono tante e tutte interconnesse, ma alla base vi è una domanda fondamentale da porsi, limitandoci qui alle nostre politiche pubbliche:

che cosa vuole dal futuro il Paese?

Cambiare l’idea di turismo nella società interamente votata al consumo (e dunque allo sfruttamento), ma che parla continuamente di sostenibilità, è possibile?

E lo si può fare dando un vero senso al processo di transizione ecologica, che deve essere operata, agendo secondo criteri di sostenibilità ambientale intesi in termini speculativi, giacché lo sfruttamento ecologico, sociale e culturale sono interconnessi nell’agire sistemico del consumatore?

Le pronunciazioni del Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano non sembrano rassicuranti, essendosi ripetutamente espresso in termini di cultura quale risorsa e motore economico, sorvolando sulla crescita spirituale, educativa e civica del Paese; non un cenno a investimenti su ricerca e nuove produzioni, mentre invece ha esplicitato l’intenzione di abrogare gli ingressi gratuiti nei musei, a causa dell’eccessivo dispendio economico e del deprezzamento delle opere d’arte che, a parer suo, ne deriverebbero.
Nel frattempo è aumentata la tariffa degli Uffizi e il Ministero torna a lavorare su un biglietto per il Pantheon, riservato ai turisti in ragione delle loro possibilità economiche.

Appare evidente che le speranze di una nuova consapevolezza da Covid-19 sono state mal risposte e che il pensiero strutturante il turbocapitalismo non sia stato minimamente intaccato.

Non vi sono dubbi, quindi, che il modello rafforzatosi dagli ‘80 in poi non abbia subito slittamenti, in primis perché in nessun modo sono state cambiate le politiche socio-culturali durante gli anni, mentre invece la crisi del settore sembra aver dato nuova linfa alla spinta produttiva che ripercorre le consolidate dinamiche.

C’è da notare che nel dibattito in questione è tragicamente assente proprio il rapporto di forza turismo/cultura, particolarmente con riferimento all’arte.

Tutti ricordiamo i luoghi espositivi e i siti archeologici chiusi ben oltre i periodi più duri della diffusione pandemica, di contro all’inaugurazione di nuovi centri commerciali; ricordiamo le dichiarazione in ordine alla chiusura dei musei per assenza dei turisti e prima ancora quelle dei contrari alle domeniche gratuite perché, altrimenti, i turisti che cosa pensano di noi.

Ricordiamo le singolari aspirazioni a creare nella Città Eterna un mega museo di arte romana, spostando tutti i reperti diffusi sul territorio a favore di un unico polo, in centro, a portata di turista americano mordi e fuggi.

Dunque la cultura – peraltro squisitamente intesa come patrimonio – sta sempre un passo indietro, o meglio, è considerata in quanto mezzo utile ad accrescere il flusso turistico; non un affare della comunità locale, in sostanza. Ma questa strumentalizzazione a chi giova?

Quale riguardo alla cultura sottenda questa visione è evidente (essendo destinataria del solo 3% del PNRR, peraltro riferito con trionfalismi), così come è lampante l’ignoranza della storia, dell’arte, delle pratiche e del sistema che sorregge il mondo culturale, a causa – dobbiamo dirlo – della mancata considerazione politica dell’istruzione artistica e dell’educazione critica.

Se il modello ufficiale di valorizzazione a fini turistici ultimamente sembra, sulla carta, mitigato dall’idea di coinvolgimento delle comunità, in realtà queste sono schiacciate proprio in una dimensione di servizio.

La corsa al turista non risparmia nessuno: piccoli comuni e valorizzazione turistica.

Una riflessione la meritano i paesi, decantati negli ultimi anni come refugium e inizio di nuova vita da remoto”, le cui sorti – nell’ottica del nostro discorso – sono perlopiù demandate a iniziative private, talvolta finanziate con fondi pubblici messi a bando.

Tralasciando la retorica promozionale del borgo, in questa corsa al turista  i piccoli (o medio-piccoli) comuni spesso si ritrovano in operazioni quantomeno discutibili, come è stato il Jova beach party che immaginiamo voluto o accettato per il suo grosso seguito di pubblico.

Un intervento interessante da analizzare, in quanto promosso in virtù di una presunta valorizzazione del turismo e di ideali di equità, è il Big Bench Community Project.

Se la prima panchina di Chris Bangle Associates poteva avere un senso, la sua moltiplicazione su territori diversi – quasi tutti in Italia – ne fa una Disneyland diffusa che impatta visivamente sul paesaggio con il rischio di danneggiare il bene culturale, specie in quanto la localizzazione è affidata alle Pro Loco e a volontari che, il più delle volte, non hanno idea di quanto la scelta del luogo sia fondamentale per l’opera e per l’ambiente, di quanto uno spazio sia diverso dall’altro e quali conseguenze su vari livelli abbia un suo errato posizionamento.

La Fondazione Big Bench Community Project indica linee guida, non fa sopralluoghi e concede il consenso sulla base delle foto inviate; allo stesso tempo non investe economicamente nella realizzazione dell’opera ma – sotto la veste dell’aiuto all’artigianato locale – rimanda la spesa e il lavoro alle no profit e ai volontari (vietati fondi pubblici e sponsor aziendali), incassando però dalla vendita di gadget di vario tipo, tra cui passaporti e timbro per i turisti/visitatori, integranti il contratto tra le parti.

Di contro, una percentuale del ricavato viene devoluta ai paesi con la pachinona per eventuali altri progetti da mandare a bando interno alla Fondazione. Peccato che la spesa non valga l’impresa, lo sguardo incrociato tra i costi della panchina e gli eventuali fondi vinti parla da sé!

Non vi è nulla di illegittimo, sia chiaro, per altro è giusto che l’opera sia prodotta dal committente, ma il meccanismo che sottende l’operazione gioca su un sottilissimo travisamento di intenti ed effetti, che è alimentato in termini circolari dalla cultura del consumo.

E il turismo? Ammettendo pure che qualcuno un sabato mattina si metta in viaggio per sedersi sull’istallazione e poi pranzi nella trattoria locale, la domanda rimane: quanto avrà guadagnato il paesino da questa visita? Quanto questo sarà stato conosciuto dal turista senza che una pratica diversa sia posta in atto ai fini della valorizzazione del luogo? E che cosa significa valorizzare in tale contesto?

E la cultura? A partire dal fatto che il progetto, per come si sviluppa, nulla ha a che vedere con un community project, pratica artistica con specifiche diverse, ben che vada una panchina uguale a tante altre – diversa solo per colore – senza nessun richiamo al contesto in cui si inserisce, non può che trasformarsi in una seduta grande, nulla di più; con buona pace dell’ambizione di offrire utilità sociale e una prospettiva diversa sul paesaggio!

Perché allora le Big Bench hanno tanta fortuna? È il potere del brand!

In Italia non si fa che parlare di identità, eppure l’adolescenziale desiderio di somigliare alla massa – che la globalizzazione liberista ha rafforzato in ogni età e dimensione – ha la meglio sulla propria specificità; in aggiunta va considerata la scarsa educazione all’arte, che porta alla consegna di valore a ciò che più facilmente riconosciamo e che si presume essere famoso (non comprendendo che a rendere note le Big Bench sono proprio quelli che le vogliono).

Mettiamoci pure la frequente mancanza di professionisti del settore tra le fila del personale comunale, aggiungiamo la non conoscenza delle dinamiche di marketing applicate al sistema cultura, e il gioco è fatto!

L’esempio proposto esprime un approccio concettualmente non distante dall’invasione di b&b nei centri storici, con conseguente trasformazione del profilo anche umano delle città: migrazione interna, erogatori di bibite e snack, fast food al posto di vecchi caffè, centri culturali e di aggregazione destinati alla morte[1], boutique hotel tutti uguali e neon che incidono sulla luce naturale e la percezione dell’ambiente, etc.

La relazione turismo/cultura, così come impostata, assume di fatto un carattere manipolatorio ed espoliativo, accentuato dalla massificazione di cui si lamentano pure guide e accompagnatori alle prese con orde tarate su ritmi e preconcetti difficilmente scardinabili se incentivati a un tale consumo.

Mutatis mutandis è ciò che avviene con The World of Banksy – The Immersive Experience, una mostra pacchetto che attraversa il globo proponendo riproduzioni dei murales e degli oggetti di Bansky, sfruttando il suo claim “Copyright is for losers”, e legittimandosi come veicolatrice di opere lontane, talvolta distrutte.

Pagando un biglietto il visitatore può vedere falsi Banksy, invece degli originali site specific da scoprire gratis. Per chi non può viaggiare e per le opere consumate dal tempo, internet è pieno di fotografie scattate lì dove sono state realizzate e – considerati i costi dell’accesso al web – di certo la spesa è inferiore al biglietto.

C’è da dire che l’operazione è privata e investe pure lo sfruttamento dell’autorialità attraverso manipolazione e capitalizzazione del pensiero anticapitalista dell’artista, in ogni caso esprime macroscopicamente le dinamiche distorsive su cui si basa l’assunzione culturale consumistica.

Diverso è il caso di Civita di Bagnoregio, in provincia di Viterbo, che subisce la mercificazione della sua sorte di città che muore proprio ad opera delle politiche pubbliche, che da anni ne sfruttano il tragico destino in chiave di marketing, un’operazione che attira milioni di turisti che impattano negativamente su un territorio fragile, abitato da una decina di persone[2].

Tentativi di azione tra conservazione e progettazione alternativa

Considerare la cultura in termini strumentali crea un cortocircuito che, non favorendo la coscienza critica, non può che portarne all’erosione con correlati effetti socio-ambientali (ed economici), perciò nulla di diverso dal saccheggio della Spiaggia rosa dell’isola di Budelli.

In questi termini la crescita dei benefici da turismo è un abbaglio e dunque, affinché l’incontro non sia solo un cattivo matrimonio d’interesse, bisogna cambiare il paradigma, invertire la prospettiva in cultura e turismo, non riducendo la prima a edifici ed escamotage temporanei. Considerare il diritto degli abitanti a essere i primi destinatari – e a volte diretti protagonisti – di beni e produzioni culturali, è un fondamentale passo anche per aprire alla conoscenza consapevole altrui e dunque per proteggere, crescere e accrescere.

Una volta un rappresentante di una giunta comunale, riferendosi a uno specifico, mi ha chiesto:  “ma per chi si fa il progetto?”.

La domanda, di primo acchito accolta nell’accezione positiva della centralità del cittadino, in realtà sottende una dualità (noi/loro) pericolosa perché, rinvigorendo la naturale tendenza dei piccoli centri alla chiusura, favorisce il dannoso consumo forestiero come effetto rebound.

Un progetto culturale, perché possa dirsi tale, non può essere un affare privato, neppure se concepito e sviluppato per una data collettività; allo stesso tempo la valorizzazione o riqualificazione non può passare per la mera conservazione, così come la promozione non può essere mercificazione.

Come afferma Tancredi ne Il Gattopardo, bisogna che tutto cambi perché nulla cambi, e dunque un reale cambiamento non può che essere interno, e perché ciò avvenga è necessaria una coscienza socio-politica strutturata, caratterizzata da un forte senso della comunità, cosa che ci riporta all’indispensabile anticipazione del dato cultura.

Centralità non vuol dire esclusività tanto quanto tutela non vuol dire immobilismo. Il primo passo verso una sana salvaguardia è la consapevolezza che il perdurare nel tempo passa sempre attraverso un processo trasformativo maturato su fondamenta solide.

È su questo solco che, tra giugno e luglio scorsi, si è sviluppata Una visita inaspettata a Filacciano, in provincia di Roma, finanziata con i fondi della Regione Lazio. Nel rispondere a un bando per la valorizzazione turistica, la pubblica amministrazione ha accolto il community project a mia firma per la creazione di un nuovo itinerario, in primis culturale.

Il laboratorio strutturante il progetto si è costruito su uno incontro di narrazioni (da un lato una curatrice e la visiting artist Maria Chiara Calvani, dall’altro gli abitanti), creando un fuori e dentro i luoghi attraverso il linguaggio dell’arte contemporanea fondato sul dato esperienziale; l’appuntamento dialettico si è poi sviluppato con alcune passeggiate, in cui il ricordo è stato l’elemento significante l’ambiente e il nucleo di un inevitabile scambio tra le parti.

Una visita inaspettata ha così agito (agisce) il cambiamento della tradizionale narrazione turistica, costruendo un percorso fatto da e tra i ricordi dei partecipanti, talvolta contraddittori, in molti casi legati alla Storia italiana degli ultimi 80 anni.

A Filacciano l’estranea è diventato un medium, consegnando un nuovo metodo conoscitivo e affidando alla comunità – attraverso l’operato dell’EVF-Pro Loco – la responsabilità della futura presentazione alternativa del paese, che passa solo in parte attraverso le nuove mappe turistiche, essendo un patrimonio orale in continuo mutamento perché fatto di rinvigorimenti mnemonici e della vita stessa.

Non a caso, i punti d’interesse turistico sono diventate le porte delle case che si affacciano sul lungo corridoio che taglia il borgo. La condivisione del ricordo non solo lo vivifica ogni volta, ma fa risuonare la memoria sentimentale altrui e crea un senso di appartenenza che avvicina alla compartecipazione, ben altra cosa rispetto all’approccio predatorio da un lato o alla svendita dall’altro.

Al momento dell’inaugurazione della prima visita guidata ufficiale, il Sindaco Daniele Malpicci ha citato il libro La restanza[3] di Vito Teti, e in effetti il raccontare e raccontarsi all’altro innesca un meccanismo relazionale che parte dal proprio legame col posto operando inevitabilmente una risignificazione, e in una dimensione di accoglienza che è al tempo stesso custodia; il paese continua a vivere e si rinnova.

Una lettura, questa, che è ben lontana dalla visione di gestione autocratica[4] che ha accolto Civitonia[5] a Civita di Bagnoregio, un festival immaginario, nato per non esserci mai fisicamente ma che ha visto coinvolti vari artisti in una reale residenza, durante la quale hanno pensato ed elaborato una diversa possibilità per il luogo, un futuro alternativo alla turistificazione di massa a cui da anni è soggetto.

La diffida del sindaco[6] “[…] dal diffondere informazioni che coinvolgono il territorio, e quindi anche Civita, senza che esse siano state vagliate e autorizzate dall’amministrazione stessa, a meno che non si tratti di iniziative private, che però non possono comunque sfruttare immagini e situazioni soggette al controllo pubblico,[…]” colpisce un progetto culturale che è soprattutto pensiero, e si è manifestato in loco con una campagna di comunicazione usata per rovesciare il messaggio turistico tradizionale, promuovendo il paese come dispositivo di cambiamento prospettico dall’interno.

Seppur Civitonia esprima il principio per cui per comprendersi è necessario usare il medesimo codice linguistico, in questo caso – ahinoi – è stato colto soltanto il mezzo dell’affissione abusiva, e non che questa è in fondo un modulo simulatorio – ma concettualmente sovversivo – del sistema di sfruttamento dominante, la cui critica è parte del messaggio.

Note

1.  A Roma chiude la libreria indipendente Odradek. Una storia di 25 anni consumata dalla turistificazione del centro cittadino.  https://video.repubblica.it/edizione/roma/roma-chiude-la-libreria-odradek-il-centro-non-ha-piu-abitanti-solo-paninoteche-e-turisti/434936/435900.

2.  si veda Giovanni Attili, Civita senza aggettivi e senza altre specificazioni, Quodlibet, Roma 2020.

3.  Vito Teti, La restanza, Einaudi, Torino 2022.

4.  https://civitonia.com/News

5.  Civitonia. Riscrivere la fine o dell’arte del capovolgimento: www.civitonia.com

6.  Cit. Lettera di diffida del Sindaco Luca Profili diffusa dai media: https://www.newtuscia.it/2022/07/27/sindaco-profili-il-presunto-festival-civitonia-non-e-autorizzate-dallamministrazione/

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Federica La Paglia è critico e curatore indipendente. E' stata curatrice al CIAC – Centro Internazionale per l’Arte Contemporanea, Castello Colonna di Genazzano (Roma), consulente per la Fondazione Volume! (Roma) e gallerie, docente allo IED Roma. Collabora con Istituzioni straniere in Italia, in particolare latinoamericane, e in quest'ambito s'inquadra il suo lavoro per il Padiglione del Cile (53. Biennale di Venezia Arte e 12. Biennale di Venezia Architettura). Scrive per diverse riviste specializzate e suoi testi sono pubblicati su cataloghi in Italia e all’estero. La sua ricerca è orientata in particolare su progetti con taglio socio-politico e interdisciplinare.

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