Prima Biennale delle arti islamiche oppone l’arte alla contraddizione

Salat al-jama’ah by Igshaan Adams. Image courtesy Diriyah Biennale Foundation

Cammino verso Gedda e penso: ho le scarpe piene di sassi.

La grandezza e il progresso di una nazione si possono misurare in tanti modi, per esempio, uno di questi è il modo in cui tratta l’arte; più o meno è con quest’ultimo assunto che il principe ereditario e primo ministro Saudita Mohammed bin Salman, ha deciso di migliorare la propria immagine globale.

Obiettivo ambizioso, soprattutto se a perseguirlo è un leader profondamente radicato nella dinamica di potere e all’ossessione di concretezza che ne deriva. Ma allora come lo si fa crescere? Come lo si misura?

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Amongst Men by Haroon Gunn-Salie. Image courtesy Diriyah Biennale Foundation

Iniziamo con il dire che attorno alla figura controversa di MBS (sigla con cui è comunemente noto), si è detto di tutto, dal principe riformatore, a un abile calcolatore autoritario, ed è proprio questa contraddizione che segna da una parte la strategia per una politica interna più aggressiva, mentre dall’altra, sul piano domestico, mira ad aumentare la forza lavoro femminile del paese e ad ampliare gli investimenti per sostenere la crescita di ulteriori spazi espositivi, fiere e biennali del settore.

Insomma, prima di riformare bisogna epurare, ed è infatti un anno dopo la nomina di principe ereditario nel 2017 che MBS, al tempo ministro della difesa, conquista il comando assoluto ordinando l’arresto di decine di personalità tra ministri, principi e imprenditori, molti dei quali suoi diretti rivali.

Al di là di quella che è stata presentata più pubblicisticamente come un’epurazione anticorruzione, da quel momento in poi l’Arabia Saudita diventa rapidamente un altro mondo, pronto a consolidare il potere di Mohammed bin Salman Al Saud e la sua strategia economica per rendere indipendente il paese, entro il 2030, non solo dalla rendita energetica, ma anche dalla società ultraconservatrice Saudita.

Mentre l’economia non petrolifera sta dimostrando un costante sviluppo, il fronte per un progetto nuovo di società non risulta affatto di facile realizzazione. Sembra evidente che se per alcuni equilibri è sufficiente utilizzare la forza per spezzarli, altri necessitano di tempo per essere modificati lentamente.

Per quanto una Monarchia possa esercitare sullo Stato un potere assoluto, quando si parla di popolo in termini di “progetto”, quello stesso potere non può prescindere nell’esercizio delle sue funzioni da un certo relativismo culturale, soprattutto se chi è destinato a ridefinire le gerarchie sociali e politiche, i miti, i riti, e tutto quello che esprime il lavorio incessante di qualsiasi società per definire il sé e l’altro,  fa parte di una storia dai confini tanto riconoscibili come quella islamica.

Sin dall’attuazione delle prime riforme, il piano di sviluppo di punta del principe ereditario evidenzia l’impossibilità che un mindset tanto radicale possa avvenire nel breve lasso di tempo di tredici anni, mentre quello che al netto emerge in vero, è un’innegabile apertura – specie ai gusti dei turisti stranieri – pronta a chiudersi al suo interno nell’eventualità che la leadership di MbS sia messa in pericolo.

Un passaggio assai delicato che oltre a tener cara quella parte di popolazione profondamente radicata nel passato, indispensabile per garantire l’assetto politico, necessita di uno stretto controllo sull’allentamento dei costumi pubblici e la conseguente repressione del dissenso interno.

Anche l’arte rientra in questa strategia, ne è un esempio la costruzione dell’Islamic Arts Biennale come parte delle numerose attività culturali che rispondono sia a una generale esigenza di spettacolarizzazione del nuovo Regno, che all’esigenza di essere mussulmano.

Di contraddizioni ne è pieno il mondo, se si pensa che nonostante i governi europei esprimono da tempo preoccupazioni e critiche riguardo le problematiche dei diritti umani e delle libertà in Arabia Saudita, alcune tra le più importanti istituzioni culturali europee, come il Museo Benaki di Atene e il Louvre di Parigi, hanno deciso di partecipare all’evento condividendo gli intenti della nuova immagine del Paese arabo.

Intitolata Awwal Bait (The First House), la prima edizione della Biennale dedicata all’arte islamica ha avuto luogo lo scorso 23 gennaio all’interno dell’iconico Hajj Terminal of King Abdulaziz International Airport di Jeddah, dove rimarrà fino al 23 aprile 2023.

Seconda Biennale del Regno in verità, che assieme alla precedente tenutasi a Ryiad nel 2022, conquista suo spazio fra i grandi appuntamenti culturali internazionali. Entrambe nate con il sostegno della Diriyah Foundation(costituita dal ministero della cultura saudita),  e presentate come forme di intrattenimento dai benefici prevalentemente psicologici: prestigio, rassicurazione etc., ma con un concept totalmente diverso o quantomeno ulteriore. 

Se infatti quella di Ryiad riuniva artisti sauditi e internazionali in una celebrazione della cultura contemporanea, libera e aperta allo scambio, in quella di Jeddah c’è enfasi sulla conservazione e la difesa dell’identità saudita, dell’Islam e della cultura islamica.

Il compito della Biennale è quello di porsi come contenitore nel cui interno si possono esplorare i movimenti, i suoni e le linee di direzione invisibili, che hanno definito le pratiche religiose dell’Islam dal suo inizio fino ai giorni nostri.

Come chiarisce il titolo Awwal Bait o Prima Casa, il legame che prevale è quello che unisce tutti i musulmani alla Sacra Ka’bah alla Mecca, il luogo più sacro dell’Islam, raggiungibile proprio attraverso il Western Hajj Terminal che ogni anno raccoglie le tracce lasciate dai rituali di adorazione di milioni di fedeli in pellegrinaggio, arricchendo di spiritualità e senso di appartenenza l’esperienza del transito al terminal Hajj.

Estremamente coerente l’allestimento: un percorso ridefinito nel tempo e nello spazio  per la descrizione minuziosa delle opere contemporanee e quelle di arte tradizionale islamica, sia sul piano fisico che sul piano dell’infinito e dell’eterno.

Il susseguirsi di sei gallerie dedicate ai temi del rituale islamico (Adhan: The Call; Wudu’: Purificazione; Salah: Preghiera; Salat Al-Jama’ ah: Preghiera Congregazionale; Mawt: Mortalità; Bait: Casa di Dio), accompagnano il percorso verso la direzione sacra (Qiblah: la direzione della sacra Kaaba alla Mecca), a cui le opere in mostra sono fisicamente orientate, come se anch’esse fossero in una chiamata alla preghiera.

All’esterno due Padiglioni sotto il titolo Under the Canopy: Hijrah (Migration) vengono dedicati rispettivamente alla Mecca (la città più santa dell’Islam) e Medina (che significa “la città illuminata” e la seconda città santa dopo la Mecca) per ricordare il viaggio del Profeta Maometto e dei suoi seguaci nelle due città sacre.

Migrazione emblematica per l’Islam ma anche occasione per riflettere sul tema in molteplici sensi, dal modo in cui la cultura viaggia e viene scambiata, a come il pellegrinaggio ha colorato la vita culturale del mondo musulmano, riflessioni che trovano il loro posto sotto la tettoia del Terminal Hajj.

L’architettura ispirata ai baldacchini tiene al riparo le opere appositamente commissionate per dissociare la migrazione al significato della perdita,  e come questa possa invece creare, attraverso i nostri rituali, cibo, lavoro, culto, memoria e immaginazione, nuovi mattoni per una casa, indipendentemente da dove ci troviamo.

L’opera scelta è quella dell’artista sudafricano di arazzi Igshaan Adams nella sezione Salat al-jama’ah.

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Salat al-jama’ah by Igshaan Adams. Image courtesy Diriyah Biennale Foundation

L’istallazione raccoglie alcuni tappeti da preghiera usati da amici intimi e familiari dell’artista che vivevano nel distretto Bonteheuwel di Città del Capo. In questo distretto, molte famiglie sono state trasferite con la forza dalle autorità dell’apartheid nel 1960.

Tutti i tappeti presentano l’usura dell’atto di preghiera ripetuto dal suo proprietario negli anni. Ogni strappo o logorio è stato restaurato da Adams con perline e pietre semipreziose per restituire all’oggetto il suo valore di culto.

Un perfetto 50% di presenza femminile nella squadra creativa e curatoriale ci fa bene sperare nell’ aumento del tasso di partecipazione delle donne alla forza lavoro.

“For a long time, we have been waiting for a moment to represent ourselves from our perspectives, from our voices,” she continued.

“To understand the Islamic Arts Biennale as a platform for making a contribution to the discourse and canon of Islamic arts has been profoundly personal and important to me. ”

Così dichiara in una intervista al magazine “de zeen” la curatrice nonché architetto sudafricana Sumayya Vally, che  insieme all’architetto Omniya Abdel Barr, all’archeologo Saad Alrashid e al direttore emerito dello Smithsonian’s National Museum of Asian Art Julian Raby, hanno contribuito con la propria esperienza e prospettiva unica al racconto del pensiero e della pratica islamica, della diversità e l’ampiezza del mondo musulmano e di come le filosofie e la fede islamica possono offrire il potenziale per pensare al futuro in modo diverso, senza però qualche compromesso.

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Roberto D’Onorio (1979) vive e lavora a Roma. Inizia la sua carriera artistica collaborando con la cattedra di Fenomenologia delle Arti Contemporanee di Cecilia Casorati all’Accademia di Belle Arti di Roma e nel 2010 con Cecilia Canziani e Ilaria Gianni per la NOMAS Foundation. Nello stesso anno affianca Anna Cestelli Guidi in occasione della Biennale Fluxus (Auditorium Parco della Musica, Roma). Nel 2012 lavora presso la Galleria Marino di Giuseppe Marino, Roma. Dal 2013 collabora con la Galleria 291est, Roma, rivestendo i ruoli professionali di Curatore e Responsabile Management.

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