Il segreto della felicità: ecco come conquistarla. Lo svela la Bangkok Art Biennale

immagine per Bangkok Art Biennale

A voler riflettere sulle sole cause che hanno trainato la Thailandia verso una condizione di infelicità, sicuramente le prime risposte che mi vengono in mente sono il retaggio di un passato iscritto nel sangue, l’instabilità finanziaria e quella politica: tutte ipotesi di lavoro sicuramente valide ma al contempo insufficienti da sole ad ostacolare il vasto sviluppo economico legato al paese.

Un’altra ipotesi, allora, potrebbe essere la presenza di un governo autoritario che pone lo spillo censore sulla lingua della libertà d’espressione, anche se non a livelli tali da frenare l’emergere della vivace scena artistica thai. In realtà questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema, che nascondono una causa più profonda da ricercarsi nel rapporto tra relazioni di potere e credenza buddista per un qualche valore ultimo.

Ed è proprio nella volontà di conciliare virtù tradizionali con la rapida modernizzazione del paese che vive il paradosso della superstizione, in tutti i livelli della società: dal governo alla politica, dalla cultura popolare alla religione.

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Osservando tale principio, mi sono chiesto quali siano le contromosse introdotte dagli artisti per restituire al paese del leone un’immagine più veritiera e moderna di quella stantia, cristallizzata e stereotipata che ci viene proposta, ancora oggi, da esotiche cartoline da viaggio. Quali quindi i rimedi adottati per riconciliare i temi passati con una nuova integrità degna di fede? E ancora, in che modo gli artisti ricostruiscono la loro identità all’interno del conflitto costante fra modernità e tradizione, cultura e costume?

Prima ancora di ricercare una possibile risposta tra soggettivazioni e personalismi, è bene considerare l’ottimo esito della prima edizione (2018) della Biennale di Bangkok curata dal Prof. Apinan Poshyanonda. Non c’è niente di meglio della massima espressione del mondo dell’arte per far comprendere in modo sintetico e clinico gli umori di una nazione. Ma vediamo, al di là dei proclami, cosa è veramente successo. La nuova kermesse del sud-est asiatico ha mantenuto le promesse dei suoi fautori, creando uno spazio di libera espressione che, oltre al Centro artistico e Culturale di Bangkok (BACC), cuore della Biennale, ha contaminato e coinvolto 22 siti intorno alla città.

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Bangkok Art Biennale 2018 – 2019

A determinare l’inserimento ufficiale della Thailandia nel circuito delle Biennali è stato il coinvolgimento di ben 30 paesi rappresentati da oltre 70 artisti provenienti dall’Asia, Europa e dall’area del Pacifico, impegnati nel confrontarsi sulle diverse modalità per raggiungere e concepire la felicità.

Prima di questo incarico, il curatore ha fatto parte di diverse Biennali e triennali nello stato australiano del Queensland e nelle città di Sydney, Liverpool, Istanbul, San Paolo e Venezia.

Quest’ultima è stata scelta come modello paradigmatico per smistare il traffico dei visitatori nei centri commerciali, hotel di lusso e in edifici dedicati allo svago, situati lungo il Chao Phraya, il fiume principale di Bangkok. L’operazione surreale di creare una Venezia dell’est appare nell’ottica dell’osservatore occidentale da subito in contraddizione con la scelta di esporre molte opere in templi buddisti famosi in tutto il mondo come il Wat Arun, il Wat Pho e il Wat Prayoon.

In realtà l’intuizione del curatore è stata quella di suddividere il tema della Biennale in favore di una lettura globale a più ampia scala. Da una parte Poshyanonda ha infatti puntato i riflettori sulle abitudini della scena italiana, e per sua estensione occidentale, utilizzando la cultura edonistica thai come punto di contatto con l’economia creativa tipica della modernità; dall’altra mescolando tradizione e arte contemporanea, ha sentito la necessità di rimodellare l’enfasi sulla spiritualità e la trascendenza di cui gode la Thailandia, amplificando la funzione dei suoi templi buddisti da luoghi religiosi, insieme di riti, tradizioni, proprie di una comunità che senza di essi non esisterebbe, ad oasi di saggezza in cui avanzare, come singolo individuo, diverso l’uno dall’altro, che con la propria personale singolarità riflette sulle condizioni che portano alla felicità.

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Prof. Apinan Poshyanonda

Spiega Poshyanonda a Il Foglio:

Ci siamo guardati intorno: cosa c’è di forte qui? I templi, i Mall. Rappresentano tutti la ricerca della felicità, fisica e mentale. Puoi trovare la felicità nel percorso tra l’uno e l’altro

Poshyanonda riconosce alla ricerca della beatitudine una propensione umana universale, raggiungibile da chiunque a proprio modo, e che, come suggerisce il titolo della Biennale, Beyond Bliss, va al di là dei poteri che ne plasmano la condizione. Una ragion d’essere che affonda non solo nell’arte thai, ma anche nella cultura da cui essa nasce e che qui viene condivisa con altri artisti.

Quest’ultimi, a loro volta, instaurano un confronto non solo con ogni singolo artista thailandese, ma con la civiltà da cui esso nasce e che esso stesso interpreta, riappropriandosi così di una propria autonomia intellettuale.

Tutto questo è potuto accadere grazie alla visione rivoluzionaria di un curatore che è stato in grado di configurare questa Biennale come un dispositivo che guarda gli artisti come qualcosa che abbia a che fare non solo con l’appartenere a, ma anche con l’appartenersi. Questa dunque la brace che alimenta l’irripetibile e insostituibile creatività individuale in una coralità di relazioni e spazi vissuti come noti, ma partecipati nel tempo personale.

Tuttavia, chi riconosce il pensiero non come opera di un singolo più o meno isolato, ma come qualcosa di condiviso per un verso, o per l’altro, il cui uso rispecchia il modificarsi di un modo di vivere, pensare ed agire di un’intera società, si fa carico dello scontro sotto l’ombrello dell’identità sovraindividuale imposta dallo Stato, sia come complesso di istituzioni e leggi che come potere e religione, dando così luogo ad una tensione costante tra artista e comunità di appartenenza.

A tale proposito vale la pena citare la testimonianza dall’artista thailandese Tawatchai Puntusawasdapparza sul magazine francese Latitudes, dove racconta la sua esperienza di dialogo con il tempio di  Wat Pho:

Questo posto è molto importante per me e per il popolo thailandese. Quando il dottor Apinan mi ha chiesto di creare un’opera d’arte nel tempio, all’inizio ero pieno di paura! Avevo paura di mostrare quello che potevo creare, di mettermi in pericolo, che la gente reagisse male perché è un luogo così tradizionale dove tutto è già perfetto.

Partendo da tali premesse, il conflitto principale di alcuni artisti ha riguardato propriamente la consapevolezza di sé nel contesto in cui ci si trova, attivando necessariamente il rapporto dialogico con la riflessione più profonda delle proprie qualità e debolezze per superare con autenticità le proprie paure.

Continua Puntusawasdapparza:

Ho fatto molte ricerche per affrontare questa paura e per venire con un’idea. Alla fine, ho intenzione di fare una scultura ispirata agli affreschi murali di Wat Pho, una sorta di trasformazione di arte 2D in 3D. Il lavoro giocherà con le ombre e chiamerà l’immaginazione del pubblico

Se da una parte la scultura risponde alle regole della narrazione mitologica in favore di nuove utopie, dall’altra le opere pittoriche di Natee Utarit chiedono di definire ciò che la prospettiva storica designa come mito, mostrandoci la manifestazione del dolore e delle preoccupazioni tipici della nostra modernità. Considerato uno degli artisti più distintivi dell’arte contemporanea thailandese, Natee associa la metafora post-moderna a soggetti buddisti e cristiani legandoli all’iconografia del pentimento e del purgatorio.

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Allegory of the End and Resistance, Natee Utarit

Nell’opera scelta per la Biennale Allegory of the End and Resistance, la metrica allegorica asseconda l’evolversi dei mali della società sulle superfici immacolate delle carni e delle ossa, vittime degli effetti di una realtà in crisi, mentre la sovrapposizione tra simboli e credenza cieca della fede e della morte, rivelano qualcosa di profondo, ma insieme di effimero e leggero, al punto da comprendere che le nostre esistenze rimangono fragili, parziali, provvisorie.

Molte altre opere della Biennale hanno guardato criticamente ai rapporti di classe, razze e genere, puntando il dito contro la condizione che rinchiude la donna in un orizzonte fortemente patriarcale.

Il corpo dell’artista thailandese-australiana Kawita Vatanajyankur diventa luogo di eccellenza per comunicare l’esperienza di questa forma di violenza. Video, performance, fotografia sono solo alcuni degli strumenti che ritraggono Kawita nella rappresentazione di spremiagrumi, pattumiera o ago da cucito, non più utensili sordi e muti, alienati della loro funzione, ma entità in carne ed ossa dotati di una propria psicologia. Per rappresentare il perfetto concetto negativo dell’istanza patriarcale che si nasconde dietro l’attività femminile del quotidiano, il lavoro domestico che richiede tempo e fatica, Kawita non sceglie un oggetto o un’azione, diventa essa stessa forma e segno, trascendendo quest’ultimi in una personificazione passionale che ha origine nelle esperienze connesse con l’agnosia e i bisogni derivati dall’autorità che la società thailandese gestisce.

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Dye, frame. Kawita Vatanajyankur

Tra i lavori presentati nei giorni della Biennale, di notevole interesse è la video performance Dye, che vede l’artista impegnata nel far dipingere il suo corpo per poi legarlo con un filo, un riferimento diretto all’industria tessile thailandese e al suo impiego massiccio nelle fabbriche di lavoratori femminili.

La pratica domestica ricorda l’arte tessile di Jakkai Siributr, uno dei principali artisti presenti in Thailandia. La ricerca di Jakkai è infatti nota per la produzione di arazzi scrupolosamente fatti a mano e opere installative su cui proietta potenti narrazioni sulle contraddizioni religiose, sociali e politiche della Thailandia contemporanea.

La superficie tessile diventa spazio fisico e psicologico dove punire e denunciare i conflitti dei sistemi governativi in corso, attraverso due diverse modalità: la revisione critica della storia, legata alla discriminazione nazionalistica contro le minoranze e gli effetti del materialismo sull’esperienza mistica della religione buddista. Le sue narrazioni e i suoi riferimenti sugli emblemi del quotidiano costituiscono un corpus di opere apocrife che svelano una verità spesso più assassina di quello che vuole far credere.

In occasione della Biennale la scelta dell’opera è ricaduta sull’opera installativa The Outlaw’s Flag, oltre 15 bandiere simboliche che incorporano perline, semi, conchiglie e plastica recuperati sul percorso dell’esilio del popolo Rohingya dal Myanmar, una delle minoranze più perseguitate al mondo.

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The Outlaw’s Flag, Bangkok Art Biennale

Senza alcun dubbio questa Biennale ha dimostrato il carattere e la capacità di un paese che desidera rafforzare la sua presenza all’interno di una visione sempre più globale dell’arte, mettendosi in gioco ed assecondando un dialogo aperto ed emancipato.

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Roberto D’Onorio (1979) vive e lavora a Roma. Inizia la sua carriera artistica collaborando con la cattedra di Fenomenologia delle Arti Contemporanee di Cecilia Casorati all’Accademia di Belle Arti di Roma e nel 2010 con Cecilia Canziani e Ilaria Gianni per la NOMAS Foundation. Nello stesso anno affianca Anna Cestelli Guidi in occasione della Biennale Fluxus (Auditorium Parco della Musica, Roma). Nel 2012 lavora presso la Galleria Marino di Giuseppe Marino, Roma. Dal 2013 collabora con la Galleria 291est, Roma, rivestendo i ruoli professionali di Curatore e Responsabile Management.

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