Musicisti, macchina fotografica, pit e illuminazione di Henry Ruggeri.

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Henry Ruggeri è un artista della fotografia che produce immagini rivelate, tirate fuori dall’azione della luce e che ripetono ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente perché rappresentano il contingente, l’occasione e l’incontro.

Ha scelto la musica come migliore collante per mettersi in relazione col mondo intero.

Il potere dei suoi scatti influenza la percezione e l’interpretazione di un idolo. È uno tra i migliori in Italia a immortalare i protagonisti dei concerti live: i suoi scatti ritraggono i più grandi frontman della musica dal vivo: U2, Rolling Stones, James Brown, Madonna, Bruce Spreengsteen, Depeche Mode, Iron Maiden, Kiss, Metallica

Il rapporto tra un fotografo d’arte e i suoi musicisti deve includere qualcosa di straordinariamente intimo e fisico e in effetti, l’amore di Henry per il suo tipo di fotografia nasce dalla sua grande passione per i Ramones: nel 1988 si presenta a un loro concerto fingendosi un fotografo professionista.

Da quel momento ha cominciato scattando in bianco e nero per il Fan club del gruppo, seguendo la band per tutta l’Europa. Successivamente ha iniziato a collaborare con diverse riviste, fino ad arrivare a oggi quale fotografo ufficiale di Virgin Radio.

Ho conosciuto Henry a Potenza Picena, in occasione del Rock’n’roll Bonsai, un Festival che racconta la musica attraverso tutte le arti. Henry ne è stato uno dei padrini ed è stata molto coinvolgente la sua esposizione lì, titolata Music Dome, che combinava un allestimento tangibile alla nuovissima tecnologia del metaverso – elaborata da Matteo Malatini –, con un Massimo Cotto virtuale come ospite d’eccezione, all’interno della meravigliosa cornice dello storico teatro Mugellini.

Si potrebbe definire Henry con le parole di Guido Harari

“Non si diventa artisti per produrre arte, ma per intraprendere un viaggio personale. La fotografia è una sfida all’impermanenza della vita, per mostrarne tutta la potenza e la magia, oltre rituali e convenzioni.

Fotografare è vivere più vite in una: è dilatare all’infinito i propri orizzonti, sospinti dall’ansia irrefrenabile di qualcosa che, pur non essendo ancora accaduto nella vita reale, è già accaduto nel cuore e nella mente.

Questa nostalgia, questo struggimento, questo desiderio, hanno un potere incredibile di generare sogni, fantasmi, mondi paralleli.”

Come si svolge il tuo lavoro? Come riesci a creare l’Immagine perfetta che scolpisci in un frame fotografico durante un concerto?

In realtà cerco il vuoto in testa per riuscire a sintonizzarmi con il cantante e la sua luce che cerco di fissare prima che evapori nell’oscurità. Ogni concerto è una sfida. Forse, quando lavoro, come dice Nietzsche, mi sento «Un uomo labirintico che non cerca mai la verità, ma unicamente la sua Arianna ».

Entrare ai concerti delle grandi star della musica, lavorare a pochi passi dai grandi musicisti, incontrarli nel backstage. Sembrerebbe tutto fantastico! È così?

Documentare la musica e i suoi interpreti è ipnotizzante e coinvolgente, ma il mio lavoro è complicato, richiede passione ed esperienza. I fotografi come me portano avanti una specializzazione singolare in un’epoca in cui le modalità di fruizione e di condivisione dell’evento live sono profondamente cambiate, perché oggi l’immagine è inflazionata, strumentalizzata, banalizzata.

Spesso per scattare ho a disposizione solo il tempo di tre canzoni, poi si viene allontanati. Ci sono concerti in cui l’area tra il palco e le transenne, chiamata pit, è particolarmente difficile da gestire: spazi angusti, l’energia della folla dietro che sembra essere tangibile e che ti preme.

È lì che entrano in gioco l’esperienza, la capacità di cogliere l’attimo, la sintonizzazione perfetta con la musica che permette di preludere i movimenti dell’artista. La postproduzione, inoltre, deve essere realizzata con tempi di consegna sempre più veloci, come richiesti da agenzie di comunicazione e management.

Roland Barthes scrive: «Una foto può essere l’oggetto di tre pratiche (o tre emozioni, o tre intenzioni): fare, subire, guardare». Il numen appartiene al fotografo non alla fotografia. È quella capacità di riprodurre un gesto colto nel “punto preciso in cui l’occhio non può fissarlo”. Sei d’accordo con questa citazione?

Da sempre sono interessato alla Fotografia solo per sentimento in quanto tramite essa vedo, sento e dunque noto, guardo e penso. La foto giusta fa fare “tilt”, cioè avviene secondo il principio di avventura che fa esistere la Fotografia, in un deserto colmo d’immagini. La tale foto «mi avviene, essa mi anima e io la animo». L’attrattiva che la fa esistere è dunque un’animazione.

In sé la foto non è affatto animata, però essa mi anima e questo è appunto ciò che accade in ogni mia avventura in concerto.

A volte l’esistenza di una foto è dovuta alla co-presenza di elementi dovuti all’istinto, all’impercettibile, all’intangibile che costituiscono un unicum tra me e la macchina fotografica che definisco semplicemente illuminazione.

Oggi, viviamo una bulimia delle immagini, di fotografie se ne vedono ovunque, da qualsiasi parte del mondo esse vengono a noi, senza che lo si chieda, ma la maggior parte delle foto suscita al fruitore solo uno studium, una sorta d’interessamento senza intensità, senza godimento o dolore.

Lo studium appartiene all’ordine del to like e non del to love, costituisce il vastissimo campo del desiderio noncurante: I like/I don’t.”

Henry Ruggeri appartiene a quegli artisti che riescono a pungere: in latino, per designare la puntura, un segno provocato da uno strumento aguzzo, esiste la parola punctum che descrive perfettamente quella fatalità che punge lo spettatore.

ll punctum dota la foto di un campo cieco, è un sottile fuori-campo, come se l’immagine proiettasse il desiderio aldilà di ciò che essa dà a vedere (vedi R. Barthes, appunto). Un dettaglio può sconvolgere la sua lettura, è un’evoluzione del suo interesse, una folgorazione.

Nei suoi scatti vige il principio dello shock e cioè rivela ciò che è nascosto, ciò che l’attore stesso ignora o di cui non è consapevole. In breve tempo riesce a cogliere il significante fotografico, solo che ciò richiede un atto secondo di sapere o di riflessione.

Non a caso, a ottobre dello scorso anno ha esposto le sue più celebri foto nella mostra fotografica Enjoy The Silence a Los Angeles, negli spazi dell’Istituto Italiano della Cultura.

Di quella mostra, il giornalista e scrittore Massimo Cotto ha scritto:

“Henry Ruggeri è l’ombra oltre la luce, un piccolo miracolo. C’è chi celebra il rito collettivo del live o l’intimità assoluta del ritratto, ma nessuno ha mai unito i due lati.

Henry Ruggeri estrae l’artista dal suo contesto, lo cattura sul palco, ma lo isola da tutto. Fa emergere la sua meravigliosa solitudine, perché l’artista è solo anche davanti a migliaia di persone”.

 Torniamo a chiedere a Ruggeri: quali sono i tuoi riferimenti artistici? A chi ti sei ispirato?

I miei grandi riferimenti sono Franco Fontana, Helmut Newton e Anton Corbijn, ma non riesco a paragonarmi a loro, mi considero una sorta di artista a 360 gradi (faccio anche quadri da oltre 20 anni) e nel mio caso la Fotografia è il mezzo principale che ho a disposizione per soddisfare la mia NECESSITÀ D’ESPRESSIONE. Il mondo è pieno di fotografi…

In effetti, la fotografia è anche diventata uno dei meccanismi dominanti per testimoniare qualcosa, per attestare una sorta di partecipazione. Il fotografare ha stabilito con il mondo un legame voyeuristico irreversibile che appiattisce il significato di tutti gli eventi. Ma una fotografia non costituisce solo l’esito di una convergenza tra un avvenimento e un fotografo, è un evento in sé.

La macchina è un osservatorio, ma il fotografo è qualcosa di più di uno spettatore passivo, fare una fotografia artistica è un’alchimia e significa avere interesse per le cose quali sono, essere complici di ciò che rende un soggetto interessante e degno di essere fotografato.

La fotografia di Henry rappresenta una forma di verità. Il più logico degli esteti ottocenteschi, Mallarmé, diceva che al mondo tutto esiste per finire in un libro.

Oggi è appropriato dire che “tutto esiste per finire in una fotografia”. La fotografia in effetti ritrae una porzione di spazio, oltre che di tempo. In un mondo sovrastato dalle immagini fotografiche, tutte le cornici sembrano blande. Ogni cosa può essere separata da ogni altra: basta inquadrare il soggetto che si desidera.

Attraverso la fotografia il mondo diventa una serie di particelle isolate e a sé stanti, e la storia, passata e presente, un assortimento di aneddoti.

La macchina fotografica rende la realtà atomica, maneggevole e opaca. È una visione del mondo che conferisce a ogni momento il carattere di mistero. Ogni fotografia ha una molteplicità di significati perché sono inviti inesauribili alla deduzione, alla fantasia, perché non possono spiegare nulla se non mostrare.

La vera fotografia, come quella di Henry Ruggeri, è un momento privilegiato trasformato in un oggetto che possiamo conservare e rivedere, è una lirica malinconica, un’arte elegiaca e crepuscolare. Quasi tutti i suoi ritratti sono colorati di pathos. Un qualsiasi soggetto può essere nobilitato dall’attenzione del fotografo.

Ogni fotografia è un momento mori e fare una fotografia significa partecipare della mortalità di un’altra persona perché proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo.

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Barbara Caterbetti si è laureata in Storia e Conservazione dei Beni Culturali con una tesi in Museologia, ha conseguito diversi Master tra cui uno in ricerca storica e un altro in comunicazione e valorizzazione del patrimonio letterario, documentario e vocale. È critica d’arte, docente di Lettere e organizzatrice di eventi culturali. Ha contribuito come storica alla produzione di film-documentari. Redige cataloghi d’arte. Scrive di arte contemporanea e di cultura in generale. Collabora con alcune gallerie private e istituzioni museali. Cura il blog “Ipsumars” dedicato all’arte.

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