Hiroshi Sugimoto, il vuoto, il tempo e un Viaggio in Italia

immagine per Hiroshi Sugimoto - Viaggio in Italia 2023, exhibition views Galleria Continua, The St. Regis, Roma. Photo: Sebastiano Luciano

In una realtà come l’attuale, sovrastata da immagini e parole, da un generale, assordante rumore di fondo, quando ci si relaziona con un artista che lavora con la fotografia producendo una figurazione tanto essenziale, necessaria, minimale, concettuale, come fa Hiroshi Sugimoto (Tokyo, 23 febbraio 1948), è sempre una boccata d’aria. Ed è, al contempo, anche un’immersione nella complessità.

Come chiarì Bruno Munari (Verbale scritto, 1992):

 “Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere (…) Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare. Per semplificare bisogna togliere, e per togliere bisogna sapere che cosa togliere (…) Togliere invece che aggiungere vuol dire riconoscere l’essenza delle cose e comunicarle nella loro essenzialità. (…)” *

La fotografia seriale dell’artista giapponese, noto per le foto di teatri abbandonati, o vuoti, iniziata nel 1976 e ripresa nel 2013, e per quelle di architetture e per i suoi fuori fuoco… modernisti – che, da lui usati in maniera particolare e intellettuale, rievocano una certa cultura orientale di intimismo e sobrietà – qui lavora non più solo in bianco e nero ma proprio con il nerissimo… e con la luce che solo apparentemente si eclissa, al contrario rivela. E accompagna lo sguardo, come in un viaggio…

Qui il Viaggio è anche in Italia, alla Galleria Continua nella sede del St. Regis di Roma, dove Sugimoto ripercorre parte delle tappe italiane non più genericamente dei celebri Grand Tour storici ma di un viaggio in particolare: di quattro delegati giapponesi, i cosiddetti “Quattro Ragazzi” o “Tenshō ken’ō shisetsu”(“L’Ambasciata Tenshō in Europa”); si muove dagli interni di alcuni teatri storici, come quelli – ci dicono dalla Continua – “a Bologna, Sabbioneta, Mantova”, per toccare Pisa, ad esempio, e “concludersi negli spazi sconfinati del mare di Amalfi”.

Più precisamente, è nell’estate del 2015 che l’artista, in Italia per portare avanti il suo progetto sui teatri, visitando il più antico teatro dell’opera sopravvissuto in Europa, l’Olimpico di Vicenza progettato da Andrea Palladio, incontra quei “quattro ragazzi”, come egli stesso

«(…) Indicandomi uno dei riquadri dell’affresco (il foyer ha un bellissimo affresco che corre lungo le pareti appena sotto il soffitto n.d.r.), il direttore del teatro mi spiegò che mostrava un gruppo di inviati dal Giappone accolti nel teatro quando visitarono Vicenza di passaggio da Roma nel 1585, anno di apertura del teatro. Dopo un’attenta osservazione potei distinguere, con quasi assoluta certezza, quattro persone dall’aspetto giapponese in prima fila.

Erano i famosi giovani delegati, i quattro ragazzi, della missione Tenshō in Europa. Immediatamente nacque in me un forte interesse nel tracciare i viaggi dei quattro ragazzi in giro per l’Italia.

Cominciai a indagare sui loro spostamenti e scoprii che dopo essere sbarcati a Livorno si erano recati a Pisa e a Firenze, via Siena a Roma, e poi da Assisi a Venezia. Avevo fotografato il Pantheon di Roma, la Torre Pendente di Pisa e il Duomo di Siena, tutti edifici che c’erano già quando i quattro ragazzi sono arrivati in Italia.

Quasi per caso, mi resi conto che stavo vedendo gli stessi edifici che avevano visto i quattro ragazzi. Mi raggiunsero voci da un tempo lontano: “vogliamo vedere attraverso i tuoi occhi gli stessi luoghi che una volta vedemmo in Europa”, dicevano.

Le voci potevano provenire dal regno dei morti piuttosto che da qualche angolo della mia mente, si mescolavano, risuonavano, si facevano udire solo da me come un’eco. Avendo fino a quel momento seguito solo per caso le orme dei quattro ragazzi, decisi consapevolmente di visitare e fotografare altri luoghi che avevano visitato. Il caso si era trasformato in necessità.

Non avevo idea di quanto fedelmente avrei potuto ricreare, 400 anni dopo, il modo in cui le cose apparivano in quei tempi. (…) Ho visitato i luoghi di origine del mio spirito e ho fatto un viaggio allo scopo di avere una conferma visiva, che svelo qui in questa mostra».

Come analizza Ilaria Bernardi (che ha redatto il testo critico che introduce alla mostra):

“l’idea di fondo degli scatti esposti (…) che fanno parte di quel progetto, è vincere contro il tempo, annullandone lo scorrimento, eternizzandolo e cristallizzandolo in uno specifico momento”.  

Non è un caso, dato che nella realtà, campo di investigazione dettagliata di Sugimoto, il Tempo è parte integrante fondamentale, come del suo procedere artistico e non solo come elemento tecnico della Fotografia e della sua in particolare, con la sua scelta dei tempi lunghissimi di esposizione; più globalmente:

“Una fotografia è come il vetrino di un frammento di tempo che, una volta piazzato sotto la lente della curiosità, può essere analizzato, compreso, assimilato”.

Analizzato con un’operazione quasi da anatomopatologo e da ricercatore dello specifico fotografico in cui, appunto, l’immagine, quella da lui restituita di volta in volta, si trasforma in esperienza concettuale e meditativa.

Evidentemente, il concetto e la percezione del Tempo, in questo, sono portanti; del resto, il suo rapporto con il Tempo, consapevole – se così possiamo dire – lo ha percepito sin da piccolo (“dalle elementari”)ma questa è un’altra storia…

La nostra qui, di storia, quella davanti alle sue opere dalla Galleria Continua, ci avvolge, quasi ci protegge all’interno di un’esperienza dove proprio il Tempo sembra fermarsi, dove ogni dispersione è impedita, la pratica della concentrazione è favorita, il vuoto è zen e la possibilità della contemplazione è innescata ma non fermandosi alla superfice, alla pelle della fotografia (bellissima, ambigua, evocativa, seducente: va detto), bensì portandoci in profondità: dentro le nostre personali visioni, la memoria, atmosfere quasi ataviche che, in questa sospensione spaziotemporale – appunto – si attivano quasi naturalmente. Perché se tutto è “reso il più semplice possibile”, “non è semplicistico”. Parola di Alfred Einstein.

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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