Letteratura inaspettata #79. La resistenza delle donne. Benedetta Tobagi e la storia dimenticata

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Nei libri di storia il partigiano medio è giovane, italiano, maschio, etero, cisgender e imbraccia un fucile.
Questa, almeno, è l’immagine che ci mostrano i partiti e le organizzazioni che hanno partecipato alla Resistenza, tanto di sinistra quanto monarchici e democristiani; e tale è l’immagine che ripropongono, sull’argomento, i grandi romanzi del neorealismo italiano.

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Ma si tratta di una verità storica completa e rispettosa di tutte le persone che si sono opposte al fascismo?
L’Agnese va a morire – in controtendenza – offre una protagonista femminile, ma si tratta di una goccia nel mare.

Benedetta Tobagi, nel romanzo La resistenza delle donne edito da Einaudi (2022), ha voluto proporre un profilo differente rispetto a quello del Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio: nella resistenza hanno combattuto anche le donne con coraggio e valore pari agli uomini.

Dopo anni di silenzio da parte dei combattenti e delle stesse combattenti, la verità esplode in libreria e l’autrice diventa testimone di storie che non ha vissuto direttamente, ma che ha letto sui libri o ha sentito raccontare.

Una raccolta di testimonianze che hanno portato l’autrice a vincere la sessantunesima edizione del Premio Campiello, sebbene non si tratti di narrativa in senso stretto.

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Tobagi scava nel passato dell’Italia per riportare alla luce la voce di donne che per decenni hanno taciuto, timorose di essere considerate delle “poco di buono” in un’epoca in cui il Sessantotto e le femministe non avevano ancora sfidato il patriarcato; una discriminazione da cui i gruppi partigiani, comunisti e socialisti compresi, non erano immuni.

Le combattenti che offrono la loro testimonianza vengono citate per nome e cognome, ma ai lettori sembrano volti anonimi perché nessuno le ha mai ricordate prima; oppure appaiono sorridenti in fotografie d’epoca non ufficiali, in cui pedalano in bicicletta, scherzano con le compagne e i compagni, esibiscono orgogliose sigarette, fucili o pantaloni maschili o rossetto.

Le donne, infatti,  hanno combattuto usando come armi gli stessi stereotipi con cui tanto il regime fascista quanto i più sinceri comunisti le segregavano in casa, al ruolo di angelo del focolare.

L’attività più diffusa era la cura: partigiani, fascisti e tedeschi disertori o prigionieri in fuga, tutti avevano bisogno di vitto e alloggio, di un posto sicuro dove nascondersi, di vestiti nuovi e puliti, di un bagno caldo e di tutte quelle attenzioni che da millenni sono di competenza delle donne.

Le massaie hanno allora cucinato, lavato e stirato come sempre nella storia, ma questa volta in nome della libertà. Molte valorose hanno svolto queste mansioni nei rifugi partigiani, accettando anche il marchio di “puttane” per aver convissuto con uomini che non erano loro parenti.

La cura dei guerrieri non era affatto un ruolo secondario, anzi, era altrettanto importante della guerriglia e ugualmente pericoloso: non  caso le donne che sono state scoperte e arrestate hanno patito sofferenze orribili. Un compito che veniva affidato non solo alle più giovani, ma anche a madri e nonne, perché per essere partigiane si può avere qualsiasi età, sebbene fossero arruolate soprattutto teenagers e ventenni.

Moltissime, invece, svolsero un ruolo più attivo, trasportando messaggi e armi. erano le staffette. Nascondevano i documenti sotto i vestiti e nelle canne delle biciclette, mentre le armi  nelle carrozzine per neonati. Compivano viaggi massacranti pedalando per molti chilometri, all’arrivo erano sfinite e avevano bisogno di dormire per giorni.

Per non destare sospetti si vestivano con abiti eleganti, fingendosi prostitute o quel genere di donna che fornicava con il nemico e si affidavano alla recitazione e all’improvvisazione per superare i controlli.

Ecco allora che la Resistenza si serviva anche dello stereotipo fascista della “puttana” che tanto veniva condannato dalle camicie nere.

Se la maggior parte delle donne ha svolto il ruolo di cura o di staffetta, altre hanno combattuto al fianco degli uomini; pochissime sono riuscite a comandare una squadra. Erano donne estremamente coraggiose, ma non molto numerose perché anche gli antifascisti spesso si opponevano alla possibilità che simili ruoli fossero assegnati a donne. Tanto che queste ragazze sono state dimenticate: agli occhi dell’opinione pubblica, il soldato deve essere un maschio.

Ma come doveva comportarsi una partigiana? Le donne non potevano saperlo perché, fatta eccezione per le amazzoni, la storia non ricorda altre guerriere.

Le più emancipate, dunque, indossavano i pantaloni e fumavano sigarette adeguandosi all’immagine maschile, le più tradizionaliste, invece, sfidavano la neve in alta montagna indossando gonne, calzettoni e camminando con ginocchia le nude, emule delle prime alpiniste dell’Ottocento. Non avevano modelli a cui ispirarsi, così ciascuna inventava la propria immagine e vestiva come preferiva.

Un compito non meno importante consisteva nel recuperare i corpi dei caduti esposti pubblicamente dal nemico e riconsegnarli alle famiglie per una degna sepoltura. Un ruolo fondamentale non solo perché, come narra Foscolo, i sepolcri sono più utili ai vivi che ai morti, ma anche anche per sfidare apertamente i tedeschi. Si trattava di un incarico non facile, perché convivere al fianco di morti atroci e premature è una vera e propria sofferenza psicologica, ma le donne hanno compiuto con grinta anche questa sfida.

Queste ragazze giovanissime acquisirono, all’epoca, una libertà mai provata prima compiendo attività che la storia aveva sempre loro negato.
Nei nascondigli, nonostante la paura e la convivenza con la morte, si respirava un clima di spensieratezza e persino divertimento.

Qualche flebile testimonianza suggerisce sottovoce che abbiano partecipato anche persone LGBT. Se le prime pagine parlano infatti di coraggio, di lotta, di autonomia, femminismo ante litteram e di emancipazione, gli ultimi capitoli cambiano bruscamente argomento, trattando invece torture atroci e di una sadica e perversa inventiva, esposizioni di cadaveri martoriati e perdita di figli, mariti e fratelli.
Hard times, tempi duri per tutti, dove anche le donne hanno sofferto perché Resistenza non significa soltanto la gloria e il compiacimento che deriva dal combattere per una giusta causa.

Al termine della guerra, i partigiani cominciarono a temere queste ragazze, perché – dicevano – la promiscuità in cui i combattenti e le combattenti avevano vissuto, infangava il nome delle associazioni antifasciste. Allo stesso modo veniva negata la nascita di tresche e amori in montagna, proprio perché si temeva il giudizio di una società maschilista e patriarcale, in cui le donne non potevano essere libere.

Al termine della guerra, dunque, i ringraziamenti furono offerti soltanto agli uomini: le donne potevano partecipare ai cortei per la Liberazione solo se mogli di un partigiano maschio e, in generale, le stesse combattenti in primis negavano o minimizzavano il loro ruolo nella Resistenza rifiutando le onorificenze e molte pagarono il loro atto di coraggio con la solitudine. Nessuno le volle sposare, perché nessuno porta all’altare una donna disonorata.

Non era ancora iniziata la lotta al patriarcato, e il valore di queste donne era già stato insabbiato.

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Laureata in Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Milano, ha intrapreso la carriera di insegnante per passione, o forse per follia. Il teatro, come attrice e come critica, è una vocazione, il latino e il greco sono invece la sua religione. Ama viaggiare, visitare musei, la musica dal vivo e collezionare Funko Pop. I suoi amici la descrivono come un po' pazza, e forse hanno ragione.

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