La leggenda di Redenta Tiria. La Sardegna magica ed evocativa di Salvatore Niffoi e Corrado D’Elia

Su tempu, il tempo.
Quello delle storie, quello della vita. È il tempo di un altro tempo, ad essere messo in scena al Teatro Libero dal 21 al 24 luglio ne La leggenda di Redenta Tiria, tratto dal celebre romanzo di Salvatore Niffoi. Di un’altra epoca, certo. Ma soprattutto di un tempo che non c’è, sospeso, come il luogo: Barbagia, Sardegna profonda di querce e sughere solo evocata, nel nome di un piccolo paese che non esiste su nessuna carta. Abacrasta, il paese delle cinghie. Quelle che accompagnano e causano la fine del viaggio della vita di tutti i suoi abitanti, stretta al collo e legata a un ramo, come per i fratelli Cambaleddus, a un mobile, come Beneita Trunzone, all’asta della bandiera, come a su sindicu Bantìne Pica, quando la Voce chiama.
La Voce. “Ajò, preparati, che il tuo tempo è scaduto.” solo questo, dice. E non si può non seguirla. Non ad Abacrasta.

Ecco la storia che un Corrado D’Elia ispiratissimo sceglie di raccontare, per aprire la sua Liberi d’Estate, rassegna che -passando per alcuni dei più bei titoli che il teatro milanese ha ospitato negli anni – prolunga la programmazione estiva fino al 2 agosto, prima che l’afa della città la svuoti.

E’ lui stesso, ed è una piccola sorpresa, a offrire Coca Cola e rum da dietro il banco del foyer a chi entra, condendoli con chiacchiere e sorrisi, prima di salutare tutti, scomparire dietro le quinte e cambiare letteralmente vesti, per riapparire inondato di un fascio di luce, in mezzo ad un cerchio di pietre. Come quelli dove, anticamente, si raccontavano le storie.
Solo una sedia di legno e un leggio nero a completare una scenografia scarna ed evocativa e lui, Corrado D’Elia, ormai da anni uno dei più importanti, e con ragione, nomi che calcano i palchi meneghini e nazionali. La sua voce, sempre ricchissima di sfumature, questa volta si colora in modo assolutamente credibile, evitando il facile rischio della macchietta dialettale, della cadenza di quella che i sardi chiamano semplicemente sa Limba, la Lingua.

A fare da contraltare -come una sorta di narratrice fuori campo- all’attore che da il fiato alla Voce e agli abitanti di Abacrasta,  la voce calda e le note in limba di Marisa Sannia, che sono un ulteriore importante aiuto per respirare quell’atmosfera onirica e in qualche misura magica, che l’attore e regista ha voluto evocare, scegliendo questo testo come omaggio ad una terra ancestrale ricca di tradizioni che nessun turista potrà mai conoscere, a meno che non sia animato da uno spirito di vero viaggiatore.

Una terra dove acquista profondità e dignità di racconto ogni apparentemente minima vicenda personale di un piccolo villaggio sospeso fra l’esistenza e il suo contrario: la bambina nata per essere data a Dio, gli otto fratelli rimasti orfani, il bambino segnato alla nascita da un destino che si vede grande, quello di essere il “Re di Denari”.
Fino a che non arriva la Voce, a scrivere la parola fine. Perchè “ad Abacrasta, di vecchiaia, non è morto mai nessuno“.

Vicende tragiche, ammantate di ineluttabilità nelle bocche del paese. Sarà così?

Ma verrà il giorno in cui in paese farà il suo ingresso Redenta Tiria: “una femmina cieca, coi capelli neri e lucidi come ali di corvo, e i piedi scalzi.

Saranno i suoi occhi vuoti a vedere ridere, finalmente una madre e suo figlio, il nato malfatato, per scontare sulla pelle colpe non sue.

Redenta, “Redenzione”: allegoria, figura divina, forse soltanto -dice il titolo- leggenda. Con la missione di spezzare quello che non pare possibile: la disperazione della fine. Di zittire la Voce del male di vivere.

Chi lei sia di preciso non è dato sapere, basta solo ascoltare questa storia, con le palpebre chiuse, magari. Assaporarla. E poi saltare fuori dal cerchio. Senza toccarne le pietre però, affinchè -suggerisce il bis regalato solo in queste serate ai milanesi da D’Elia e Niffoi- le sciagure non ricomincino.
Perchè, sussurra una madre “Lo sai, figlia mia: riso e pianto, camminano accanto“.

Un racconto potente, denso, poetico ai limiti del lirismo, cui l’autore da corpo con grande partecipazione e cura, oltre che con (da non trascurarsi) un perenne sorriso, paradossalmente mai ingiustificato, anche nei passaggi più tragici.

Un racconto relegato in un tempo che appare lontano ma prepotentemente contemporaneo. Favola modernissima che parla a ciascuno, se è pronto ad ascoltare, e lo trascina nel profondo di sè, per scoprire quanto si creda di aver vissuto senza aver ancora vissuto nulla, suggerisce D’Elia con l’entusiasmo negli occhi.

Lasciando la voglia di ritrovarle, queste parole, così come sono, come in quella splendida frase che i sardi si scambiano come augurio, per gli incontri e per i passaggi di vita che si compiono: “A chent’annos“, anche fra cento anni.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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