Serj e il dispositivo-macchina. Con intervista

Nato a Bergamo, classe 1985, Serj vive e lavora nella Capitale, dove risiede da quando ha concluso i suoi studi con la guida del suo insegnante, l’artista Gianfranco Notargiacomo, presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Il suo lavoro ruota intorno all’idea di dispositivo-macchina in grado di generare percorsi significanti. Ne parliamo con l’artista stesso che fino al 31 gennaio espone in una personale, MIRA-MORSA, progettata per Operativa Arte Contemporanea. L’interessante galleria in Via del Consolato a Roma, orientato unicamente ai giovani artisti, lo segue da un po’: già nel 2013 lo aveva invitato a partecipare a Il Peso della Mia Luce, iniziativa espositiva a più episodi, dove l’opera di Serj si confrontava efficacemente con quella di Diego Miguel Mirabella, indagando in modo antitetico l’essenza visiva e concettuale della luce.
In Mira-Morsa, una serie di installazioni formate da lunghe barre di ferro o vetro, servendosi del principio della morsa, trattengono oggetti di piccole dimensioni; o anche, come nel caso dell’opera sonora, una cassa acustica che emettendo un suono crescente/de-crescente, fa vibrare il materiale, originando particolari sfumature di suono.

Ci dice:

“Trovo fondamentale parlare del mio lavoro, non tanto per rivisitarne le forme, quanto per percorrerne le dinamiche che nel mio caso sono spesso paradossali. Parlarne è inoltre una personale forma di resistenza nei confronti di quella attitudine nichilista che si manifesta come strumento e scusa per molti artisti della mia generazione. Nel mio lavoro tendo sempre a utilizzare termini e forme che hanno molteplici letture e diversi sensi: segni che sono instabili. Utilizzo questi e pochi ripetuti segni per costruire quelli che definisco strumenti di mira del distacco, opere che mirano a contenere quel gap che, in fondo, è il comune denominatore di ogni mia opera. In generale cerco sempre di intendere l’opera come strumento, come macchina.”

Nel 2013 anno nel quale sei anche stato selezionato per Factory al Macro Testaccio, hai realizzato con Guido D’Angelo il progetto Codima presso Il cortile dell’Arte, dove esploravi il concetto cardine della macchina-dispositivo. Ci racconti quella esperienza?

“La collaborazione con Guido D’angelo ha messo particolarmente in luce quelli che sono i possibili percorsi dell’opera intesa come macchina-dispositivo e nello specifico la sua duplice funzione di matrice-prodotto. Se per macchina s’intende un dispositivo composto da parti, atto a produrre un qualcosa, analogamente l’opera è un insieme di possibili parti, possibili disposizioni e scelte che producono inevitabilmente ed in maniera autonoma un qualcosa. Partendo da questo presupposto, il mio compito è quello di orientare i comportamenti di questi dispositivi, metterli in tensione, al fine di avvicinarli il più possibile ai propri limiti.”

Per “limiti” intendi quelli meccanici?

“Non esclusivamente limiti meccanici, ma piuttosto i margini poetici che non sono nient’altro che il prodotto ultimo di questi dispositivi, al di là di ogni loro possibile senso a priori. Tutte queste opere-macchina sono concepite includendo l’eventualità di un loro possibile crollo, sia esso fisico (della struttura in sé) sia esso più prettamente teorico. Nella concezione rettilinea del mio lavoro, in cui intendo le opere come costanti progetti a posteriori, il crollo o la negazione di un’opera altro non è che il propellente della successiva. Prendere in considerazione il crollo dell’opera, in alcuni casi predisporlo, è anch’esso segno. In più di un caso e in più di una modalità ho tentato di definire la problematica legata alla genesi dell’opera ed ho osservato come l’opera abbia possibilità di creare il modello da cui essa stessa è estratta. L’opera come atto d’ipotesi verso se stessa, e in quanto ipotesi non necessariamente confermabile.”

Cosa è per te il processo creativo?

“Considero il processo creativo come gioco, in cui gioco è spazio delle possibilità e delle regole che non appena formulate vengono messe in discussione. Nella creazione di un lavoro, il limite tra quella che si potrebbe definire, “fase progettuale” e la “fase realizzativa”, è impalpabile. Difficilmente mi è capitato di pensare ad un lavoro e realizzarlo seguendo un percorso lineare. Quello che faccio è piuttosto accumulare segni (siano essi suoni, pelli, barre in metallo, vetri o oggetti vari) per poi incominciare a disporli e metterli in rapporto. Solitamente questo processo si traduce in un grande accumulo che viene progressivamente distillato. In questo perenne gioco di variabili, in cui sensi e segni si mescolano costantemente, spesso si pongono quelle condizioni che danno vita all’opera.”

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Lori Adragna nata a Palermo, vive e lavora a Roma. Storico dell’arte con perfezionamento in simbologia, critico e curatore indipendente, dal 1996 organizza mostre ed eventi per spazi pubblici e privati tra cui: Museo Nazionale d’Arte orientale di Roma; Villa Piccolomini, Roma; Museo D'Annunzio, Pescara; Teatro Palladium, Università Roma Tre; Teatro Furio Camillo, Roma; Palazzo Sant’Elia, Palermo; Museo di Capodimonte, Napoli; Complesso monumentale di San Leucio, Caserta; Museo Carlo Bilotti Aranciera di Villa Borghese, Roma. Come consulente editoriale e artistico ha collaborato con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (mostre e cataloghi nel Complesso monumentale di S.Michele a Ripa) e come collaboratore-autore presso l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani. Lavora con la qualifica di content editor presso Editalia, IPZS. I suoi testi sono pubblicati su enciclopedie, libri, cataloghi e riviste, in Italia e all’Estero. Scrive come free lance per numerose riviste specializzate nel settore artistico e collabora con la testata Artribune.

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