L’invenzione della solitudine. Battiston interpreta la freddezza di Paul Auster

L'invenzione della solitudine - ph. Bepi Caroli

«È stato, non è più. Ma tu ricorda». È forse opportuno partire dalla conclusione, per raccontare L’invenzione della solitudine di Paul Auster nella versione che Giuseppe Battiston ha portato in scena al Teatro Giuditta Pasta di Saronno. Così si chiude il testo dello scrittore di Newark. Racconto in memoria di un padre appena dopo la sua scomparsa, divenuto assente nel corpo come sempre lo era stato in spirito ed emotività. Distante e incapace di ogni emozione verso il figlio – cui Battiston presta il corpo – che lo racconta sperando di lenire con la scrittura la ferita di quel vuoto: arriverà tuttavia a comprendere di renderla invece, così facendo, sempre più dolorosa. La chiusa è apice di un crescendo di pathos che si snoda nel finale del testo – e tuttavia solo lì – e che si lascia ricordare, cui l’attore – già vincitore di un premio Ubu, a margine della nota e fortunata carriera cinematografica – dà corpo con mestiere.

Paul, protagonista della pièce, rimasto definitivamente solo con la morte del padre per un attacco di cuore, occupa la scena in mezzo a un ammasso di scarpe e cappotti neri sparpagliati a ingombrare il palcoscenico; alle spalle un frammento di specchio obliquo – ingigantito dalla scelta registica – che ne sdoppia la figura alterandola, suggerendo la complessità dei sentimenti che lo animano.
Lentamente prova a mettere ordine intorno e dentro di sé, descrivendosi. Il trasloco degli averi del padre diventa allora occasione per sviscerare i propri ruoli di figlio prima, uomo e a propria volta padre poi, affastellando senza soluzione di continuità episodi di vita vissuta, di cui tuttavia si fatica spesso a cogliere il nesso logico, che forse è da riconoscersi piuttosto nella natura di questo testo: un pezzo di narrativa, piuttosto che un testo teatrale. Di più, un testo di narrativa americana contemporanea, che spesso negli ultimi decenni coincide, e ancora di più nelle opere di Auster, con una scrittura asciutta, senza fronzoli, fortemente descrittiva. Stile che indubbiamente funziona sulla pagina. Rimane tuttavia il dubbio se possa dirsi altrettanto sulle tavole di un palcoscenico, dove spesso finisce, eccezion fatta per il crescendo conclusivo sopra citato, indulgendo eccessivamente alla descrizione, col mancare di lirismo e di potenza espressiva, riducendosi a racconto di eventi.
L’ordine che l’attore fa sulla scena, rendendola progressivamente sempre più bianca e spoglia, diventa allora la fotografia di un eccesso, che Giorgio Gallione tratteggia con una regia lineare, come accade sovente nei lavori lavori di un regista uso soprattutto di recente a occuparsi di monologhi di attori capaci da soli di riempire la scena, una su tutti Lella Costa.

Giuseppe Battiston, si dica chiaramente, non fa eccezione. Attore di indubbia capacità, gestisce con buon mestiere il proprio ruolo, senza errori e però senza picchi, dimostrando le proprie qualità di narratore e di affabulatore – malgrado la scelta di amplificare la voce che contribuisce probabilmente a limare qualcosa sul piano dell’espressività tipicamente teatrale – piuttosto che vestendo la pelle del’uomo che impersona, il quale, tuttavia, appare in molti punti distante persino da sé stesso, profondamente e intimamente solo a tal punto da farsi avaro di emozioni, oltre che di parole, quantomeno per ciò che concerne la trasposizione scenica, senza dubbio un tipo di progetto che richiede, in genere, grandi e sapienti cautele.
Nei minuti finali si lascia invece campo al talento dell’attore ed esplodono, quasi deflagranti, la rabbia e le passioni dell’uomo che racconta, la cui freddezza è resa tecnicamente, precedentemente, con una precisione quasi inquietante.
Si tratta per nell’insieme di un lavoro il cui migliore pregio è infatti paradossalmente la misura, che potrà riuscire gradito a quei forti lettori che trovano in essa, e nell’analisi puntuale della realtà per ciò che effettivamente è – soprattutto nelle sue asprezze – la qualità del racconto. Contribuiscono a questa misura le rarefatte ed eleganti musiche di Stefano Bollani, che punteggiano i pochi e studiati movimenti dell’attore sulla scena. Non si perde comunque la piacevolezza del racconto, che resta gradevole e aiutato anche dalla durata – cinquantanove minuti esatti – a evitare lo strisciante rischio della noia.
Un lavoro fortemente intimo, in cui ciascuno potrebbe riconoscere sè stesso e le piccole e grandi tragedie, fallimenti e assenze del proprio personale quotidiano. Potenzialmente. È tuttavia un percorso lasciato quasi interamente allo spettatore, e a risentirne è l’emotività e la passionalità delle parole, di per sè tutt’altro che deboli.

Gradevole, quindi, scarno e a tratti tagliente, ma sostanzialmente monocorde, nella propria struttura interna più che nell’interpretazione. Monco di aspetti per i quali farsi ricordare, e quindi piuttosto deludente, soprattutto considerando la potenziale forza di un interprete che certo non manca dell’abilità per lasciare allo spettatore uno spunto e un’immagine o una forte emozione da fare propria. Rimane sottotraccia eppure preponderante il dubbio che una simile lettura sia stata voluta ed espressamente ricercata. Si sarebbe in questo caso spinti a riconsiderare in quest’ottica l’intera pièce, che in questo senso, dal punto di vista prettamente tecnico, non fa errori e potrebbe convincere. Ciò esemplifica tuttavia quanto si tratti di un lavoro la cui percezione è fortemente dipendente dal gusto personale.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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