Letterature Festival. Differenze. Quando la letteratura è vitale come l’acqua.

Vinicio Capossela - Ph. PIero Bonacci

Quinta serata in Piazza del Campidoglio per il Festival Letterature: #Differenze. La chitarra elettrica di Corrado Nuccini e il violino di Emanuele Reverberi accompagnano sul palco Emidio Clementi. Chi si ricorda degli Ovitz è al contempo il titolo e l’incipit del suo inedito. Ovitz è il cognome di dieci fratelli, teatranti, rumeni, ebrei, di cui sette nani. Una volta internati ad Auschwitz, il medico tedesco Josef Mengele li ritiene un oggetto di studio così interessante per i propri esperimenti di eugenetica da ritardare più e più volte la loro condanna a morte, fino ad assicurare loro la salvezza: al momento della liberazione del campo, tutti e dieci sono ancora vivi. È la storia beffardamente crudele di un bene che può nascere da un’azione votata al male; più o meno come la storia di Andre Agassi, il tennista che odia il tennis, quello sport a cui è costretto dalla volontà oppressiva del padre e che gli darà però popolarità internazionale.
È nel concetto di positivo che nasce dal negativo che si inquadra la storia dello stesso Clementi, giovane sbagliato che convive con un perenne senso di solitudine. Diversità, da cui esce però «gonfio di parole» da buttare su carta, con cui raccontare il mondo che lo circonda, in modo realistico, un po’ difettando d’immaginazione. Scrivere non dà un senso alle cose, ma aiuta ad accettarle e a rendere la vita preziosa e degna di essere vissuta. Nella ricerca di un proprio stile, Clementi guarda al modello degli autori americani, così attaccati alla realtà, così calati nella verità delle cose, capaci di cogliere nei propri limiti l’opportunità da cui partire. E la scrittura diventa un atto di creazione e trasformazione divina: solo lasciandolo emergere a galla il tutto (cose persone luoghi) può essere catturato, modellato e raccontato. L’atto di scrivere è così un’affermazione d’identità che parte dal limite della diversità, passando da uno stato di debolezza a uno di forza; e la vita dello scrittore è una vita da privilegiato, perché permette di lavorare con le proprie idee e con la propria visione del mondo.

Maurizio De Giovanni è presentato dall’attrice Isabella Ragonese, che legge un estratto del suo ultimo libro, Anime di vetro (Einaudi). Il titolo dell’inedito è Tutta quell’acqua, e la voce un po’ roca ma caldamente napoletana dell’autore trasporta il pubblico nel mezzo di un bombardamento in piena guerra. Un ragazzo riesce a infilarsi in un rifugio, una grotta umida di tufo. Dentro, tra le altre decine di persone stipate, vecchie che pregano (per cosa?) e una ragazza carina che legge un libro. È tutto molto fastidioso: cosa ci sarà mai scritto tra quelle pagine da essere più importante delle bombe che crollano lì fuori? Le dice di smetterla: è da immaturi e da vigliacchi rifugiarsi in un mondo immaginario, tentare di scappare dalla guerra. I due cominciano a litigare, ma sono interrotti da un vecchio che parla con uno strano accento, blandamente spagnolo. E qui parte un vero e proprio racconto nel racconto: l’uomo dice di essere uno scrittore, o meglio, uno che racconta storie per i villaggi della terra da cui è stato esiliato, martoriati dalle esalazioni velenifere delle loro miniere. L’alcalde di uno di questi villaggi, condannato come gli altri abitanti a una morte precoce, chiede all’anziano narratore un favore: portare il mare a quegli uomini di montagna che ne hanno sempre sentito parlare ma non ne hanno mai goduto lo spettacolo. Lo scrittore accetta, ma portare il mare è un lavoro faticoso: tutta quell’acqua… Impiega una notte intera, ma ne vale la pena. Nel rifugio di tufo l’attenzione dei due ragazzi è completamente ancorata alle labbra del vecchio. Stanno ancora ascoltando, quando si accorgono che la sirena dell’allarme ha smesso di suonare. Escono tutti, tranne l’anziano narratore. I ragazzi gli chiedono il motivo della sua bizzarra scelta di rimanere: lui risponde di vivere proprio lì, in quella grotta, in quel rifugio di tufo, sempre pronto a raccontare storie contro l’orrore della guerra, per portare sempre acqua, dare la vita e togliere la paura.

La musica di Mirco Mariani e le parole di Vinicio Capossela trasformano l’ambiene, e il palco del Campidoglio diventa una sorta di circo itinerante, circondato di luci e di ritmi gitani. L’inedito di Capossela, La notte dei giostrai, avrebbe dovuto aprire il suo ultimo libro, Il paese dei coppoloni (Feltrinelli). L’autore lo introduce rivendicando quanto abbiamo da imparare dalla cultura nomade: come evitare, per esempio, che i nostri beni materiali, le nostre cose, diventino i nostri padroni. Il racconto è una passeggiata notturna in un luna park dormiente ma luminoso, con i caravan superaccessoriati come transatlantici, e lampadine che brillano dietro il plexiglas delle roulotte. È la vita che brulica in un’atmosfera sospesa tra una favola e una magica realtà: oche che starnazzano in un recinto, un uomo che spara alle oche che starnazzano, e per sottofondo, ovunque, musica araba. È tutto immobile, una «città fantasma di creature mute»; ma la vita è nascosta e pronta a emergere a intervalli, come quelle lucine intermittenti che si guardano allo stesso modo in cui si guarda un albero di Natale.

Ancora musica: Vinicio Capossela imbraccia la chitarra e, dopo aver letto alcuni brani de Il paese dei coppoloni, canta quasi sussurrando la sua Cancion mixteca, che chiude sfumando in un soffio di vento.

La serata si conclude con applausi meritatissimi. Tre racconti: come ha fatto a starci dentro, tutta quell’acqua?

 

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Lorenzo Moltedo nasce a Roma nel 1991. Laureato (triennale) in Lettere Moderne presso “Sapienza” Università di Roma con una tesi sull’Orlando Furioso, è davvero curioso di conoscere cosa gli riserva il futuro. Non saprebbe immaginare una vita senza libri (e lo scrive con il rischio di sembrare retorico). Tra gli altri suoi interessi: viaggi, corsa, cinema e, in generale, ogni forma di manifestazione artistica. Quella con artapartofcult(ure) è la sua prima esperienza “ufficiale” di scrittura.

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