Letterature Festival 2018 #4. Berlino/New York/Roma/Pointe-Noire andata e ritorno

Alain Mabanckou

Quinta serata per il Letterature Festival 2018. Il diritto e il rovescio, che fanno da filo conduttore di tutti gli appuntamenti di quest’edizione, sono stavolta calati nelle strade di quattro città, raccontate da altrettanti autori che vi sono legati per nascita o per affinità elettive.

Introdotto dal violino magnetico di H.E.R., il primo a leggere il proprio inedito, Berlino, è lo scrittore francese Olivier Guez, che sceglie di accompagnarci in una passeggiata immaginata tra le strade di quella che è stata la capitale simbolica dell’Europa del ventesimo secolo. L’intero racconto è infatti caratterizzato da un continuo richiamo alla funzione storica di Berlino, al suo essere stata scenario di eventi atroci e meravigliosi, che hanno portato nel tempo alla costruzione di una comunità e di un’identità europea.

Il diritto e il rovescio della Storia, insomma: o, in questo caso, la città che affronta il rovescio con duttilità finché non lo trasforma in occasione di rinascita.

Così, dalla guerra franco-prussiana si passa alla bellezza stabile e miracolosamente intatta della porta di Brandeburgo, dal monumento ai caduti sovietici della seconda guerra mondiale agli alberi del parco di Tiergarten, dal memoriale della Shoah, che sembra piangere lacrime quando gli piove sopra, a Potsdamer Platz, che rinasce come una fenice dai crimini di cui è stata scenario, diventando uno dei poli culturali più importanti della città. «Berlino è una città che coniuga il suo presente e il suo passato per abbracciare meglio il futuro».

Sulle note di Nino Rota, rielaborate dalla Roma Tre Jazz band, si passa da Berlino a Roma. È Corrado Augias a raccontarla nell’inedito che porta il nome della Capitale, e a sottolineare fin da subito come Roma sia stata segnata da diritti e rovesci lungo tutto l’arco della sua Storia. Per dimostrarlo, Augias passa al racconto di due periodi di fioritura e rinascita romana, rivelandone pian piano il seme nascosto di futuri “rovesci”. In primis, la breccia di Porta Pia il 20 settembre 1870, che segna la fine della Roma papalina e apre la strada che porterà la città a essere proclamata capitale del Regno d’Italia. Quello che è uno dei punti di svolta della Storia nazionale segna anche l’inizio di un braccio di ferro tra Chiesa e Stato, inaugurato dalla Non expedit di Pio IX, che preclude ai cattolici la partecipazione alla vita politica, e, passando per i Patti Lateranensi, porta alle battaglie per il divorzio e l’aborto, che hanno chiamato gli italiani a una forte divisione delle coscienze lungo tutta la seconda metà del Novecento.

Con un ardito salto temporale, la narrazione di Augias si sposta avanti di quasi un secolo per arrivare al 1960, anno della XVII Olimpiade, uno dei momenti più alti della vita moderna di Roma: sono gli anni della «Hollywood sul Tevere», ma in cui già si annida, in forma embrionale, quel lento degrado che porterà alla corruzione morale della società italiana, così come affrescata da Fellini proprio in quegli anni con lo scandalo de La dolce vita.

Terminato il racconto di Augias, sul palco è la volta dello scrittore e attore statunitense Michael Imperioli, che presenta un’inedita New York post-futuristica nel racconto Il volto del Bodhisattva – NY City 33 d.C. Se la Passione di Cristo si fosse svolta nei dintorni di Manhattan, e la Veronica del fazzoletto fosse stata la devota figlia di un lebbroso di nome John, circondata di un particolare carisma spirituale, probabilmente le pagine di un qualche Vangelo apocrifo non sarebbero state così dissimili dal racconto di Imperioli.

Infine, è lo scrittore congolese Alain Mabanckou, nel suo inedito L’arte del vestire nella Sape congolese: indipendenza del corpo o alienazione culturale?, a chiudere la serata con una riflessione ironica, accurata e pungente sul movimento de «La Sape» (acronimo per «Société des Ambianceurs et des Personnes Élégantes», «Società delle persone creatrici di atmosfera ed eleganti»).

I sapeur sono i seguaci di un dandismo che nasce quasi come provocazione nei confronti degli usi e del vestiario dei coloni occidentali, una «religione del tessuto» che rielabora, esasperandoli, gli outfit europei, come un’autoaffermazione di maestria nel saper vestire, pur essendo africani, completi e cravatte in maniera più elegante dei loro importatori.

Quella dei sapeur è una vera e propria comunità, con fondatori e modelli cui ispirarsi (tra tutti, il cantante Papa Wemba), all’interno della quale nascono persino delle sfide di eleganza. Chissà, però, che tutto questo sia davvero una manifestazione di emancipazione da tutti i retaggi lasciati dagli ex-coloni, o se il sapeur si riduca ad essere «un nero che porta una maschera bianca».

In chiusura, appare più evidente il legame tra il titolo della serata e quello dell’intero Festival. In forme diverse, i quattro autori che si sono succeduti davanti a quel leggio hanno raccontato di come le città, visibili o meno, siano fatte di persone e parole, e come tali presentino anch’esse una corrente inesauribile di cambiamento e multiformità: di diritto, e di rovescio.

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Lorenzo Moltedo nasce a Roma nel 1991. Laureato (triennale) in Lettere Moderne presso “Sapienza” Università di Roma con una tesi sull’Orlando Furioso, è davvero curioso di conoscere cosa gli riserva il futuro. Non saprebbe immaginare una vita senza libri (e lo scrive con il rischio di sembrare retorico). Tra gli altri suoi interessi: viaggi, corsa, cinema e, in generale, ogni forma di manifestazione artistica. Quella con artapartofcult(ure) è la sua prima esperienza “ufficiale” di scrittura.

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