Ascoltare storie nuove al Festival delle Letterature

Suggestivo. Un po’ banale come aggettivo, vero? Però, per quanto ci rifletta, mi sembra il più calzante per definire il clima della terza serata del Festival delle Letterature. La piazza del Campidoglio con la sua geometria perfetta, i tre palazzi disposti come braccia spalancate all’accoglienza, i giochi di luce proiettati nella nicchia della dea Roma, il pubblico che riempie lentamente le sedie di fronte al palco, e gli autori che cominciano a raccontare mentre la luce del sole va a buttarsi al di là del Tevere. Come definire tutto questo, se non “suggestivo”?

Il titolo della serata è Io e un altro io. L’apertura è affidata a Rita Marcotulli e alle sue dita che si rincorrono dinamiche sulla tastiera del pianoforte (ha collaborato con, tra gli altri, Pino DanieleChet Baker).
Il primo a leggere il proprio inedito, Il mammut, è Joshua Ferris. La traduzione scorre sugli schermi ai lati del palco. Protagonisti alcuni viaggiatori, differenti per mestiere e personalità, che si imbarcano in Argentina sulla nave Europa; meta: Antartide. Il tragitto si rivela non facile, occorre che tutti si scontrino con gli imprevisti dettati dalla convivenza, da esigenze pratiche, dall’aver intrapreso una traversata via mare verso un continente pressoché sconosciuto. C’è una dimensione della fisicità del viaggiare che Ferris rende perfettamente. L’arrivo destabilizza. Destabilizza perché l’Antartide è enorme, con tutto quel ghiaccio, e il bianco degli iceberg e il nero delle spiagge. “La superficie di Marte è più familiare”. E quel bianco, quel ghiaccio, quella neve stanno dicendo qualcosa di preciso, di cui è difficile rendersi conto nella vita freneticamente abitudinaria di un abitante di città: che “abbiamo preso tutto in prestito”, che siamo solo esseri di passaggio nel sempiterno roteare del mondo e che la presenza di quei viaggiatori in Antartide è tanto innaturale quanto la pretesa umana che la Terra sia stata creata ad hominem.

Poi c’è di nuovo la musica di Rita Marcotulli, che stavolta rimane anche per accompagnare silenziosamente il racconto di Paolo Giordano, Giustizia.it. È la storia di Simone, un bambino che frequenta la seconda elementare (l’autore presenta l’inedito come perfetto per accompagnare l’atmosfera da fine scuola di questi giorni) e che manifesta gusti e tendenze tipicamente femminili: gli piacciono i giochi da bambina, non ha amici maschi e ha convinto i genitori a iscriverlo a un corso di danza classica. La madre, Gloria, definisce il suo comportamento “bizzarro”, mantenendosi così in un’area neutra che permette di non toccare direttamente la questione dell’omosessualità del figlio, o almeno di non chiamarla con il nome appropriato. I genitori amano Simone “quasi incondizionatamente”. Il fatto è che la decisione del bambino provoca un vero e proprio terremoto psicologico nel mondo degli adulti, li costringe a smascherare ipocrisie e buonismi di facciata, a confrontarsi con le risse che Simone, provocato dal compagno Alberto, scatena regolarmente in classe. Ed è quando la maestra Emma, in un attacco di nervosismo, rimprovera a Simone di non comportarsi in maniera “normale” che nel ferino microcosmo delle mamme tutto si rompe, in una polarizzazione che vede Gloria da sola contro tutte le altre che difendono l’operato della maestra. Al termine dell’anno scolastico, Simone dovrà cambiare scuola. Ma riceverà dai genitori, come regalo per la promozione, una coroncina d’argento.

Di nuovo un giro di pianoforte, poi sale sul palco Benjamin Alire Sàenz con l’inedito Juàrez non si ferma al confine; più che un racconto, una pagina di memoria autobiografica. La Juàrez del titolo è una cittadina al di qua della linea che separa Messico e Stati Uniti d’America, dove il padre di Sàenz portava i cinque figli a tagliare i capelli. Il ponte di Santa Fe segna il passaggio tra la calma e puritana vita nella tenuta contadina del New Mexico e la frenetica vivacità di Juàrez, immersa in un’atmosfera di carnevale perenne. Con il passare del tempo, la cittadina diventa il luogo dove il giovane Sàenz e i suoi amici possono fingere di essere adulti, aggirando con un semplice passaggio di frontiera il divieto americano di servire alcolici ai minori. È più raggiungibile di Las Vegas, più vicina di Città del Messico, ed è l’elemento fondamentale di un’equazione per cui, se gli Stati Uniti stanno all’ordine, allora Juàrez sta al caos. È la vita libera, anche se povera, anche se segnata da disparità sociali lampanti e devastanti. “Juàrez era il solo Messico che conoscessimo”, dice Sàenz, che poi arriva a sottolineare come la parola sia la migliore arma di denuncia, come la propria indole di scrittore lo porti a voler trasmettere un messaggio: la sterilità dell’odio statunitense nei confronti del Messico e dei messicani, e il valore spesso solo arbitrario di un confine tracciato sulla terra. Confine su cui Juàrez non si è fermata, come spiega il titolo dell’inedito, perché è sempre rimasta nascosta nel cuore dell’autore, “spingendo per trovare luce”.

La chiusura della serata è affidata a Rita Marcotulli. Poi gli autori si presentano sul palco per un applauso finale. Poco più di un’ora, ma di assoluta godibilità. Il Festival delle Letterature è anche un occasione per fermarsi ad ascoltare storie, per farci leggere un racconto. Solo ascoltare, quasi come una fiaba della buonanotte. E anche per riscoprire un po’ il valore della parola .Scritta, ma soprattutto letta

 

 

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Lorenzo Moltedo nasce a Roma nel 1991. Laureato (triennale) in Lettere Moderne presso “Sapienza” Università di Roma con una tesi sull’Orlando Furioso, è davvero curioso di conoscere cosa gli riserva il futuro. Non saprebbe immaginare una vita senza libri (e lo scrive con il rischio di sembrare retorico). Tra gli altri suoi interessi: viaggi, corsa, cinema e, in generale, ogni forma di manifestazione artistica. Quella con artapartofcult(ure) è la sua prima esperienza “ufficiale” di scrittura.

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