Giardini. Robert Pogue Harrison e le riflessioni sulla condizione umana

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Dopo Il dominio dei morti, Giardini – Riflessioni sulla condizione umana è il nuovo avvincente viaggio intellettuale di Robert Pogue Harrison, che Fazi pubblica nella traduzione italiana a cura di Marianna Matullo e Valentina Nicolì.

Di vero e proprio viaggio, infatti, si può parlare, a proposito di questo saggio che, pur fondato su una solida ricerca accademica (Harrison insegna letteratura italiana all’Università di Stanford), non rinuncia a un’impostazione divulgativa che lo rende facilmente accessibile. L’autore attraversa epoche, culture e luoghi differenti sostando nei giardini che li hanno caratterizzati, accompagnandoci nella scoperta di tutto ciò che proprio il giardino nasconde e rappresenta, e di come questo possa farsi specchio di una necessità spirituale o di un’identità culturale. Ci si stupisce piacevolmente, nello scoprire quanto di una società o di una forma mentis possa esserci rivelato dalla cura che gli uomini hanno applicato e continuano ad applicare all’interno dei propri giardini.

Ed è proprio il concetto di «cura» che Harrison utilizza come punto di partenza e filo conduttore del  percorso. La necessità di dedicarsi alla terra per ricavarne di che vivere è ciò che ha reso l’uomo tale, spostandolo dal giardino paradisiaco di Eden, dove tutto era concesso sostanzialmente senza alcun tipo di impegno diretto, agli orti e ai campi terrestri, dove invece l’uomo realizza e riconosce sé stesso nell’esercizio continuo della vita activa, e in un investimento di responsabilità e maturità.

Se si considera, effettivamente, il giardino come esempio della nostra naturale predisposizione al «fare», all’impegno, al contatto diretto con un suolo che richiede fatica e pazienza, dall’altra parte ci si chiede come tutto questo possa conciliarsi con l’immagine di un giardino inteso quale spazio di sosta, pace, contemplazione. Nell’attraversare vari tipi di hortus conclusus, dalla villa fiesolana del Decameron di Boccaccio ai cortili dell’Accademia di Platone, Harrison chiarisce come il giardino sia uno spazio solo apparentemente “chiuso” ed escluso dal dinamismo della realtà in cui pure si inserisce. I suoi confini sono infatti permeabili, consentono a chi li abita un momentaneo isolamento da “ciò che è fuori” che, però, non è davvero tale. E così ai giovani protagonisti del Decameron, che si allontanano da una civiltà ormai degradata dalla peste, lo spazio del giardino permette di ricreare e rifondare le nuove regole del vivere sociale, offrendosi come cornice ideale all’esercizio del racconto; allo stesso modo, i cortili aperti dei palazzi fiorentini di pieno Umanesimo accolgono intellettuali e cittadini in un affaccio-abbraccio sulla città che deve essere “curata” (per l’appunto, come un giardino). È in questo suo essere contemporaneamente chiuso e aperto, dentro e fuori dalla realtà e dalla natura, che il giardino può costituire il centro simbolico attorno a cui si organizzano le varie forze in gioco della cultura, della società, della spiritualità (illuminante, a questo proposito, la vera e propria dichiarazione d’amore che Harrison riserva al giardino Kingscote dell’università di Stanford).

Al di là della sua forte rappresentatività religiosa e spirituale (si leggano le considerazioni che l’autore riserva allo spazio «giardino» nelle varie culture islamica, nipponica-zen, cristiano-occidentale), il giardino presenta una connaturata valenza mistica, quasi epifanica, costituendosi come luogo che, se ben vissuto, allena una capacità di “vedere” che l’uomo sembra avere quasi completamente atrofizzato. Nel filtrare i rumori provenienti dall’esterno, nel restituirli attutiti e lontani, nel nascondere forme di vita in un gioco di fruscii e di ombre e, dall’altro lato, nel rivelare forme e colori, il giardino è il contesto ideale per comprendere che non tutto è sempre visibile, che la vita si nasconde anche dove non è evidente: sotto le pietre, nelle radici, nel folto delle siepi e dei cespugli. Il giardino, in sostanza, può aiutarci a rendere visibile l’invisibile, e a rafforzare così il nostro senso di clorofilia e biofilia: un amore innato (ma forse un po’ represso) verso tutto ciò che è vivo e naturale.

Nel catalogo intellettuale tracciato da Harrison compaiono opere e nomi tra i più rappresentativi della cultura e della storia universali (dall’epopea di Gilgamesh a Omero, dalla Bibbia al Corano, da Karel Čapek a Italo Calvino), a testimonianza che il modo di intendere e coltivare il giardino costituisce davvero uno strumento rivelatore del modo di intendere e coltivare le identità individuali e sociali.

Soprattutto, però, al lettore resta l’immagine del giardino come simbolo della «cura» che l’uomo dedica a sé stesso e all’ambiente in cui vive, come immagine dell’impegno cui è costantemente chiamato per rendere abitabile il luogo in cui stare. Come esempio concreto, in sintesi, di ciò che Voltaire scriveva a conclusione del proprio Candido: «Il faut cultiver notre jardin» («Dobbiamo coltivare il nostro giardino»).

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Lorenzo Moltedo nasce a Roma nel 1991. Laureato (triennale) in Lettere Moderne presso “Sapienza” Università di Roma con una tesi sull’Orlando Furioso, è davvero curioso di conoscere cosa gli riserva il futuro. Non saprebbe immaginare una vita senza libri (e lo scrive con il rischio di sembrare retorico). Tra gli altri suoi interessi: viaggi, corsa, cinema e, in generale, ogni forma di manifestazione artistica. Quella con artapartofcult(ure) è la sua prima esperienza “ufficiale” di scrittura.

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