Le prove di esilio. I due volti del carcere di Caccamo e Krauspenhaar

COPERTINA-CACCAMO
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«Il carcere è uno stato di regressione dinamica, agisce minuto dopo minuto per svuotamento». Così Michele Caccamo, a pagina 28 de Le prove di esilio (Sillabe di Sale editore), di cui è coautore assieme a Franz Krauspenhaar. Foglio numero dieci, scritto dal carcere. Sembra che la penna si posi sulla carta e se ne stacchi immediatamente, frammentando l’inchiostro, assumendo la forma spezzata di un pensiero che si articola su singole pagine, che inizia con la prima riga in alto e finisce con l’ultima in basso. Poi un altro foglio, nuova carta su cui riversare ancora un pezzo del proprio pensiero, che esige con urgenza di metamorfizzarsi nella fisicità della parola scritta. Sono «indistinguibili appunti slegati», come li definisce il titolo del capitolo che li contiene. E tutta la scrittura del libro, bipartito tra il carcere reale di Caccamo e quello mentale di Krauspenhaar, ha un andamento franto, che procede per segmenti, passando bruscamente da una prosa diaristica a una poesia buttata su carta ad assecondare le spinte della coscienza. L’immagine che Caccamo restituisce dell’esperienza del carcere è uno spaccato piuttosto nitido su una problematica civile e sociale ad oggi affatto irrilevante. La vita al di qua delle sbarre si gioca sul progressivo annullamento dell’individuo, sulla tendenza a una massificazione fluida, quasi sull’indebolimento della personalità singola, verso la creazione di un’«inesistente associazione» di cui tutti sono «occulti, silenziosi, complici». Su tutto fa forza l’assenza di un progetto di redenzione e di efficace reinserimento nella società civile, laddove il compito punitivo dell’istituzione carceraria mortifica e annulla la sua controparte riabilitativa e rieducativa. E da qui quello «stato di regressione dinamica», per cui si è sospinti, più che indietro, verso il basso, in un’apatica condizione di «sonnolente mollezza», dove l’uomo (giustamente?) punito è ridotto allo stato di un vegetale in un «giardino posticcio», e dove persino l’aria concessa per un’ora sembra perdere ogni connotato di vitalità.

Le poesie di Franz Krauspenhaar si incontrano proseguendo nella lettura, nella seconda parte del libro; spiazzano, ma non troppo: ci si rende conto che non si sta più parlando di un carcere reale o quantomeno concreto, tangibile, ma di qualcosa che non è così dissimile. Alcune parole, alcuni versi, alcuni pensieri potrebbero nascere davvero dalla sensibilità di un uomo in cella. Qui, però, le quattro mura sono quelle della depressione, e la visione del paesaggio che c’è fuori è comunque ferita dall’ombra delle sbarre. I componimenti, brevi, dall’andamento molto prosastico, descrivono una realtà satura di risvolti negativi, dove la lotta tra la bellezza e i suoi avversari segna sempre una vittoria della stanchezza, della guerra, della solitudine, di uno sguardo sul mondo malinconicamente disincantato, che trasforma la forza dell’aria estiva in una violenza sfiancante e la mente in un Vietnam che ha conosciuto la fine di qualsiasi festeggiamento. La poesia prosegue solida tra immagini crude e accostamenti estremi: mostrare agli amici foto delle vacanze è come «mettere/una lima in bocca a un detenuto/appena morto», l’amore è spacciato come «una vescica/piena di piscio».

Quella di Krauspenhaar è la voce di chi, nonostante i tentativi, non riesce a essere libero, e si ritrova continuamente serrato in una solitudine da cui i rapporti tra le cose si osservano in un’ottica quasi deformata ma non per questo meno reale, come se tutto (aria, acqua, affetti, valori, persone) fosse ancorato a terra dalla pesantezza di un’ulteriore gravità.

Poi, però, c’è la scrittura. Anzi, la poesia. Che non sempre salva, ma può aiutare. Stendere l’emozione sulla carta e darle un corpo d’inchiostro, e vedere il proprio disagio e la propria sofferenza lì, nero su bianco, tradotti in parole, punti, virgole e capoversi. Caccamo e Krauspenhaar affrontano le proprie carceri con l’atto della scrittura, e la penna diventa una lima con cui scheggiare le sbarre fino a consumarle. Tanto che l’unica pagina tra gli appunti di Caccamo a non essere numerata è l’ultima, una lettera ai figli titolata «foglio d’amore». È un invito insieme triste e coraggioso, un’esortazione all’osservanza di valori positivi in un mondo in cui esistono anche il male, la prigionia, il carcere. Gli strumenti con cui si resiste sono la coscienza pulita, l’uso corretto della ragione, l’aiuto verso il prossimo. E, verrebbe da aggiungere a fine lettura, la parola scritta, a garanzia non tanto di salvezza, quanto di libertà.

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Lorenzo Moltedo nasce a Roma nel 1991. Laureato (triennale) in Lettere Moderne presso “Sapienza” Università di Roma con una tesi sull’Orlando Furioso, è davvero curioso di conoscere cosa gli riserva il futuro. Non saprebbe immaginare una vita senza libri (e lo scrive con il rischio di sembrare retorico). Tra gli altri suoi interessi: viaggi, corsa, cinema e, in generale, ogni forma di manifestazione artistica. Quella con artapartofcult(ure) è la sua prima esperienza “ufficiale” di scrittura.

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