Festival delle Letterature. Il muoversi e il sapere. E l’immaginario

Festival delle Letterature - Jonathan Lethem - Walter Veltroni - Mario Calabresi (ph. Piero Bonacci)

Terzultima serata del Festival delle letterature. Alle spalle del pubblico (più o meno), Marco Aurelio con lo sguardo rivolto al tramonto; di fronte, il vicentino Danilo Rea che si siede sul palco e comincia a passare le dita sui tasti del pianoforte. Titolo della serata: In famiglia e nel mondo. Primo autore a leggere il proprio inedito, Sapere e arrivare. Profondità e movimento, è Walter Veltroni.

Non è un racconto, ma una riflessione che si snoda a partire da uno spunto curioso: l’iPhone che corregge automaticamente in “sto arrivando!” qualsiasi tentativo di digitare la parola “sa”, intesa come terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo “sapere”. Ha ragione l’ormai onnipresente prodotto Apple quando ci indica che la meta non è la direzione, ma il movimento? “Solo in parte”, è la risposta. Tutto acquista un senso quando si capisce che sapere e arrivare non solo sono entrambi costituenti essenziali dell’esperienza umana, ma sono sostanzialmente la stessa cosa: non si arriva da nessuna parte se non si attraversa in precedenza il passaggio fondamentale del sapere e del conoscere a fondo. È un atto lento che, tuttavia, permette di proseguire nella vita con consapevolezza, abbandonando l’idea ormai dilagante secondo cui l’unico tempo storico degno di considerazione sia l’immediato presente. Al contrario, occorre abbracciare un bagaglio, anche emotivo, legato al passato per poter concepire e progettare un nostro futuro, altrimenti “non esiste un luogo in cui si arriva, ma solo milioni in cui ci si ferma, in attesa di partire”. Molti i nomi e gli studi citati da Veltroni nel corso dell’intervento: il caso di Kurt Cultrane che, a causa di un incidente, ricorda solo i fatti accadutigli in passato e non gli stati emotivi a essi collegati; la storica Ilaria Luzzana Caraci e il suo saggio Al di là di altrove; La scoperta dell’America di Cesare Pascarella; il sociologo Richard Sennett; non ultimi, i nonni e il padre, mai conosciuti ma non per questo non presenti in un suo “sapere” emotivo. Infine, l’invito a essere consapevoli che, se ognuno è il centro del mondo, lo sono anche gli altri, ed è cercandoli e conoscendoli che si sa, si viaggia e, quindi, si arriva.

La musica di Danilo Rea accompagna l’arrivo sul palco del newyorchese Jonathan Lethem, autore dell’inedito Sette stazioni del testimone trasferito. È la storia in sette punti, intervallati da immagini proiettate su schermo, di un certo T. Trasferito (“oral witness”, nell’originale inglese). Lethem la racconta gesticolando spesso teatralmente. Il personaggio conduce una vita schizofrenica, un po’ disadattata, autorelegato ai margini di una società pur non sentendosene superiore, convinto che l’invisibilità che lo contraddistingue dagli altri sia data solo dalla capacità di volare. Chiuso in casa, si accorge di quanto la vita di famiglia si riveli “simile agli arresti domiciliari”. Crea il modellino in miniatura di una città, salvo poi costruirlo tanto grande da candidarsene a sindaco e da stupirsi di non avere avversari politici. È solo quando entra in un casinò a seguito di un viaggio oltreoceano (“nei viaggi notturni c’è una misteriosa urgenza”) che si sente di nuovo “visibile” agli altri. E allora, forse impaurito, si allontana dai suoi accompagnatori e sale su una collina, e rimane incantato da un palpitare di lucciole; così incentato da sedersi sull’erba, in silenzio, e mettersi al loro servizio.

Sulle note di Across the universe, Danilo Rea introduce Mario Calabresi e il suo Se una foto può guarire il dolore. L’inedito nasce da un’intervista a lungo rincorsa dello stesso Calabresi al fotografo inglese Don McCullin, la cui infanzia è segnata dal dolore. In primis c’è la separazione dalla sorella: piazzati sullo stesso bus dalla madre per farli sfuggire al bombardamento nazista su Londra del 1940, i due fratelli vengono separati all’arrivo in campagna, nel Somerset, dove lei è affidata a una benestante famiglia borghese, lui a una ben più povera casa comunale. Al McCullin bambino è proibito incontrare la sorella e deve limitarsi a spiarla da una finestra: forse è nata da lì la sua tecnica fotografica, un avvicinarsi al soggetto senza lasciarsi vedere. La separazione è stata lacerante: anche ora che porta avanti la propria vecchiaia nella placida campagna inglese, McCullin frequenta molto poco la sorella. A guerra finita seguono la povertà e la morte del padre. Don comincia a fotografare, ma comprende che il proprio dolore per i lutti familiari appartiene universalmente al genere umano solo quando, nel corso della guerra turco-cipriota, si ritrova quasi per caso a testimoniare con la propria fotocamera la morte di un giovane davanti alla madre. Si dichiara un fotografo, ma non un artista, e aggiunge che il giardino paradisiaco della fotografia lo ha salvato da un’adolescenza già avviata sul solco della criminalità. “La sua storia lo ha vaccinato”, ma lo ha anche condannato a seguire il dolore altrui per ritrovarvi traccia della propria sofferenza, ritraendo persone e situazioni i cui negativi lo perseguitano ancora di notte, come fantasmi. Confessa di volersi dedicare, nell’ultima fase della propria vita, a fotografare il paesaggio inglese, per trovare pace e per non rubare più la tristezza degli altri.

Danilo Rea chiude la serata sulle note di Here comes the sun proprio mentre comincia a pioviccicare. E gli autori di questa sera salgono sul palco per un ultimo, meritato applauso.

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Lorenzo Moltedo nasce a Roma nel 1991. Laureato (triennale) in Lettere Moderne presso “Sapienza” Università di Roma con una tesi sull’Orlando Furioso, è davvero curioso di conoscere cosa gli riserva il futuro. Non saprebbe immaginare una vita senza libri (e lo scrive con il rischio di sembrare retorico). Tra gli altri suoi interessi: viaggi, corsa, cinema e, in generale, ogni forma di manifestazione artistica. Quella con artapartofcult(ure) è la sua prima esperienza “ufficiale” di scrittura.

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